Quanto è rimasto in sospeso dopo l’uccisione di Moro – di Giancarlo Infante

Quanto è rimasto in sospeso dopo l’uccisione di Moro – di Giancarlo Infante

In molti fanno discendere dalla criminale uccisione di Aldo Moro la fine della Democrazia cristiana e della Prima repubblica. Già subito, quel 9 maggio 1978, era possibile ascoltare, e non solo tra i democristiani di allora, la frase: ” è tutto finito”.

Processi e commissioni d’inchiesta si sono succeduti nel tentativo di comprendere fino in fondo il senso di quell’omicidio che, probabilmente, non ricade solamente nella delirante logica del terrorismo brigatista. E tante successive pagine, aperte e non ancora aperte, confermano la complessità di ciò che rimane dietro il cosiddetto “affaire Moro”.

In ogni caso, resta la constatazione che molti dei problemi dell’Italia sono rimasti “sospesi” ancora di più con quell’omicidio, più di quanto già non lo fossero nell’Italia degli anni ’70. Fu la stagione del terrorismo di destra e di sinistra, degli interventi diretti a destabilizzare il Paese, dello scontro violento che riguardava il rinnovamento e la qualità del confronto istituzionale e politico utili a far giungere gli italiani al senso compiuto del proprio processo democratico.

Quel 9 maggio, non era passato molto tempo da quando la Democrazia cristiana aveva scelto una linea nuova ed originale legata al nome di Benigno Zaccagnini. Ben sapendo tutti come, in realtà, fosse l’espressione di uno specifico impegno di Aldo Moro cominciato con l’esplosione della contestazione studentesca e delle lotte operaie in un’Italia in piena trasformazione. Oltre che per rispondere ad una sempre più diffusa violenza politica che aveva raggiunto con le bombe di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 il punto più emblematico, assieme agli altri 144 attentati dinamitardi( di cui 96 attribuiti alle organizzazioni eversive di destra) registrati solamente nello stesso anno, poi seguiti da altri gravissimi gesti, come quello del 1974 contro il treno Italicus.

Aldo Moro si era convinto che fosse necessario fornire una risposta adeguata ad una crisi sociale, politica, culturale ed istituzionale che non era solo italiana. E che lo portò a dare vita a quella che venne definita “la politica dell’attenzione”. Atteggiamento non riconducibile solamente al peso che aveva finito per assumere il Partito comunista in relazione al quale egli pensava fosse necessario considerare l’opportunità di un pieno coinvolgimento istituzionale, così come di tutte le forze  popolari, per la salvaguardia del sistema democratico.

Già al Congresso del ’69, Moro aveva preferito scegliere la via dell’opposizione interna alla Dc, in attesa che si consumasse quella che gli appariva come una deriva conservatrice incapace a cogliere la rilevanza dei mutamenti in atto nella società civile, nella scuola e nel mondo del lavoro, prima ancora che sul piano politico. Perché era la mancanza di un’adeguata risposta a quei mutamenti che finiva per innescare nuovi ed incontrollabili equilibri elettorali.

Fu la forza delle cose a dargli pienamente ragione ed anche in tempi particolarmente veloci. Non fu un caso se sopraggiunsero la Riforma della scuola che portava la firma di uno dei suoi più antichi compagni d’idee, Luigi Gui, lo Statuto dei lavoratori e l’assetto regionale nato con le elezioni dei parlamenti locali nel 1970. Fu quello un periodo di grandi riforme e molto di quelle conquiste democratiche e sociali erano sicuramente legate al suo pensiero e alla sua azione diretta al cambiamento, in continuità con quanto aveva fatto sin dalla Costituente. E per il suo modo di concepire e sviluppare la sua visione giungevano spesso critiche anche dal fronte della sinistra, interna ed esterna alla Democrazia cristiana.

Moro credeva che si dovesse andare, però, ulteriormente avanti perché quei mutamenti non assicuravano del tutto l’approdo ad una democrazia compiuta e comunque adeguata alle condizioni, internazionali e nazionali, che ancora lasciavano aperta tutta intera la questione della gestione del Paese. Nessuno così, quel 9 maggio, poteva essere certo che la visione di Aldo Moro fosse quella della cosiddetta alternanza o della consociazione tra forze politiche che trovavano la loro ragione d’essere in una contrapposizione storicamente consolidata e che investiva, insieme, cultura politica, visione antropologica e modelli economici e di definizione di nuovi rapporti nel mondo del lavoro.

Moro era comunque consapevole dei gravi problemi che ancora riguardavano l’assetto istituzionale, come poi il seguente sviluppo delle cose d’Italia avrebbe confermato e che neppure ben tre Commissioni bicamerali sarebbero riuscite a risolvere. E a questo si dovrebbe aggiungere l’aggravarsi della crisi delle autonomie di rappresentanza e di gestione della cosa pubblica a livello locale e regionale, cosa di cui già si intravedevano le prime criticità ai suoi tempi.

Molto di questo, che poi è l’essenza dei connotati democratici di una nazione e di un popolo, è rimasto ancora indefinito e, sotto taluni aspetti, il Paese ha pure perso alcune di quelle conquiste riformatrici . Al punto di portare, oggi, qualcuno a credere possibile l’idea dello snaturamento costituzionale vista l’incapacità di trovare il giusto rapporto tra governabilità e salvaguardia della rappresentanza e della partecipazione. A ben guardare, si tratta di ciò che interrogava Aldo Moro e più lo spingeva al proprio impegno pubblico.

Giancarlo Infante