Il Coronavirus e lo sconcerto – di Giancarlo Infante

Il Coronavirus e lo sconcerto – di Giancarlo Infante

Le immagini del treno preso d’assalto a Milano da viaggiatori intenzionati a scappare dalla Lombardia, prima dell’avvio del blocco deciso dal Governo, mi hanno fatto tornare alla mente quel drammatico affresco che Irène Némirovsky, nella Suite francese,  fa della fuga dei parigini per l’arrivo dei tedeschi nel giugno del 1940: “Già la gente, dimenticando morti e feriti, si precipitava verso la stazione aggrappandosi alle valigie e alle cappelliere come naufraghi ai salvagente. Ci si accapigliava per un posto”.

Fu il panico. Come quello che si traduceva sulle strade fuori Parigi, dove “scorreva lentamente  un fiume di macchine, di camion, di barrocci, di biciclette e carri di contadini che abbandonavano le loro fattorie e andavano verso sud portandosi dietro greggi e bambini”.

Non sappiamo cosa accadeva due sere fa su strade ed autostrade lombarde. Ieri è stato  inevitabile, però, prendere atto degli interventi decisi dai governatori delle regioni del centro e del sud per rimandare indietro tanta gente o costringerla a mettersi in quarantena una volta uscita dall’annunciata zona rossa. Timori comprensibili, ma basta guardare la residenza sulla carta d’identità per risolvere un problema tanto complesso?

Quello che poté l’arrivo dei tedeschi a Parigi lo ha potuto da noi una gestione del provvedimento d’emergenza deciso dal Governo e dalle regioni settentrionali in un modo che lascia ancora sconcertati.

Governare è difficile, non è come pensa la gente comune. Quando si prende una decisione, però, bisogna essere conseguenti e preveggenti. Soprattutto, essere sufficientemente organizzati per la bisogna. Ci si deve preoccupare più della sostanza e dell’equilibrio da trovare tra le necessità individuate e le concrete possibilità dell’operare, piuttosto che dei comunicati stampa o delle dichiarazioni da fare.

Qualcuno, lo ha denunciato lo stesso Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha fatto circolare la prima bozza del provvedimento. Si è dato il via alla grande fuga o al grande rientro. E’ stato così, infatti, non solo per i fuggitivi verso il Sud, ma anche per molti lombardi. Rifugiatisi altrove nelle settimane scorse, prevedendo un lungo periodo di chiusura del confine regionale, hanno preferito tornare a casa.

Nessuno è così disumano da sottovalutare le angosce, i drammatici quesiti che ciascuno di noi avrebbe dovuto porsi ritrovandosi nelle condizioni di molti di loro. L’incertezza sul futuro, la lontananza dagli affetti familiari, il rischio di perdere un lavoro faticosamente trovato. Insomma, tutto ciò che inevitabilmente connota vite umane, vere e concrete, nei grandi momenti di una tragedia collettiva.

Siamo però costretti a guardare al fenomeno preso nella sua complessità e, soprattutto, alle conseguenze che esso può avere per quel più ampio numero di quanti compongono la nostra comunità. Pur consapevoli che tanti drammi, e magari ingiustizie, finiscono per coinvolgere dei singoli.

Dobbiamo prendere atto che la gestione delle cose ha dato la stura ad un ancora più ampio ed incontrollato rimescolio di popolazione. Non sappiamo quali conseguenze esso possa avere sulla diffusione del Coronavirus.

Il panico è esploso con la diffusione di una bozza del decreto, poi rivelatasi diversa dal testo finale. Follia che si è impadronita di chi sta vicino alle tante sale comando messe in piedi? Preoccupato più di tenere ottimi rapporti con la stampa piuttosto che ragionare sulle conseguenze del renderla pubblica.

La tv statunitense Cnn sostiene di aver ricevuto il documento dall’Ufficio stampa della Regione Lombardia. Quest’ultima nega, ma la cosa conferma che c’è chi tratta il Coronavirus come se fosse un problema di gestione ordinaria e non da essere gestita,  nella riservatezza più assoluta, da un’autorità coesa e  sulla base di valutazioni scientificamente dimostrate. Se i politici, come ha recentemente scritto il nostro Enrico Seta, se ne tenessero lontano sarebbe meglio per tutti ( CLICCA QUI  ).

La vicenda del Coronavirus fa venire a galla tutta la nostra identità nazionale, nel bene e nel male. La dedizione si mischia con il pressappochismo, la giusta decisione di comunicare si sposa all’incapacità di capire che si comunica quando sono stati predisposti strumenti adeguati a sostegno della fase operativa. Che senso ha avuto far sapere che da giorni si stava valutando di estendere la zona rossa a tutta la Lombardia senza prevedere che tra la gente avrebbe finito per  prevalere l’istinto di sopravvivenza?.

E’ chiaro che vi è tanto egoismo e mancanza di senso civico, oltre che d’intelligenza e attitudine a seguire principi di precauzione. Del resto, molti segnali in questo senso li avevamo già avuti dai tanti che dalle prime zone rosse si erano già allontanati impunemente, visto che il precedente decreto non prevedeva norme adeguatamente severe al riguardo. Così il virus si è diffuso. L’abbiamo portato persino al di fuori dai nostri confini.

I giornali internazionali fanno riflettere sugli esempi di Taiwan, di Singapore e del Vietnam. Certamente realtà diverse, di cui una addirittura insulare. Là, dopo la lezione della Sars, hanno avviato efficaci politiche di prevenzione e reso possibile un vero e proprio contenimento del Coronavirus, nonostante siano così immediatamente a ridosso della Cina.

E’ vero che, sia nel caso di Taiwan, sia del Vietnam,  si tratta di due realtà che potremmo definire per alcuni aspetti “militarizzate” o in breve tempo “militarizzabili”. Non è una differenza da niente rispetto all’Italia dove si affastellano responsabilità diffuse che spesso si trasformano, così, in mancanza di responsabili certi.

Nel  nostro Paese, inoltre, c’è quell’altro particolare virus in circolazione che potremmo definire con la sigla RVOC: la “Ricerca dei  Voti ad Ogni Costo”. Una vera e propria patologia per chi è chiamato a governare e pensa che il suo primo problema sia quello di perpetuarsi in quella condizione, di  tornare obbligatoriamente a quell’incarico e di non accettare l’idea che il guidare, meglio sarebbe dire servire, pro tempore una comunità possa essere fatto all’insegna più del “bene comune” piuttosto che per sostenere un’intera carriera politica.

Ebbene, Taiwan, che ha spedito ben 850 mila propri cittadini a lavorare in Cina, ha creato un permanente  “centro di comando” contro le infezioni da virus per favorire la  raccolta dati, la ridistribuzione delle risorse, lo studio della cronologia dei contatti delle persone. Sono stati così, da subito, in grado di isolare rapidamente i pazienti positivi al Coronavirus. Già agli inizi di gennaio si è intervenuti per impedire il contagio, razionate le maschere, limitato l’ingresso dei passeggeri con una storia di viaggio in Cina e messi in quarantena quanti erano stati a Macao e Hong Kong.

Adesso, per quanto riguarda noi, ci dobbiamo chiedere alcune cose, comunque consapevoli che non è questo il momento delle polemiche.

Il Coronavirus pone oggettivamente dei problemi di democrazia. Chi deve decidere? Come? Possono essere sospese garanzie fondamentali e, soprattutto, vi deve essere una catena di comando verticale, più che orizzontale?

Nel caso specifico, andrebbero forse meglio definiti ruoli e responsabilità tra Stato, Regioni, Comuni, Ma anche quelli che riguardano la Protezione civile e le autorità sanitarie. L’impressione di queste ore è quella di un grande guazzabuglio. Forse perché la complessità della situazione fa emergere, da un lato, com’è squinternata la struttura pubblica e, dall’altro,  una certa confusione di ruoli e di peso sulle decisioni da prendere che è davvero stupefacente.

Il Nord d’Italia si è trovato per la prima volta a veder radicalmente rivoluzionata la propria immagine nel competere con sciagure diffuse che si pensava dovessero, per principio, riguardare solo altre parti d’Italia. Oggi si ritrova persino diviso al proprio interno, perché diverse sono le situazioni e le condizioni di disagio.

La cartina tornasole della drammaticità di una situazione cui dobbiamo guardare con partecipazione, e non con superficiale ironia, ci viene dalle non coincidenti opinioni che cogliamo persino tra i vertici delle diverse regioni nordiche e nella stessa  Lega.

L’assessore lombardo, Giulio Gallera, plaude alle misure forti. Anzi le voleva ancora più forti e si lamenta di una certa ambiguità che conterrebbe il decreto al riguardo. Il Presidente del Veneto, Luca Zaia, vuole lo stralcio dal decreto delle tre province venete perché si preoccupa delle attività commerciali . Il sindaco leghista di Asti si lamenta della zona rossa. L’altro di Novara, sempre leghista, dice che era l’unica cosa da fare.

Il segno che di fronte alle cose drammaticamente concrete la polemica politica rischia di presentarsi persino come un lusso e, quindi, chi è chiamato a svolgere incarichi pubblici, su fronti tanto delicati e decisivi per intere popolazioni, deve più che mai operare in scienza e coscienza.

Un’ultima notazione finale da dedicare alla situazione romana. In particolare, in relazione allo stato di abbandono in cui versano due strutture ospedaliere come sono quella del Forlanini e del San Giacomo, chiusi entrambi da anni e anni. Il secondo, nel pieno centro della Capitale, serrò i battenti dopo che erano stati ristrutturati due interi reparti.

Entrambi gli ospedali sono ridotti nello stato in cui si trovano per quella solita commistione fatta da pessima capacità progettuale della politica e interessi privati ed istinti speculativi. La conseguenza è che ci si deve davvero augurare che a Roma non si formi un serio focolaio di Coronavirus perchè le strutture di rianimazione, già ad oggi insufficienti, esploderebbero completamente.

Giancarlo Infante

Pubblicato su www.politicainsieme.com