La “Porta aperta” di padre Carmelo e la Chiesa di Francesco – di Giancarlo Infante

La “Porta aperta” di padre Carmelo e la Chiesa di Francesco – di Giancarlo Infante

Ho conosciuto padre Carmelo 34, 35 anni fa a Londra. Non ricordo come, ma finii per incontrarlo alla Chiesa degli italiani, St Peter. Là, i Padri Pallottini, come anche gli Scalabriniani della capitale britannica, curano le anime, e non solo, di tanti emigrati.

Oramai si perde il conto delle generazioni che si sono sovrapposte. E che, nonostante tutto, nel bene e nel male, continuano ad essere italiani. Anche là, a cercare di mantenere le proprie culture e tradizioni, le loro specifiche relazioni umane, pur impegnandosi in una piena integrazione in un mondo e in una mentalità completamente diversa. Non è un caso se nella sua ultima opera, “Una porta aperta”, padre Carmelo Di Giovanni, ricorda le messe della londinese Notte di Natale in cui non mancava mai la preghiera per la regina Elisabetta e per il Governo britannico.

Il libro, edito da Ancora, e che ha una prefazione del cardinale di Siena, Augusto Paolo Lojudice, è solo l’ultimo impegno letterario di Padre Carmelo. Segue altre sue opere importanti, in particolare quelle sulla presenza dei terroristi italiani detenuti nel Regno Unito (“Eravamo terroristi”, Ed Paoline) e la vita nelle carceri britanniche (“Dal carcere di Londra”, Ed Dehoniane).

Quando andai per la prima volta nella canonica di St Peter mi ritrovai in un pezzo d’Italia. Il vulcanico padre Carmelo non si era limitato ad aprire la porta. L’aveva completamente spalancata. A gente di ogni genere. Soprattutto giovani. In gran parte sbandati. Tossico dipendenti, aspiranti delinquenti e delinquenti veri e propri. Per tutti c’era il posto a tavola e, nei limiti del possibile, l’ospitalità. E per questo non gli sono mancati guai di ogni genere, furti compresi.

Nel corso della prima cena in cui ebbi la possibilità di partecipare alle sue infinite iniziative d’accoglienza, finii accanto a quello che era l’anziano parroco, don Roberto Russo. Quel sant’uomo alternava occhiate divertite a commenti preoccupati su come il suo più giovane confratello accoglieva tutti e rivoluzionava la vita della parrocchia. Ma si vedeva che voleva un gran bene a Padre Carmelo e ne sosteneva la più che che “trasgressiva” attitudine originata da una gran fede e dall’idea di una Chiesa viva e pulsante. Quella che aveva portato i Pallottini a mandarlo a Londra. Come ebbe lui stesso modo di spiegare alla Principessa Anna che, una volta incontratolo, gli chiese sui motivi che spiegavano la sua attività religiosa proprio nella capitale britannica e in numerose carceri britanniche. “Mi c’hanno mandato” fu la sua risposta per la divertita Altezza reale.

Padre Carmelo fu spedito a Londra 52 anni fa. E il suo arrivo nel settembre del ’71 avvenne nel pieno della vera e propria “inondazione” di tossicodipendenti italiani che, come egli scrive nel suo libro, stava assumendo i caratteri di un’autentica “emigrazione”. Egli si trovò proiettato in “un mondo difficile, molto pericoloso e il problema era sia religioso, sia sociale”. E dunque un prete “in uscita”, così già allora l’avrebbe definito Papa Francesco, si sentì spinto a curare quei disperati, spesso lasciati soli anche dalle famiglie, o con famiglie alle spalle che non potevano certamente seguirli fino a Londra. E passava dalle strade, ai tribunali, al Consolato italiano.

L’incontro con i tossicodipendenti significò anche quello con l’Aids che, a partire dagli anni ’80, si diffuse a macchia d’olio. E a Padre Carmelo toccò la triste esperienza dell’assistere il primo morto per quella pestilenza in un carcere britannico, era un giovane italiano.

Poi, dunque, venne il momento delle carceri. Dove Padre Carmelo va una prima volta su richiesta dell’Istituto di pena di Wormwood Scrubs per seguire un giovane detenuto italiano che aveva tentato il suicidio. E il padre pallottino scopre quello che definisce “una realtà incredibile” popolata da giovani nostri connazionali. Ma quel primo ingresso fu seguito da visite e incontri nelle carceri di tutto il mondo. Da quelle di mezz’Europa alle altre più lontane della Thailandia, del Nepal, della Core, dell’India, Cambogia, Argentina e così via.

Padre Carmelo si è trovato, ante litteram, a creare un vero e proprio “network” carcerario, lo si direbbe oggi nell’era digitale. E questo perché, assieme a quello delle tossicodipendenze, Padre Carmelo s’imbatté nel terrorismo. Non in quello che tutti noi siamo abituanti a considerare un drammatico titolo di violenza politica. Bensì in terroristi in carne ed ossa. Gente che, di destra o di sinistra, a lui, da prete, questo interessava relativamente, si era macchiata di gravi fatti di sangue o ad essi aveva partecipato o aveva dato un contributo logistico. In qualche modo, anche loro accrescevano le schiere dell’emigrazione che, in questo caso, si coloravano del colpevole senso della fuga.

Padre Carmelo in quelle carceri trova la forza che possono avere il pentimento, la conversione e la speranza. Ma sente anche il peso dell’attenzione particolare, se non del sospetto, che inevitabilmente grava su quei giovani da parte delle autorità e dell’intera società. Un  sospetto che supera con la preghiera, con l’assistere al pentimento e al sentire il calore delle migliaia di famiglie che gli scrivono costantemente e con molte delle quali finisce per restare l’unico intermediario per conto di quei giovani.

Un lavorio silenzioso, discreto che non sfuggiva ad occhi santi e sapienti. Come quelli di Madre Teresa di Calcutta o del Cardinal Martini che, nella dedica di un suo libro donato a Padre Carmelo, lo definì “consolatori di cuori”. O come quello con Papa Francesco e con tanti Presidenti della repubblica italiana.

Questo “Una porta aperta” di Padre Carmelo dev’essere proprio letto e meditato perché in filigrana ne esce l’immagine di una Chiesa fresca, di fede e solidarietà. Quella Chiesa che fece dire a Papa Francesco: “Ah! Come vorrei una Chiesa povera” e “in uscita” e con le porte, evidentemente riferendosi alle chiese di Roma, “non chiuse a mezzogiorno”.

Padre Carmelo Di Giovanni dopo tanti anni di Londra è stato parroco ad Ostia. Un ritorno alle origini, visto che si trattava di quella parrocchia Regina Urbis in cui aveva cominciato a fare il prete dopo l’ordinazione. Una realtà che ritrova la stessa del ’71, “ma molto peggiorata”, egli scrive, e sulla bocca di tutti per le vicende di “mafia capitale”.

Adesso, terminato il suo impegno di parroco, Padre Carmelo è tornato a seguire i carcerati romani perché a lui, e alla Chiesa che tanti hanno in mente allo stesso modo, non riesce proprio smettere di “tenere la porta aperta”.

Giancarlo Infante