Il caso Moro e l’attacco ad una intera cultura politica – di Giancarlo Infante

Il caso Moro e l’attacco ad una intera cultura politica – di Giancarlo Infante

Quel freddo 16 marzo di 45 anni fa resterà scolpito nella memoria e nell’animo di chi lo visse. Tanto devastante l’azione dei brigatisti rossi. Tanto altrettanto devastante la constatazione della fragilità dello Stato.

Poi abbiamo scoperto tante altre cose, che già s’intuirono nei 56 giorni del sequestro, quando persino la cosiddetta questione “umanitaria”, cioè la possibile trattativa da intavolare con le Br, divenne solamente un pretesto per attaccare al cuore il nostro sistema democratico e attraverso essa si rovesciavano i termini del problema per finire a far diventare i responsabili della morte di Moro i grandi partiti popolari e non i terroristi cui era ufficialmente intestata l’operazione.

Quello portato a Moro, vittima innocente, fu soprattutto un attacco alla Democrazia cristiana che nei precedenti  trent’anni e più di storia aveva assicurato il perno di quel sistema il quale, nonostante tutti i limiti ed i ritardi, restava un modello di democrazia che aspirava a raggiungere la sua più ampia forma compiuta, sia pure nel contesto reso stretto e stringente dai famosi accordi di Yalta da cui era uscita la divisione del mondo in due.

L’obiettivo dei brigatisti, e di chi poi li aveva, se non diretti, sicuramente utilizzati, era quello di attaccare un’intera cultura politica e un metodo politico. Quello di cui oggi sentiamo tutti la mancanza, e non solo gli studiosi di quella particolare scienza umanistica che è la politologia.

Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro servirono a far saltare un anello fondamentale in una politica che allora veniva definita di confronto e di rinnovamento. E che si trovava in quei fatidici giorni in una fase di piena valutazione e riflessione. Neppure Aldo Moro sapeva con certezza se la situazione di stallo creata dall’esistenza di due partiti vincitori, come egli ebbe a dire alla vigilia del rapimento, avrebbe portato ad un governo di unità nazionale o di alternanza. In ogni caso, si sarebbe trattato del completamento del lungo e complesso processo che l’Italia aveva intrapreso sulle macerie provocate dal fascismo, facendo un ulteriore passo verso la ricomposizione sociale e politica.

I successivi fatti ci hanno detto, invece, che con il “dopo Moro” i partiti si avvitarono definitivamente in una vertigine di scontri esclusivamente basati sulla gestione del potere, sul controllo degli enti di stato, sulla “mercantilizzazione” della sanità pubblica e sull’aumento a dismisura del Debito pubblico. I successivi fatti ci hanno detto del fiorire di poteri “paralleli” emanazione di una commistione di realtà “deviate” dello Stato, di criminalità organizzata e di destra eversiva e ingerenze estere, mentre i brigatisti rossi continuavano con il loro onirico inseguimento di sogni proto – populisti d’impronta comunista. Non a caso delirarono parlando di un Moro sottoposto ad un processo del popolo. E il cosiddetto “affaire Moro” vide coinvolti quelli della P2, infedeli servitori dello Stato, la criminalità organizzata di vario genere, interessi stranieri altrettanto di vario genere ed è probabile che la “vera” verità della preparazione, del compimento e della conclusione dell’operazione non emergerà mai con quella chiarezza che sarebbe necessaria.

L’incapacità anche da parte di molti tra i democristiani di capire la portata dell’attacco e, quindi, il progressivo abbandono del processo di rinnovamento che Moro aveva voluto avviare con la Segreteria Zaccagnini, fece il resto e favorì il progressivo sovvertimento del sistema democratico conosciuto come Prima repubblica. Un sovvertimento che divenne definitivo grazie al combinato disposto da “Mani pulite”, non sempre condotta con equilibrio, e dallo stragismo mafioso di cui ancora di più appare, oggi, la funzionalità politica. Anche il partito di Berlinguer non capì che l’attacco doveva ricevere una risposta diversa dal trincerarsi dietro una “questione morale” che non era solo affare di altri.

E così si giunse alla fine di un’esperienza politico istituzionale figlia, nonostante tutto, di finezza nell’analisi, di capacità d’ascolto e concreto attenzione ai problemi reali del Paese senza i quali l’Italia non sarebbe riuscita a scalare le classifiche mondiali e ritrovarsi a diventare una delle prime potenze industrializzate del mondo. Livello progressivamente, e velocemente, perso dal 1994 in poi quando la politica ha cominciato a diventare in maniera sempre più marcata, e sfacciata, tutta un’altra cosa.

Di Moro, dunque, è importante ricordare non solo la statura umana, morale e culturale, ma anche il fatto che venne assassinato perché rappresentante del punto più alto di un’Italia che credeva nella solidarietà, nel libero e democratico confronto e nell’inclusione.

Giancarlo Infante