Il disastro dell’affluenza al voto che non smuove i partiti – di Giancarlo Infante

Il disastro dell’affluenza al voto che non smuove i partiti – di Giancarlo Infante

Scrivo questa nota nel primo pomeriggio,  all’arrivo dei dati sull’affluenza al voto. Senza aver neppure aspettato di conoscere i risultati finali dei ballottaggi delle amministrative. Giungo, infatti, a fare l’amara considerazione che sono del tutto ininfluenti, tanto si è trattato di cosa giocata tra pochi intimi.

Su che base i sindaci eletti dopo i ballottaggi possono dire di rappresentare davvero i loro cittadini? Eletti nel migliore dei casi con qualcosa che oscilla tra il 20 e il 25% dell’intero corpo elettorale. Di coloro che si sono presi la briga di andare al seggio e di partecipare ad un qualcosa che rappresenta una via di mezzo tra il “funerale” della democrazia sostanziale e una corsa di apparati a vedere chi predomina per la gestione della cosa pubblica.

L’astensionismo dev’essere considerato una risposta “politica” ad un sistema di partiti cui si continua a dire, inascoltati, che le cose non vanno. Siamo oramai nel patologico di un fenomeno nonostante il quale si è giunti persino a festeggiare per dei risultati che servono solamente ad affidare la gestione di tanti importanti città a chi non rappresenta molto.

Abbiamo sentito parlare persino di vittoria “trionfale”. Quale trionfo, però? Quella amara di un popolo stufo di un intero sistema. E bene noi abbiamo fatto, e da un pezzo, ad esprimere un’alternatività rispetto a tutto il quadro politico. A dirci convinti che questo bipolarismo è una farsa che non esiste più. A Roma, ma non solo lì, non sono neppure tornati al voto quelli che nel primo turno erano andati a votare per Michetti o per Gualtieri. Forse, per molto meno si dovrebbe parlare amleticamente del “marcio” che c’è … in Danimarca.

Poi, è inevitabile assistere alle manifestazioni di piazza. Quelle “distorte” dai neofascisti, oppure quelle di Milano e di Trieste frutto di un insieme di criticità, obiezioni, domande inevase. E vediamo che la risposta dei partiti e delle istituzioni costituisce un’ulteriore conferma che il meccanismo pubblico è inceppato senza speranze. Frutto dell’incapacità d’analisi a comprendere i tanti disagi che scendono in piazza, a distinguere tra di loro, a separare le valenze positive da quelle anarcoido- fasciste- ascientifiche. Tutto sta a dimostrare che la rottura tra eletti, e chi è chiamato alla guida delle istituzioni, e i cittadini sembra ormai irrimediabile. Sarà forse per un caso se dalle elezioni del marzo 2018 non abbiamo avuto un Presidente del consiglio eletto?

Dispiace pensare che anche il Governo Draghi possa finire vittima di tutto ciò. Per evitarlo è necessario mettere le istituzioni al riparo dalla contrarietà che sta montando verso tutte le forze politiche.

La gestione della pandemia non è esente da confusioni, dalla mancanza di una voce istituzionale certa che non può certamente limitarsi a provare a convincere sulle vaccinazioni, mentre si accetta un allentamento dell’uso di quei presidi più semplici, ma efficaci, costituiti dalla mascherina e dall’applicazione delle norme di distanziamento. Così, molti non capiscono la fermezza sui “green pass”, altri chiedono in alternativa la vaccinazione obbligatoria, altri ancora, visto che non giungono gli alieni sulla cui esistenza credono tanto, riversano contro la politica del contenimento del Coronavirus le loro pulsioni complottiste.

Ma tutto questo bailamme non può essere anche frutto di una mancanza di credibilità nei gruppi di guida nazionali, presi nella loro interezza, non solo quelli politici?

Non è facile risolvere tutte le questioni che stanno riproponendo uno dei problemi storici del nostro Paese: quello delle classi dirigenti. Difficile è anche ragionare su come l’attuale Esecutivo possa, eventualmente, indicare una strada da perseguire per avviare quella rigenerazione che si è dimostra inevitabilmente necessaria. I partiti devono essere salvaguardati perché essi concorrono alla salvaguardia dei principi democratici e della rappresentanza. Al tempo stesso, consolidata è la loro tendenza ad occuparsi della gestione delle cose, invece che della loro evoluzione. Nello specifico, nell’attuale contesto italiano, vi è una complicazione in più che viene dal delicato prossimo passaggio relativo alla elezione del nuovo Presidente della Repubblica nella sciagurata ipotesi che Sergio Mattarella decida davvero di non accettare una proroga del suo mandato, almeno fino alla scadenza naturale della legislatura del 2023.

Chissà che andando a riflettere seriamente sui risultati di ieri non si possa comunque trovare, proprio in essi, una parte della soluzione dei problemi insuperabili che abbiamo di fronte.

La Destra ha sbagliato tutto. Candidati e postura politica. La rincorsa a “chi comanda”, che ha portato Salvini a presentare a Milano il “suo” candidato e la Meloni il “suo” a Roma, così come Giorgetti a Torino, si è rivelata fallimentare. Il terzo attore di questo schieramento, Silvio Berlusconi, ne esce sì senza danno apparente, ma guadagna poco dai guai dei suoi due alleati. Si conferma semmai necessaria la critica che un’area di centrodestra merita per non aver scelto un’altra strada che non fosse quella di coinvolgersi con il sovranismo e il populismo. Opportunismi, eccesso di realismo, ognuno definisca come vuole una latitanza di cui paga il prezzo l’intero Paese.

Enrico Letta si è presentato alla guida del Pdi con l’intenzione di marcare un cambiamento. Anche se questo, per ora, è limitato al dirsi genericamente di “sinistra”, al presentarsi a Siena, dove anch’egli ha avuto il voto di “pochi intimi”, ma al prezzo di oscurare il simbolo del Pd, e partendo con l’esaltazione di una legge potenzialmente liberticida qual è il Ddl Zan. Non può non sapere, egli che è figlio della grande stagione della partecipazione davvero popolare alla politica, legata alla presenza di grandi partiti di massa, grandi e piccoli che fossero non è rilevante, che questa debole, inefficace e claudicante Seconda repubblica, fatta di bipolarismo e di sistema maggioritario, è giunta alla fine.

C’è forse, così, una sola soluzione. Riaffidarsi agli italiani. Non per chiedere loro un insulso ed insufficiente schierarsi per questo o quest’altro polo contrapposto, ma perché la società viva e pulsante, nonostante il lungo riproporsi di gravi crisi finanziarie, cui si è pure aggiunta quella provocata dalla Covid-19, torni a dispiegare le proprie forze profonde e vitali. Questo lo si raggiunge solamente attraverso la riforma dei partiti, applicando finalmente l’art. 49 della Costituzione e cambiando la legge elettorale con l’introduzione di un sistema proporzionale, l’unico in grado di rappresentare più fedelmente le reali forze in gioco presenti nel tessuto civile. Non è con la loro costipazione che si assicura il futuro dell’Italia, ma accettandone la dialettica e la eventuale contrapposizione. Poi toccherà ad una classe dirigente davvero rinnovata trovare la mediazione adeguata.

Da queste elezioni sembra uscire con le ossa rotte anche l’ipotesi di ripiantare Ulivo che, alla luce di quanto sentito rimuginare finora, potrebbe servirci un prodotto frutto più di astratte manipolazioni genetiche della politica piuttosto che delle mani di saggi maestri oleari capaci ad assicurare l’avvio di un nuovo processo totalmente trasformativo.

Continuare a illudersi del potere taumaturgico del sistema maggioritario non porta che a ricercare soluzioni che allontano solamente la parola fine per la crisi  del sistema democratico come l’abbiamo conosciuto finora, nel bene e nel male, ma non la evitano.

Poi, è comprensibile che dopo tante batoste la sinistra preferisca “champagnare” per la conquista di tante città, così come alla destra torna più facile confinare la cocente sconfitta limitandosi a mormorare sulla scelta di candidati non adeguati. Ma sappiamo bene che ben altre sono le questioni che rendono penoso il crepuscolo cui assistiamo della cosiddetta Seconda repubblica bipolare e dei partiti che in essa hanno creduto.

Giancarlo Infante