Continua la preoccupazione per il “soldato Draghi” – di Giancarlo Infante

Continua la preoccupazione per il “soldato Draghi” – di Giancarlo Infante

Qualche amico ha espresso una certa sorpresa nel leggere che, solo pochi giorni dopo la discesa in campo di un “peso massimo” come l’ex Presidente della BCE, già ci preoccupiamo del futuro del governo Draghi. E che lo facciamo “citando” il titolo un famoso film in cui, durante lo sbarco in Normandia, il comando americano decide di montare un’operazione straordinaria per salvare, e restituire alla famiglia, un paracadutista disperso di cui si è appena saputo che è l’unico sopravvissuto di quattro fratelli: una operazione insomma  a carattere “umanitario” se mai ve ne furono, e quasi disperata.

Ma come – ci è stato chiesto – siamo già a questo? È questa la nostra valutazione? La situazione è così estrema? Ovviamente, la risposta è stata: sì. Un sì che si fa carico dell’apprensione suscitata dalle tante possibili domande che già oggi si pongono sul futuro di Mario Draghi, e del suo tentativo di dar vita ad un “governo dall’alto profilo”, ma che dovrebbe però reggersi sul sostegno di partiti che non sanno volare se non molto più basso.

Ci preoccupiamo perché abbiamo sempre pensato, e pensiamo più che mai, che per il bene del Paese sia indispensabile salvare l’ultimo dei “fratelli Ryan” insediato a Palazzo Chigi. E perché oggi, dopo la nomina dei sottosegretari, crediamo di aver motivo di preoccuparci un pochino di più rispetto a un paio di giorni fa ( CLICCA QUI ).

Cosa ci dicono quelle nomine? Per prima cosa che assistiamo ad una vera e propria “militarizzazione” dei partiti. Nel senso che i loro uomini sono dispiegati come fossero forze di fanteria su un campo di battaglia. Altro che apertura alla società civile! Altro che recupero di forze vitali espresse da università, imprese, categorie economiche! Si è “scientificamente” continuato a riempire il Governo di gente “fidata”. O del capo assoluto del partito o dei vari capi corrente che in taluni partiti sono numerose e vivaci.
Così, quando Luigi Di Maio rassicura che anche i 5 Stelle sono ormai diventati moderati e liberali ci sembra finire per prendere a modello – ovviamente senza rendersene conto, e ancor meno di essere in grado di esprimerlo – gli aspetti più deteriori dei rappresentanti del partitismo del passato, che pure si definivano moderati e liberali. Ci sembra cioè che il metodo sia stato, anche nel caso dei “grillini”, lo stesso di quei partiti che tanto hanno criticato. Non è per altro se si sono persi per strada parecchi parlamentari.

La “militarizzazione” della componente governativa di ciascuna forza politica si vede chiaramente nella compensazione “salviniana” dei sottosegretari che ha dovuto controbilanciare l’invio a rango di ministri alcuni leghisti che “salviniani” non sono. In riferimento alle tanto proclamate buone intenzioni verso il Governo Draghi, ma molto poco praticate in questo caso, Salvini ha imposto agli Interni quel Nicola Molteni che torna allo stesso posto da cui ha spalleggiato il suo capo nel corso del governo formato con i 5 Stelle e caratterizzato dalla famosa politica dei “porti chiusi”. Lo stesso Molteni che ha sempre sparato a palle incatenate contro quella che d’oggi in poi sarà la “sua” ministra, la prefetta Lamorgese. E’ così che Salvini ha voluto dimostrare la sua squisita sensibilità di statista.

Un’altra conseguenza su un certo modo di gestire le cose l’ha patita la neonata formazione parlamentare del Presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, che si chiama “Cambiamo“. Sulle nomine dei sottosegretari ha vissuto una vicenda che merita la pena d’essere raccontata. Toti è stato uno dei primi esponenti del centrodestra a sostenere l’ipotesi Draghi. Adesso, inopinatamente, e sicuramente con gran poca sua soddisfazione, si trova – contrariamente a quanto lo stesso Draghi aveva lasciato sperare nei giorni scorsi – ad essere l’unico a non poter dire di avere una presenza governativa. Come se Cambiamo, invece di aver sostenuto il nuovo processo d’allargamento della maggioranza parlamentare, si fosse schierato all’opposizione con Giorgia Meloni.

Del tutto ignorate sono state poi le aspirazioni di quelli dell’Udc che, evidentemente, non hanno convinto più di tanto Mario Draghi sul loro peso effettivo e neppure gli alleati del centrodestra con cui  si erano spesi nel corso del periodo d’opposizione a Giuseppe Conte.

Il caso Udc è emblematico di una questione più generale che riguarda i cattolici sparsi in tutti i partiti. Quelli che si sono avvalsi per decenni del convincimento che sia meglio stare un po’ dappertutto; ovvero, se lo si vuole dire in maniera più apostolicamente confacente, essere “lievito”. Ma si tratta evidentemente di lievito utilizzato oltre la data di scadenza indicata, giacché moltissimi cattolici  sono stati lasciati fuori dal Governo, qualunque fosse il partito d’appartenenza. Uno dei casi più conclamati è quello del senatore Stanislao Di Piazza dei 5 stelle, notoriamente cattolico e apprezzato un po’ da tutti per l’attività svolta in precedenza al Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Messo fuori senza tanti complimenti perché non funzionale alla spartizione da effettuare tra le molte anime presenti tra i “grillini”. Nel Pd ci dicono, e l’informazione la riportiamo in maniera neutra, sono state messe da parte due cattoliche vicine alla realtà di Prodi.
Ora è chiaro che noi abbiamo un’altra visione della Politica. La quale, a nostro avviso, non va praticata pensando solo a occupare posizioni di potere, ma siamo anche consapevoli, ovviamente, del fatto che la Politica è l’arte della gestione della cosa pubblica e della concreta possibilità d’incidere; e che questa, è scontato, si fa meglio al Governo piuttosto che fuori. Soprattutto, se la partecipazione al processo decisionale, come attori e non da comparse, è veramente conseguente a un’ispirazione forte e a un istinto a farsi servitori del cosiddetto “Bene comune”.

Non è chiaramente la fine del mondo. E’ però evidente che chi ha portato al Presidente Draghi l’elenco dei nomi di coloro che dovevano giurare da sottosegretari non si è posto il problema di dare l’adeguata rappresentanza ad un ambito politico, a un mondo culturale, a una parte della società civile che hanno molto da dire e che, del resto, molto già si spendono  sul piano sociale ed assistenziale; un mondo al quale tutti dicono di voler prestare la massima attenzione, ma per il quale davvero poco si fa per recepirne le istanze e i talenti.

Per noi non è una novità. Lo stiamo dicendo da anni ripetendo una parola assai semplice, ma carica di contenuti ideali, programmatici e di metodo. La parola autonomia.
Giancarlo Infante