La cura del capitale umano – di Stefano Zamagni

La cura del capitale umano – di Stefano Zamagni

Pubblicato su www.politicainsieme.com

1. La cura, l’epimeleia greca, sta acquisendo, in questo tempo, crescente rilevanza. Non è difficile darsene conto, se si pensa che la cura guarda a ciò che dà dignità all’uomo e lo esalta. Mentre contrasta la vasta diffusione della (sotto)cultura dell’indifferenza verso l’altro, la cura si configura come un decisivo fattore di trasformazione sociale. Non è dunque strano se anche in ambito economico e più specificamente nell’area degli studi aziendalistici, si va da qualche tempo riflettendo sulla cura del capitale umano, la quale non si occupa solamente della fragilità umana, ma investe tutte le dimensioni dell’umano.

Le ragioni che sostengono queste riflessioni sono state generate dalla constatazione che, nonostante quel che si va predicando, c’è oggi una minor attenzione al capitale umano rispetto a quella rivolta al capitale fisico, finanziario, ambientale. Sembra quasi ci si voglia rassegnare alla triste profezia del filosofo Gunther Anders quando nel suo L’uomo è antiquato. Sulla distribuzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale (Bollati-Boringhieri, 2002; ed. orig. 1973) preconizzava l’obsolescenza prossima dell’essere umano. E, se così fosse, che bisogno ci sarebbe di intrigarsi con la cura del capitale umano?

Chi scrive non è minimamente di questa idea, perché convinto che il progetto trans-umanista di N. Bostrom, di H. Kurzweil e di tutti gli altri scienziati riuniti nella “University of Singularity” (fondata nel 2007 in California), non avendo un fondamento ontologico, non possa andare oltre il medio periodo. (Non ho qui lo spazio per difendere questa tesi). Ne consegue che occuparsi della cura del capitale umano oggi non solo ha senso, ma è qualcosa di necessario se l’obiettivo è quello di raccogliere e vincere le sfide della società post-industriale.

Quali situazioni tra le attuali res novae ci sollecitano a prenderci responsabilmente cura del capitale umano? Ne indico tre, quelle che reputo più rilevanti, pur non essendo uniche. Una prima novità emergente è la lotta per il riconoscimento – il thimos di Platone. Per il grande filosofo greco, il bisogno primario dell’uomo è quello di essere riconosciuto e di riconoscere, a sua volta. Un bisogno questo che viene prima di quello del cibo – tipico invece dell’animale. La lotta per il riconoscimento è il conflitto sociale più importante nel nostro tempo: non si vuole essere tollerati o meramente accettati, ma si vuole l’approvazione della bontà del nostro stile di vita e delle nostre scelte. Vogliamo che si riconosca che la nostra identità è così importante da meritare di essere inserita nello spazio pubblico di dibattito. Due sono le forme che il thimos può assumere: la megalothimia (il bisogno di essere riconosciuti come superiori agli altri) e la isothimia, (il bisogno di essere riconosciuti nella propria singolarità, ma sul medesimo piano degli altri)

Ebbene, nella società di oggi è la megalothimia a prevalere, spesso in modo subdolo, e ne vediamo le conseguenze nefaste non solo sul versante della politica, ma anche su quello dell’economia. Perché ciò accade? La risposta è semplice. L’interdipendenza tra gli uomini, aumentata enormemente in seguito alla globalizzazione, postula la reciprocità, che è un dare senza perdere e prendere senza togliere. Invero, non cerchiamo un altro esemplare di noi stessi, un doppio in cui rispecchiarci e riconoscerci, ma qualcuno diverso da noi in cui completarci. Chiaramente, la megalothimia non consente ciò. Ecco perché essa va curata e bene. Un medicamento interessante ci viene suggerito da quanto Etty Hillesum, ebrea olandese di rara interiorità, scrive nel suo Diario: “Per umiliare qualcuno si deve essere in due: colui che umilia e colui che si lascia umiliare. Se manca il secondo, l’umiliazione evapora nell’aria. Restano solo delle disposizioni fastidiose … Siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli … Una pace futura potrà essere tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso”.

 

2. Una seconda res nova rilevante ai fini del discorso presente è quella che riguarda l’importanza crescente della dimensione espressiva del lavoro umano da almeno un trentennio a questa parte. Come si sa, il lavoro è caratterizzato da due dimensioni, acquisitiva l’una, espressiva l’altra. Con il lavoro, il soggetto acquisisce le risorse di cui ha necessità per condurre una vita umana. A tale dimensione corrisponde il principio del lavoro giusto. La dimensione espressiva invece fa riferimento al fatto che il soggetto esprime il proprio potenziale di vita e realizza la sua fioritura umana con il lavoro. Ad essa fa riscontro il principio del lavoro decente. Quale allora la novità? Che a tutt’oggi la categoria di lavoro giusto continua a prevalere e quasi oscura la categoria di lavoro decente.

Quali le conseguenze? Tante e su piani diversi. Il recente Rapporto del Ministero del Lavoro (2023) ci informa che nel corso del 2022, nel nostro paese, 1,6 milioni di persone in possesso di regolare contratto di lavoro s sono volontariamente dimesse dalla loro azienda. Si tratta di un dato in aumento del 22% rispetto all’anno precedente, quando le dimissioni volontarie erano state 1,3 milioni. Una ricerca effettuata a inizio 2022 dall’Associazione italiana direzione del personale, su un campione di 600 aziende italiane,  indica che il 60% di queste era stato interessato da un significativo aumento del numero di dimissioni rispetto all’anno precedente. A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto (ma non solo) lavoratori tra i 26 e i 35 anni, per la grande maggioranza (79%) occupati in aziende del Nord. E’ questo il fenomeno noto come Great Resignation, così denominato dall’americano Anthony Klotz. Negli USA, il totale dei lavoratori dimissionari nel 2021 è stato di circa 48 milioni. Andamenti analoghi si stanno manifestando in tutti i paesi dell’Occidente avanzato. (J. Fuller, W. Kerr, “The Great Resignation”, Harvard Business Review, 2022).

Non è questa la sede per analizzare in profondità il fenomeno né per calcolare le pesanti conseguenze negative che le dimissioni di un lavoratore comportano per l’impresa. Si pensi ai costi di separazione, di sostituzione, di formazione del subentrato. (Per tutto questo, rinvio a M.T. Tessema et Al., “The Great Resignation; Causes, Consequences and creative HR Management Strategies”, Journal of Human Resources and Sustainability Studies, Ott. 2022). Mi preme qui segnalare che in tutte le ricerche disponibili la causa principale delle dimissioni non è la ricerca di un miglioramento retributivo – come si tende a pensare – ma la ricerca di un ambiente di lavoro decente, nel senso sopra precisato. (Cfr. per tutti, Gallup, State of the Global Workplace, 2022 Report). Si rammenti che dei 17 Sustainable Development Goals delle Nazioni Unite, l’obiettivo numero 8 esplicitamente fa riferimento al lavoro dignitoso e non solo giusto. Come si può comprendere, il problema è molto più serio di quanto sono usi a pensare coloro che, per un superficialismo di maniera, ritengono si tratti di un fenomeno transeunte. E’ vero il contrario. Ecco perché è nell’interesse delle imprese convincersi che affrettare i tempi per realizzare forme variegate di partecipazione è la via maestra per scongiurare il rischio di un lento declino.

Si tratta in buona sostanza di mirare mirare al democratic stakeholding, come superamento del managerial stakeholding. Mentre quest’ultimo è un modello di governance in cui è il manager o, al più, il consiglio di amministrazione a cercare, in modo più o meno paternalistico, di comporre i vari interessi in gioco, con il democratic stakeholding si cerca di offrire a tutti coloro che intrattengono rapporti con l’impresa la possibilità reale (non virtuale) di partecipare al processo deliberativo nelle forme che, a seconda delle situazioni, si riterranno più adeguate. Non basta – si badi – la trasparenza della comunicazione, non basta cioè dare informazioni corrette e veritiere. Né basta la consultazione di tipo concertativo. Quel che si richiede è l’accountability da parte del management verso tutti gli stakeholder. Che si tratti di compito non facile da assolvere è fuor di dubbio, ma è certamente possibile, a condizione che ci si liberi da anchilosanti retaggi ideologici. Occorre dunque elevare il livello del dibattito scientifico e politico già  in corso.  L’evidenza empirica, a tutt’oggi disponibile, mostra che, laddove applicato, questo modello organizzativo accresce significativamente il valore di indicatori quali la lealtà, la produttività, la  creatività, la gioia di vivere.

Il 2023 è stato l’anno delle “dimissioni di coscienza”. Lo rivela Paul Polman, già CEO di Uniliver nello studio empirico da lui curato “From quiet quitting to conscious quitting” (marzo 2023). Un numero crescente di lavoratori tende a porre a disposizione il proprio capitale umano a favore di quelle aziende o organizzazioni che si impegnano per contribuire alla soluzione delle varie crisi. Circa il 50% del campione di oltre 4.000 intervistati si dichiara disposto a lasciare l’azienda se i valori di quest’ultima contraddicono i propri. L’abbandono del lavoro sicuro per motivi etici è una novità di tutto rilievo. D’altro canto, chi, per ragioni varie, non riesce a farlo non cede all’impresa quelle conoscenze tacite – nel senso della tacit knowledge di Michal Polanyi – di cui ciascuno è in possesso e che sono il fattore decisivo di successo aziendale. (L’altro tipo di conoscenza, nota da tempo, è quella codificata, codified knowledge). È così che, in gran parte, si spiega il preoccupante calo di produttività che investe il comparto produttivo dell’economia. L’indagine recente di Etica in collaborazione con l’Osservatorio Jobpricing conferma la ricerca di Polman. Si veda anche il manifesto, tradotto in ventinove lingue, curato da Dominique Meda, Lavoro: democratizzare, demercificare, disinquinare (Siena, Castelvecchi, 2022).

 

3. Passo, da ultimo, alla terza novità emergente di cui sopra ho detto. Si tratta della contrapposizione tra autonomia e vulnerabilità. L’aspirazione alla autonomia spinge a fare a meno degli altri, mentre la vulnerabilità dell’essere umano richiede l’aiuto degli altri. Si è cercato di evitare la contrapposizione dicotomica osservando che l’autonomia si pone sul piano valoriale e morale, mentre la vulnerabilità su quello meramente fattuale. Ma non è così, perché la vulnerabilità umana è, alla resa dei conti, sempre ontologica. Si badi di non confonderla con la fragilità. Fragile è la persona che, in una certa situazione, non è in grado di provvedere da sé alle proprie necessità. Vulnerabile, invece, è chi è a posto, sta bene, ma ha un’alta probabilità di scivolare in una condizione di fragilità in un certo arco di tempo. La distinzione è assai rilevante, perché diverse sono le linee di intervento che occorre attuare. Nei confronti della fragilità si interviene con politiche di natura emergenziale, ma per affrontare la vulnerabilità occorrono pratiche di resilienza. (Come noto, la resilienza è la proprietà dei corpi fisici di far fronte a shock esogeni, indebolendone la carica distruttiva).

Tante sono le forme di vulnerabilità che intaccano il capitale umano. Di quella lavorativa già si è detto sopra. Volgo allora l’attenzione alla vulnerabilità che mi piace chiamare spirituale. Due sono le forme principali in cui si manifesta: da un lato, la perdita del desiderio, dall’altro la solitudine esistenziale. La odierna razionalità calcolante uccide il desiderio che pure è la forza nell’uomo che spinge a immaginare la soddisfazione per la possibilità di un futuro migliore. Il desiderio è sostituito dalla voglia, da soddisfare subito come vuole il neo-consumismo. L’attesa è avvertita come esagerata e insopportabile: l’homo consumans ha sostituito l’homo desiderans. E’ di interesse ricordare che a rendere popolare il neo-consumismo ha contribuito non poco nel 1955 Victor Lebow, l’influente consigliere economico del presidente Harry Truman. Questo il suo argomento, ancor’oggi al centro dei tanta riflessione economica: “La nostra economia enormemente produttiva esige che facciamo del consumo il nostro stile di vita, che convertiamo l’acquisto e l’uso dei beni in rituali, che cerchiamo la nostra soddisfazione spirituale e la soddisfazione del nostro ego nel consumo”! (Si veda L. Zoja, Il declino del desiderio, Torino, Einaudi, 2022)

Di qui la sindrome dell’indecisività, che è oggi la minaccia più seria alla libertà dell’uomo. L’incapacità di decidere – da non confondere con la capacità di scegliere – è uno dei fattori esplicativi del preoccupante calo del tasso di imprenditorialità, rilevabile più o meno dovunque. L’imprenditore è il soggetto che decide; il manager è il soggetto che sceglie. Dovrebbe essere nota la profonda differenza tra un problema di decisione e un problema di scelta, anche se troppo spesso i due problemi vengono confusi. La celebre storia dell’Asino di Buridano – per primo introdotta da Dante nella Divina Commedia e poi ripresa dal filosofo francese J. Buridan – ci fa capire cosa succede quando si è affetti dalla sindrome dell’indecisività – la buridanite, appunto.

4. L’altra forma in cui si manifesta la vulnerabilità spirituale è la solitudine esistenziale. Nella primavera scorsa, Vivek Murthy, il Surgeon General degli USA, che è la più alta autorità in ambito sanitario, ci ha informati che quasi la metà della popolazione americana soffre, in diverso grado, di questa nuova patologia sociale. Conosciamo bene le conseguenze di natura psicologica e organica che ne derivano. In particolare, la solitudine condiziona la capacità del cervello di identificare i volti, già noti, di persone della medesima comunità. Noreena Hertz – Il secolo della solitudine, 2023 – ce ne dà un resoconto esauriente. Il Rapporto di Murthy si accompagna all’ormai celebre lavoro di A. Case e A. Deaton, Morti per disperazione (Mulino, 2021) che già dal titolo rivela quanto capitale umano la disperazione distrugge. (Ricordo che Deaton è un premio Nobel dell’economia!)

Cosa c’è alla radice del fenomeno? L’abbandono nella sfera dell’alta cultura scientifica (soprattutto quella della scienza sociale) del paradigma relazionale a favore di quello individualistico, dimenticando così che la natura umana è, per dirla con il filosofo Jean Luc Nacy, un ego-cum e non già un ego-sum. Tale sottolineatura mi consente di chiarire la differenza che intercorre tra socialità e socievolezza. L’uomo è un essere socievole, non sociale – come purtroppo si continua a scrivere. La socialità esprime il bisogno di stare con altri – tante sono le specie animali che vivono in società. La socievolezza, invece, è il desiderio di entrare e stare in relazione con l’altro. E questa è proprietà esclusiva dell’essere umano. Si comprende allora perché l’assunto antropologico dell’homo oeconomicus è la più patente negazione di un aspetto essenziale della natura umana.

Nel 2017, M. Pirson ha fondato la International Humanistic Management Association. Perché si parla, con crescente frequenza, oggi, di impresa umanistica? Perché ci si va rendendo conto – sia pure con grave ritardo – che il management di successo è quello che disegna l’attività di impresa sulla base del principio di socievolezza, il che è l’esatto contrario del principio organizzativo su cui, per quasi un secolo, è stato fondato il modello taylorista. (Si veda, per i dettagli, il libro di B. Robertson, della Harvard Business School, Holacracy, 2007). Cosa ha favorito questo passaggio, che è in primo luogo di natura culturale? La presa d’atto della pericolosa trappola nella quale la rivoluzione delle tecnologie convergenti sta spingendo organizzazioni generatrici di valore come le imprese, le scuole, gli ospedali e altre ancora. Si tratta del fatto che le IA generative “non vanno d’accordo” con il paradigma relazionale, per la ovvia ragione che le relazioni tra persone non sono progettabili, o meglio non sono passibili, di “algoritmizzazione”. E’ per questo che la nuova traiettoria tecnologica ha bisogno di “trattare con individui”, non con persone.

Se ne comprende la ratio se si considera che il fine nascosto, eppure non dichiarato, è quello di catturare l’habeas mentem di coloro che, ai diversi livelli, si dedicano all’attività lavorativa. (L’habeas corpus di antica memoria, resta garantito, ma ciò non interessa all’IA, che computa e compone ad altissima velocità, ma non pensa). Già il robot della terza rivoluzione industriale aveva sostituito il corpo umano e l’IA della quarta rivoluzione industriale – quella odierna – sta sostituendo la mente dell’uomo. Il giorno in cui si riuscisse a combinare i due elementi si sarà arrivati alla completa sostituzione dell’umano. (Rinvio al recente volume di M. Chalmers, Reality+. Virtual Worlds and problems of philosophy, 2023, per una serrata critica del Progetto del Centro per lo studio scientifico della coscienza della New York University, volto a scoprire come i neuroni del cervello possano “produrre” la coscienza). Allora, qual è il punto? Lasciando da parte il piano di discorso etico, oltre che politico, l’esito finale del progetto in atto sarebbe quello di rendere superata l’impresa (così come la conosciamo fin dalla sua nascita all’epoca dell’Umanesimo civile nel XV secolo) e dunque di rendere irrilevante la nozione stessa di capitale umano. Altro che cura!

5. Vado a chiudere. Non posso farlo, però, senza prima fare cenno al corposo lavoro, in corso di pubblicazione, di J. Heckman et Al., The Economic approach to personality, character and virtue. Come scrivono gli Autori, obiettivo della ricerca è quello di scoprire quale influenza i tratti del carattere e della personalità delle persone hanno sulla performance dell’attività economica a livello sia micro sia macro. (Rilevante è la distinzione tra cognitive skills e character skills e il riconoscimento del fatto che le doti di carattere sono assai più rilevanti, nel presente contesto, delle abilità cognitive, come ben sanno le imprese di successo). La guida teorica scelta per la bisogna è quella dell’etica delle virtù, di ascendenza aristotelico-tomista. Non ho qui lo spazio per un commento, ma è di straordinaria rilevanza il fatto che un premio Nobel dell’economia – è tale J. Heckman – e direttore del Centro per lo Sviluppo Umano dell’Università di Chicago, abbia ritenuto maturo il tempo di abbandonare vecchie sponde di pensiero, perché non più in grado di farci progredire sulla via dello sviluppo umano integrale e di osare un vero e proprio restauro concettuale. Ciò apre alla speranza, la virtù bambina – come la chiamava C. Peguy – che perché tale va aiutata a crescere. Come? Tornando a dare la priorità al pensiero pensante, poiché di quello calcolante ce n’è già a sufficienza. Nous, per i greci, è la facoltà umana di pensare; le sue due componenti sono l’intelletto e lo spirito. Ebbene, il compito dal quale non possiamo sfuggire è quello di evitare che intelletto e spirito abbiano a disconnettersi. Rendere l’ambiente digitale amico della libertà e della democrazia esige proprio che le due componenti restino sempre unite.

Ci è di conforto a tal riguardo il racconto dello scrittore americano Bruce Chatwin, In Patagonia (1982). Uno schiavista bianco negozia con i suoi schiavi neri un patto: in cambio di denaro, costoro avrebbero dovuto accelerare l’andatura per accorciare il tempo di consegna di un certo carico di merce. In prossimità della meta, però, gli schiavi si fermano, rifiutandosi di riprendere il cammino. Richiesti della spiegazione di un tale comportamento che lo schiavista giudica del tutto irrazionale – secondo il canone dell’homo oeconomicus – si sente rispondere: “Perché vogliamo dare tempo alle nostre anime di raggiungerci”. E’ davvero così. E’ necessario, in particolar modo di questi tempi, fermarsi di tanto in tanto per tornare a pensare, se si vuole scongiurare il rischio di un lento declino del nostro modello di civilizzazione. E’ in ciò il senso ultimo del prendersi cura del capitale umano.

Stefano Zamagni