Prosperità inclusiva e terzo settore – di Stefano Zamagni

Prosperità inclusiva e terzo settore – di Stefano Zamagni

1. Non sappiamo ancora come le tecnologie digitali e la cultura che le governa modificheranno

l’essenza del capitalismo. Sappiamo però, perché già sotto i nostri occhi, che i cambiamenti sul senso del lavoro umano, sul rapporto tra mercato e democrazia, sul significato etico dell’agire economico, sono di vasta portata. Chiaramente, quanto è sotto i nostri occhi non può non riguardare anche il modo di concepire la natura  e la funzione del terzo settore nella nostra società. Richiamo qui alla memoria  le due posizioni principali finora dominanti nel modo di configurare il ruolo specifico degli enti di terzo settore.  Per un verso,  c’è la posizione di coloro che  vedono tali enti come l’eccezione alla regola,  rappresentata dalla centralità delle organizzazioni for profit e degli enti pubblici. Un’eccezione bensì importante e lodevole, da sostenere e da favorire anche sul piano fiscale, ma pur sempre una realtà di cui si potrebbe anche fare a meno.  Per l’altro verso, v’è la posizione di chi considera il Terzo Settore come elemento di disturbo o di delegittimazione nei confronti dell’intervento pubblico. Per costoro, un’ulteriore espansione del Terzo Settore – in Italia si tratta di oltre 336.000 enti che occupano  oltre un milione di lavoratori (dati ISTAT riferiti al 31/12/2016) – finirebbe per ritardare la piena realizzazione della cittadinanza democratica, la quale sola potrebbe assicurare il rispetto dell’individuo qua cittadino e non già qua prossimo. Nonostante le differenze, entrambe le posizioni celano una comune aporia. Chi si riconosce nella posizione “neo-liberista” vede nel Terzo Settore un modo per dare supporto  al modello del “conservatorismo compassionevole”,  assicurando livelli minimi di benessere a tutti coloro che lo smantellamento del welfare state  invocato dai conservatori lascerebbe altrimenti senza alcun aiuto.

Chi invece accoglie la concezione neo-statalista non accetta che nella società possano operare soggetti il cui fine è l’utilità sociale o l’interesse generale. Ritenendo di poter imporre per via di comando l’attuazione dei diritti di cittadinanza, tale concezione spiazza la cultura del dono come gratuità, negando, a livello di discorso pubblico, ogni valenza al principio di fraternità. Se a tutto e a tutti pensa lo Stato – posto che ciò sia possibile – è chiaro che quella virtù civile che è lo spirito del dono non potrà che andare incontro a una lenta atrofia. La virtù, infatti, a differenza di quel che accade con una risorsa scarsa, si decumula con il non uso. E’ veramente singolare che non ci si renda conto che entrambe le posizioni finiscono col relegare valori come solidarietà e reciprocità alla sfera privata, espellendoli da quella pubblica. La posizione neo-liberista perché ritiene che all’economia bastino i contratti, gli incentivi e ben definite regole del gioco. La posizione neo-statalista, invece, perché ritiene che per la solidarietà basti lo Stato, il quale può appellarsi alla giustizia, non certo alla fraternità.

La modernità, nella sua furia costruttivista,  ha fatto di tutto per neutralizzare la terziarietà: tutto doveva rientrare o nello Stato o nel Mercato. Ebbene, il  cambiamento oggi necessario è quello di superare questo schema, ormai datato e incapace di far presa sulla realtà. Gli enti del terzo settore non possono più essere considerati come soggetti per la produzione di quei beni e servizi che né lo Stato né il Mercato hanno interesse oppure la capacità di produrre, ma come una specifica forma di governance basata sulla cooperazione e sulla reciprocità. Ciò significa che il Terzo Settore  del dopo Riforma non può esimersi dal porre in cima ai propri obiettivi la rigenerazione della comunità. E’ in vista di ciò che la legislazione per gli ETS deve essere tale da consentire a tali enti di realizzare pratiche di organizzazione della comunità (community organizing). E’ questo un modo di impegno politico complementare – e non alternativo, si badi – a quello tradizionale basato sui partiti, un modo che consente alle persone, la cui voce mai verrebbe altrimenti udita, di contribuire a dilatare il processo di inclusione sia sociale sia economica. Quella dell’organizzazione della comunità è una strategia né meramente rivendicativa né tesa a creare movimenti di protesta. Piuttosto, è una strategia la cui mira è quella di porre in pratica il principio di sussidiarietà circolare,  articolando in modo nuovo le relazioni tra Stato, Mercato, Comunità.   E’ questo il cuore del modello tripolare di ordine sociale che accanto al privato e al pubblico pone  con pari dignità il civile.

Ecco perché il Terzo Settore è destinato ad  espandersi in orizzontale e a svilupparsi in verticale. Qual è la sua benedizione nascosta? Mi avvalgo di una metafora. Nel mondo animale vi sono specie che nascono in un ambiente già formato ed il cui unico sforzo è quello dell’adattamento ottimale ad esso. Ma vi sono specie – non tante, a dire il vero – che hanno imparato nel tempo a sviluppare una strategia di sopravvivenza inedita: mutare l’ambiente attorno a sé per renderlo più ospitale. E’ questo il caso del castoro che costruisce sbarramenti e così facendo crea uno specchio d’acqua, prima inesistente, consentendo ad altre specie di vivere e di riprodursi.  Questo meccanismo, noto come “costruzione di nicchia”, è tale che alcuni organismi “generosi” e quindi intraprendenti lasciano una doppia eredità: quella dei loro geni e quella delle trasformazioni che hanno introdotto nell’ambiente. A me piace pensare il Terzo Settore come uno speciale castoro, costruttore di nicchie, oggi necessarie più che mai. A quali alludo? Una prima nicchia chiama in causa il grande tema dell’innovazione sociale.  Dopo la lunga stagione della  razionalizzazione e della ottimizzazione, la parola d’ordine è oggi quella dell’innovazione. Due ne sono le tipologie principali. Quella tecnologica è l’innovazione che crea valore; quella sociale è l’innovazione che redistribuisce il valor creato ai diversi segmenti  della società e quindi favorisce l’inclusione. La prima è un progetto accumulativo; la seconda è un progetto trasformazionale. Si prenda nota di questo dato d’informazione: meno del 5% dei progetti innovativi riesce a superare il traguardo dei cinque anni. Si dice: mancano adeguate risorse finanziarie; è errata la valutazione del contesto competitivo e altro ancora. Ma non è così! E’ vero piuttosto che ancora troppo scarsi sono gli innovatori sociali in grado di educare all’innovatività. Invero, mentre per favorire l’innovazione tecnologica bastano le competenze (e quindi la formazione-istruzione), per l’innovazione sociale occorre dare ali ad un preciso progetto educativo: quello della conazione (termine nuovo che risulta dalla crasi di conoscenza e azione). Ecco perché i due tipi di innovazione devono procedere di pari passo – come i due cavalli di cui parla Platone nel Fedro. Diversamente, il rischio di un neofordismo digitale e di una taylorizzazione delle menti  non potrà essere scongiurato.  E’ questa la prima grande missione del  Terzo Settore.

C’è poi la nicchia della sostenibilità, parola oggi addirittura inflazionata. Già sappiamo che la sostenibilità rinvia a una triplice dimensione: ecologica, sociale e economica, e che tutte e tre devono essere perseguite congiuntamente. Quel che però si tende a dimenticare è che la sostenibilità è, in essenza, una questione di relazioni: tra economia e ambiente; tra individuo e comunità; tra utilità e felicità. Se dunque la sostenibilità  è questione di relazioni, come si può parlare di sviluppo sostenibile restando ancorati ad un paradigma individualistico come è quello dell’economia ancor’oggi dominante? E’ urgente passare ad un paradigma relazionale, come è quello dell’economia civile. E chi se non il Terzo Settore è capace di una mossa del genere? Sempre più si va parlando di economia circolare, come modello per lo sviluppo sostenibile in sostituzione del modello della crescita lineare. Ma come è possibile continuare ad illudersi che, restando all’interno della gabbia dorata dell’economia politica,  il modello, dell’economia circolare,  centrato come è sulla categoria dello shared value (valore condiviso), potrà mai  essere tradotto in pratica? Chi se non il  Terzo Settore deve adoperarsi per avviare un tale progetto trasformazionale?

2. Da quanto precede traggo una duplice considerazione. La prima chiama in causa la nozione di biodiversità economica, una nozione che il Codice del Terzo Settore, approvato con D. Lgs. del 2 agosto 2017, ha accolto come uno dei suoi pilastri. Fino a tempi recenti, l’opinione prevalente, sia tra studiosi che tra policy-makers, era che l’arena del mercato dovesse essere popolata soltanto da imprese il cui fine fosse il profitto, cioè da enti for profit. Si riconosceva bensì l’esistenza vantaggiosa di altri soggetti imprenditoriali, ma questi o venivano “tollerati” in quanto occupanti aree di nicchia oppure erano considerati come mere eccezioni alla regola (come nel caso delle cooperative). Era mancato, fino ad ora un pieno riconoscimento della cittadinanza economica a soggetti che operano dentro il mercato con logica imprenditoriale capace di creare valore, ma con un fine diverso da quello del lucro soggettivo.

Cosa ci si può allora aspettare dal pieno riconoscimento del principio della biodiversità economica, e in particolare dal rilancio della forma dell’impresa sociale? Per un verso, l’avvio di un promettente processo di ibridazione tra profit e non profit – come ormai si usa dire. Se è vero che l’impresa for profit ha tanto da “insegnare” a quella non profit, soprattutto sul piano dell’efficienza organizzativa e produttiva, è del pari vero che l’impresa non profit ha altrettanto, se non più, da “insegnare” per quanto concerne la responsabilità civile dell’impresa for profit; vale a dire l’accoglimento da parte di questa dell’idea che il fine ultimo dell’agire economico è il bene comune e non già il bene totale. La Riforma meritoriamente incorpora alcuni marcatori di ibridazione (la parziale distribuzione di utili, l’ampliamento dei settori di operatività, modelli partecipativi di governance), contribuendo a consolidare un bacino di imprenditorialità sociale quanto mai necessario.

La seconda considerazione chiama direttamente in causa la dimensione propriamente finanziaria. Mentre per le esigenze dei soggetti dell’associazionismo può  essere sufficiente la filantropia d’impresa (corporate philanthropy), un fund raising potenziato, il 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, oltre ovviamente alle varie forme di fiscalità di vantaggio, è evidente come tutto ciò non possa bastare a chi realizza vere e proprie forme di imprenditorialità sociale. Infatti, se  costoro  devono operare in modo sistematico come soggetti d’impresa, e quindi essere capaci di innovazione sociale, essi devono poter accedere a fonti di finanziamento che consentano loro  non solo l’autonomia d’azione, ma soprattutto la capacità di programmare le proprie attività. Come tutti sanno, finora la fonte di finanziamento prevalente è stata quella dei fondi pubblici: convenzioni, gare di appalto al massimo ribasso e simili, sono stati gli strumenti privilegiati. Ne conosciamo le conseguenze nefaste, la più grave delle quali è stata la pratica difficoltà di far decollare una vera e propria imprenditorialità sociale.  Il risultato è che ci troviamo con tanti ottimi e generosi operatori sociali, ma relativamente pochi imprenditori sociali.  Ecco perché occorre prepararsi al decollo di nuovi  strumenti quali l’equity crowdfunding; la finanza d’impatto; i prodotti finanziari etici; i titoli di solidarietà; l’assegnazione di immobili pubblici inutilizzati e dei beni immobili e mobili confiscati alla criminalità organizzata, fino ad arrivare alla creazione di una vera e propria Borsa sociale.

Vado a concludere. Una scarsità tipica della attuale fase storica è quella della speranza – una scarsità ignota nelle epoche precedenti. E’ proprio tale scarsità ad alimentare l’attuale “disagio di civiltà”.  per usare un’espressione che fa riferimento ad una celebre opera di Freud. L’intelligenza, infatti, anziché permetterci di paragonare e scegliere, tra varie opzioni di valore, la migliore, risulta paralizzante. A differenza dei nostri antenati che non dovevano scegliere continuamente e le cui grandi scelte avvenivano una volta sola nella vita, le persone d’oggi sono poste di fronte a decisioni continue che riguardano, virtualmente, tutti gli ambiti della vita: la scelta professionale; i rapporti affettivi; la politica; l’inserimento nella società civile organizzata. E’ tale situazione a creare il paradosso della scelta: quando parliamo di scelta sembriamo riferirci a uno spazio di libertà, ma al tempo stesso siamo sempre più costretti a scegliere. La scelta, situazione che postula libertà, diventa una sorta di necessità, perché non possiamo non scegliere; d’altro canto, il non scegliere è esso stesso una scelta.

Ora quando il problema della scelta consiste nel decidere tra mezzi alternativi per raggiungere un determinato fine – quando, cioè, in termini kantiani, la domanda che attende risposta è del tipo “che cosa devo fare per ottenere ciò che voglio” – il ricorso alla ragion tecnica è di per sé sufficiente. Ad essa chiediamo l’algoritmo risolutivo. Ma quando la domanda diviene: “che cosa è bene che io voglia”, vale a dire quando si tratta di scegliere tra fini diversi, la necessità di disporre di un criterio di scelta fondato sulla categoria del giudizio di valore diviene irrinunciabile. Nessun progresso tecnologico potrà mai fornirmi il criterio di valore sulla cui base scegliere il mio piano di vita. Comprendiamo ora la portata dell’insidia che il mito tecnologico va diffondendo: far credere che l’avanzamento delle conoscenze tecnico-scientifiche sia sufficiente a risolvere ogni problema di scelta. E dunque che, in fondo, tutto possa risolversi con l’attesa. Sappiamo invece che tale insidia conduce ad un esito certo: che l’esistenza intera viene vissuta senza scopo e senza significato. E’ proprio un tale stato di cose a darci conto della celebre affermazione di F. Nietsche secondo cui: “La speranza è il peggiore dei mali, perché prolunga la sofferenza degli uomini”.  Il Terzo Settore non può accettare che ciò possa diventare vero.

Stefano Zamagni