Il Quirinale e la fine del populismo – di Giuseppe Sacco
Giunto alla sua inconcludente terza giornata, il processo elettorale da cui dovrà uscire il Presidente della Repubblica chiamato a succedere a Sergio Mattarella, non è stato tuttavia privo di insegnamenti. Tra i più significativo di quali ce ne è probabilmente uno relativo alla vexata quaestio della capacità degli Italiani di liberarsi dei pregiudizi di genere.
Infatti, dopo mesi in cui tutti si erano riempiti la bocca con l’ipotesi di poter eleggere un presidente donna, quando si è presentata l’occasione di farlo effettivamente, non solo sono state avanzate ragioni d’opportunità istituzionale, ma sull’intera questione si è fatto cadere un silenzio tombale. Un silenzio particolarmente significativo perché mantenuto soprattutto dalle forze che pretendono di essere “progressiste” e “di sinistra”.
E’ vero che il nome della Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, non era “ufficialmente” in campo, in quanto non incluso nella “rosa” proposta dal centrodestra e destinata a costringere quelle forze – il PD, i Cinque Stelle e la stessa “Italia Viva” – ad uscire allo scoperto. Ma in realtà, è apparso subito evidente che dietro i nomi di personalità come Marcello Pera e Carlo Nordio ci fosse l’ipotesi di una candidatura Casellati. Ma da parte tanto di Letta quanto di Conte si è preferito spostare il discorso sulla critica del modo in cui il nome è stato proposto, più che sul nome stesso. E neanche ciò è bastato a risparmiargli una scortese bocciatura da parte di Letta
La giornata ha però soprattutto confermato i sintomi che inducono a pensare come ci si trovi alla conclusione di una fase decennale nella storia italiana del secondo dopoguerra: conclusione contrassegnata dal fallimento definitivo delle forze populiste emerse a partire dalle elezioni del 2013, e che hanno portato, cinque anni dopo, alla catastrofica occupazione di entrambe le aule del Parlamento da una maggioranza composta in stragrande misura da persone incapaci e totalmente impresentabili. Non si trattava solo del Movimento Cinque Stelle, il cosiddetto, M5S, perché anche gli eletti della Lega che Salvini aveva appena fatto risorgere hanno dimostrato di rientrare largamente in questa categoria.
Poco meno di un anno fa, e dieci anni dopo quel primo, ma già notevole, successo elettorale del Movimento Cinque Stelle, questa insostenibile situazione aveva portato all’ imposizione dall’esterno – o meglio, dall’estero – di Mario Draghi come Capo del governo. Alla cui azione e credibilità ha fatto seguito una stabilizzazione della situazione generale del paese, che a sua volta ha dato spazio ad un tentativo di ritorno dei vecchi partiti. Eppure ieri a Montecitorio, molti peones provenienti soprattutto da entrambe queste etichette hanno cominciato a sparare sul loro Quartier Generale.
I 125 voti per Mattarella sono il portato di una massa elettorale che avverte come i loro pretesi leader siano allo sbando. Ed il fatto che questi – nell’area della pretesa “sinistra” – non abbiano saputo offrire altro se non, per la terza volta, l’opzione della scheda bianca, ha segnalato l’esistenza di un forte limite nella capacità di ripresa della vecchia politica, ed ha fatto al tempo stesso scattare la molla della rivolta e di un muto appello per la prosecuzione dello statu quo, garantito dalla continuità sia di Mattarella al Quirinale che di Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Di questo stato di debolezza, che accomuna – anche se per ragioni e con sintomi diversi – le forze politiche dominanti prima del 2013 e gli eletti dell’ondata populista del 2018, sembra partecipare assai meno l’unica forza di opposizione, la “vecchia destra”. Cioè Fratelli d’Italia, in quanto i 114 voti ottenuti dal loro candidato di bandiera, Guido Crosetto, non solo sono stati una riuscitissima esibizione muscolare, ma hanno anche dato il segnale di un’influenza e di una capacità di controllo che si estendono anche nell’altrui territorio.
Perciò. forte del segnale ottenuto grazie ai voti raccolti dal suo portabandiera, la Meloni ora può delegare a Salvini la guida della inevitabile trattativa, e tramite la Lega, porre una ipoteca – ancorché parziale – non del tutto trascurabile sull’area politica coperta dalla maggioranza che sostiene il governo presieduto da Mario Draghi. A meno di un’azione abile e decisa delle forze di centrosinistra, c’è dunque da temere che finisca per essere l’estrema destra ad imporre all’ex-Presidente della BCE di rinunciare – come chiedono anche alcuni importanti centri di potere internazionale – alla propria personale, forte aspirazione a sedere sul colle più alto, lasciandolo, si spera, a Sergio Mattarella, e di piegarsi di fronte al diffuso sentimento di personale ostilità da lui suscitato. E di restare a Palazzo Chigi.
Giuseppe Sacco