Il disastro annunciato dell’Ilva – di Guido Puccio
Non bastassero le guerre vere in corso, i trattori nelle autostrade, le carceri ungheresi e quant’altro, ecco riproporsi pesantemente il problema della ex Ilva, la grande acciaieria di Taranto un’altra volta senza padrone.
I fatti sono noti, ma sovente dimenticati e travolti dalla massa quotidiana delle informazioni. Ecco solo un breve richiamo della vicenda.
Il complesso siderurgico Acciaierie d’Italia (ex Italsider ed ex Ilva) è in crisi di sopravvivenza da almeno dieci anni, dopo che era stato pensato e realizzato dallo Stato negli anni Sessanta come grande strumento per lo sviluppo industriale del Paese.
Dopo una rapida crescita, pur accompagnata da alterne vicende, che lo aveva portato ad essere il primo produttore di acciaio d’Europa, l’intero complesso viene ceduto in tempi di privatizzazioni alla famiglia Riva che riesce a portare la produzione utilizzando tutti gli impianti a dieci milioni di tonnellate per anno. Per avere solo una idea della importanza di questo dato sarà bene sapere che il fabbisogno italiano di acciaio è oggi di circa venti milioni di tonnellate per anno.
Sul più bello della crescita iniziano le danze: prima i sindacati, poi i sindaci, i consiglieri regionali, i parlamentari, la grande stampa e quindi inevitabilmente i pubblici ministeri, squarciano il velo sull’inquinamento ambientale provocato dagli altiforni a carbone. La fabbrica è ben presto sequestrata e i Riva espropriati e pesantemente incriminati. Interviene lo Stato con l’accesso della società alla procedura di amministrazione straordinaria (legge Prodi) uno strumento già richiamato dalla vecchia legge fallimentare, che congela tutti i debiti e prevede una gestione temporanea in attesa di una futura gara per la vendita.
Partecipa e vince la gara l’industriale indiano dell’acciaio Mittal, numero uno al mondo tra i produttori, con fabbriche in 60 paesi dopo la fusione con la francese Arcelor. Lo Stato entra nella nuova società con una quota di minoranza destinata ad incrementare nel tempo. Le danze continuano: progetti di risanamento, di tutela dell’ambiente,, di investimenti produttivi che però non si vedono. Stop and go della produzione. Lo Stato non fa tutta la sua parte e Mittal men che meno. Anzi, non si fida più.
Arriviamo ad oggi: la produzione, con impianti in grado di produrre sei milioni di tonnellate di acciaio, scende a due milioni. La cassa piange, Snam si stufa di fornire gas senza essere pagato e Mittal se se ne va in Normandia a costruire una nuova fabbrica con forni elettrici. Il nostro Governo resta con il cerino in mano e ricorrerà a breve ad una seconda procedura di amministrazione straordinaria, particolarmente complessa visto che la prima non è ancora chiusa ed ha la proprietà degli impianti. I debiti correnti (circa tre miliardi) saranno ancora una volta bloccati.
Sin qui, in breve, alcuni tratti delle disastrose vicende di quella che era la più grande acciaieria d’Europa.
Nonostante la presenza di altri rilevanti imprenditori italiani che complessivamente hanno portato il nostro Paese ad essere il quarto produttore di acciaio del mondo dopo USA, Giappone e Cina, dobbiamo importare acciaio per almeno il 30% del nostro fabbisogno.
La decisione del Governo Meloni – Giorgetti di ricorrere ancora alla amministrazione straordinaria è questione di giorni ma apre scenari imprevedibili. La prima procedura sarà creditrice della seconda, con tutto il suo carico di debiti non soddisfatti. Inevitabile il ricorso continuo alla cassa integrazione per i dipendenti; la sospensione delle attività dell’indotto; l’aumento delle importazioni di acciaio; il rischio di aumenti del costo di un bene primario per le costruzioni, l’energia, l’automotive, i trasporti.
Forse sarà addirittura necessaria una legge speciale, a meno che questa volta intervenga un cavaliere bianco con la volontà, la capacità e i mezzi per rilanciarla, completando la messa in sicurezza e un piano industriale serio.
Altrimenti avrà ragione chi ha definito questa vicenda “come il Titanic”.
Guido Puccio