Tra la società inclusiva e lo scontro di civiltà? – di Giancarlo Infante

Tra la società inclusiva e lo scontro di civiltà? – di Giancarlo Infante

Pubblicato su www.politicainsieme.com

Con l’11 settembre non cambiò solo l’immagine della classica cartolina che immortalava fino ad allora New York. La scomparsa delle due Torri gemelle, il simbolo del potere culturale, politico ed economico degli Stati Uniti, e agli occhi di molti, persino, dell’intero Occidente, s’inserì in quella trasformazione della visione del mondo che stava già prepotentemente interessando molti intellettuali, analisti e classi dirigenti, soprattutto statunitensi.

Per secoli, formata com’era da popolazioni provenienti dagli altri continenti, l’America era stata animata in via quasi esclusiva, fino ad esaltarla, dalla visione del “melting pot” che si trovava, invece, messa in discussione, se non addirittura contraddetta. All’immagine del crogiuolo, in cui si fondono e coesistono tante etnie, culture, visioni antropologiche, religiose ed esistenziali, si sostituisce quella della separatezza, se non dello scontro. Eppure, il paradigma del “melting pot”  è stato largamente esportato. In qualche parte, ha caratterizzato anche taluni paesi europei, in particolare Regno Unito, soprattutto l’Inghilterra, la Francia e la Germania. I primi due per la tradizione coloniale. Il terzo per l’apertura delle porte a tanta manodopera giunta soprattutto dalla Turchia, ma anche dai paesi dell’est europeo, fin da quando stavano ancora sotto il dominio sovietico.

Nel 1996, con il suo “Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, Samuel P. Huntington introdusse un altro concetto. Quello dell’inevitabilità del conflitto che, dopo la fine della Guerra fredda, si sarebbe scatenato sulla base di visioni religiose e culturali, invece che ideologiche ed economiche. C’è da considerare che Huntington non era un reazionario conservatore “supematrista”, come oggi si potrebbe dire guardando ai tanti cui Donald Trump e la destra conservatrice americana hanno strizzato e continuano a strizzare l’occhio. Egli era stato consigliere della Casa Bianca ai tempi del Presidente democratico Jimmy Carter e direttore degli Studi strategici e internazionali di Harvard che non è certo il tempio del conservatorismo culturale e politico.

C’è da valutare, inoltre, se la sua riflessione da politologo internazionale non fosse stata fortemente influenzata dall’esperienza apicale vissuta a Washington nel periodo in cui nasceva la Repubblica islamica dell’Iran con un piglio violentemente antitetica alla cultura occidentale e che il suo libro più famoso uscì dalle stampe nel pieno del conflitto jugoslavo sanguinosamente protrattosi, e caratterizzatosi, lungo la dorsale delle divisioni etniche e religiose tra i serbi ortodossi, i croati cattolici e i musulmani bosniaci e kosovari.

La fine della divisione bipolare del mondo, con la scomparsa dell’Unione sovietica, dette la stura alla rinascita di secolari divisioni e antagonismi per lungo tempo compressi,  sin dalla spartizione di Yalta; e di questo Huntington e tanti altri ne ebbero una piena e realistica consapevolezza. In fondo, l’idea dello scontro di civiltà si poneva in piena coerenza con quell’atteggiamento occidentale che faceva dire a Tiziano Terzani di quanto un certo tipo d’Occidente  sia organicamente impedito nella comprensione del resto del mondo. In particolare di quell’Oriente che egli definiva ” cultura in quanto ricerca dell’io pensante”.

In questo mutamento di visione culturale, politica ed antropologica, particolarmente già accentuato negli Stati Uniti per fenomeni soprattutto interni legati, da un lato, alle tensioni sempre presenti tra comunità bianche e quelle nere, dall’altro, al crescente fenomeno dell’immigrazione ispanica,  l’11 settembre 2001 sembrò portare una clamorosa conferma della teoria dell’Huntington richiamando, in un preciso contesto storico, prevalentemente l’antiteticità tra Occidente e Islam. C’era stato, inoltre, un precedente a livello mondiale, che colpì gran parte dell’opinione pubblica, di qualunque fede essa fosse. Si trattò di qualcosa di violento, ma non sanguinoso come, invece,  sarebbe poi stato nel caso dell’attacco alle Torri di New York. Risalente al febbraio 1989, fu quello della vera e propria insurrezione scatenatasi nei paesi di fede islamica contro la pubblicazione del libro di Salman Rushdie, “I versi satanici”, vissuta da tutte le popolazioni musulmane come un vero e proprio oltraggio alla figura di Maometto. Rushdie, indiano proveniente da famiglia di fede islamica, si è sempre dichiarato ateo. Ma questo, semmai, aumentò l’odio contro di lui e, persino, i traduttori del suo libro considerato blasfemo. Alcuni di essi furono oggetto persino di violente aggressioni fisiche, come nel caso dell’italiano Ettore Capriolo che sopravvisse, a differenza di quel che accadde a Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese ucciso da fanatici intenzionati a portare alle estreme conseguenze la fatwa lanciata contro Rushdie direttamente da Khomeyni.

Se fino ad allora l’attenzione di molti occidentali ai problemi del Medio Oriente e del Golfo persico focalizzava soprattutto gli aspetti economici e del controllo delle fonti energetiche, inevitabilmente, soprattutto dopo l’attacco al cuore dell’America, essa si traferì su di un piano più generale e convinse molti che, in realtà, si trattava di uno scontro di civiltà, appunto.

Molti commenti alla vicenda afghana di questi giorni finiscono paradossalmente per rovesciare questa teoria, pur facendola propria nel senso di riconoscere che esistono civiltà diverse, difficilmente conciliabili tra di loro, ma delle quali si deve pur tenere conto. Non è un caso che il fallimento di Kabul abbia portato a considerare come gli Stati Uniti e l’Occidente non abbiano compreso, e rispettato, la natura specifica del popolo afghano, delle sue tradizioni tribali, delle abitudini di vita delle sue popolazioni, eccetera eccetera, rendendo pertanto vana persino una presenza ventennale. Eppure, abbiamo visto e sappiamo che molti afghani non vogliono considerare completamente perduta la possibilità di vivere diversamente. Cosa che nella stragrande maggioranza dei casi non significa il ripudio della loro fede islamica.

In una dimensione più generale, non si può dimenticare che, nel frattempo, molto sta maturando in tanti  paesi arabi, alcuni dei quali sono giunti a realizzare il cosiddetto Accordo di Abramo con Israele. Segno che se ciascuno resta all’interno dei propri sentimenti religiosi, magari applicando in alcuni casi, e in varie forme, la legge islamica, oppure vive pienamente delle proprie tradizioni e costumi, ciò non impedisce che lo scontro possa essere sostituito da un diverso modo di concepire relazioni e convivenze, sia pure accettando l’idea di un’evoluzione non facile e veloce.

Dopo secoli di predominio e diffusione, e l’aver raggiunto la capacità di rinchiudere l’Occidente in un angolo relativamente ristretto del mondo, ed è per questo che fu consentito a Cristoforo Colombo di provare a trovare una diretta strada di collegamento con l’Oriente, il mondo musulmano ha vissuto un periodo altrettanto lungo di decadenza e d’ininfluenza. La reazione si avviò soprattutto alla conclusione della Prima guerra mondiale e il successivo sfruttamento del petrolio. Vi è stato ciò che ha fatto parlare di un “risveglio alla civiltà contemporanea”, lo fece nel 1967  Guido Valabrega nel suo” La rivoluzione araba”, ma all’interno di un “travaglio, è sempre il Valabrega a definirlo così, “profondo ed acuto che investe idee, uomini e istituzioni”.
I risultati più recenti, quelli più tangibili ed immediati, sicuramente quelli che colpiscono maggiormente, e da molti di noi occidentali troppo ignorati, sono riassumibili in quasi 170 mila morti, e solamente contando quelli registrati ufficialmente fino al 2019,  a causa del terrorismo islamista ( CLICCA QUI ), di cui però  i nove decimi erano di fede musulmana.
Un altro risultato, dagli esiti per il momento contraddittorio, fu quello delle cosiddette “primavere arabe” di dieci anni successive al crollo delle Torri gemelle. La conferma della profondità di un travaglio frutto della coesistenza  e convivenza di ipotesi nazionalistiche con quelle socialiste, le più ortodosse con le più socialmente impegnate, come nel caso della Fratellanza musulmana, se non definitivamente aperte ad accettare l’ipotesi della scelta laica e nazionalistica o, al contrario, sempre laica, ma più decisamente filo occidentale.

Intanto,  siamo appena agli inizi di un inevitabile processo di autoanalisi sulla fine o sulla riproposizione della tradizionale visione delle società occidentali, forse formula più corretta da adoperare rispetto alla più sbrigativa di Occidente, vissuta all’insegna del “melting pot”. Esso costituisce, infatti, una conseguenza inevitabile della globalizzazione e della sua possente onda lunga, grazie alla capacità di favorire, persino sollecitare, il trasferimento delle persone, del fare emergere le sempre più stridenti disparità economiche  e le disuguaglianze sociali, oltre che costringere a fare i conti con l’innovazione,  con le trasformazioni produttive e del commercio internazionale e, dunque, delle dinamiche proprie del mercato del lavoro.

E’ molto probabile che a lungo queste due visioni, quella dello scontro di civiltà e quella della costruzione di società multietniche ed inclusive, vissute in evidente contrapposizione e destinate a sostenere differenti posizioni politiche, conviveranno per tanti altri anniversari a venire dell’11 settembre. In attesa che ci si decida a costruire un nuovo “ordine” mondiale da auspicare, ovviamente, misurato in ragione del valore e  della dignità da riconoscere ad ogni essere umano.

Giancarlo Infante