E se il Sud si ribellasse per far valere le proprie ragioni? – di Michele Rutigliano

E se il Sud si ribellasse per far valere le proprie ragioni? – di Michele Rutigliano

Forse è un po’ prematuro tracciare un bilancio della politica meridionalista di questo Governo. Ma, se il buon giorno si vede dal mattino, a chi ci chiede come stanno effettivamente le cose, potremmo  tranquillamente rispondere (parafrasando Erich Maria Remarque) che non c’è  “Niente di nuovo sul fronte meridionale” .

Se al Sud, contrariamente alle indicazioni del Pnrr, continuano ad essere riservate solo avanzi e briciole , allora non ci resta che proclamare Vincenzo De Luca  unico, vero e autentico “Avvocato del popolo meridionale”.  Lui sì che difende le regioni del Sud, altro che i fratelli, le sorelle o i cognati d’Italia.  Ma quali sono  gli argomenti  su cui sta martellando il Governatore della Campania?  Questa volta, dobbiamo riconoscerlo, non c’entra né il piagnisteo né il mai sopito vittimismo di alcuni politici meridionali che non vogliono mai assumersi la responsabilità dei loro fallimenti.

Questa volta non è così.  Il Presidente della Regione Campania ha ragioni da vendere quando protesta contro le discriminazione e le umiliazioni che il Governo sta riservando al Mezzogiorno. Dopo aver definito una “Legge Truffa”, quella sull’Autonomia differenziata, De Luca è andato giù ancora più duro. Ha accusato il Governo di centralizzare i fondi europei destinati al Sud, sottraendoli alle amministrazioni locali e affidandoli al Ministro per gli Affari europei, Raffaele Fitto, da lui sfidato ad un dibattito pubblico sui dati  forniti e sui criteri utilizzati nella ripartizione dei fondi. Un altro provvedimento, anche questo bersaglio delle sue critiche, è la creazione di una Zes Unica per il Mezzogiorno. Una Zona Economica Speciale che vorrebbe scimmiottare la Cassa per il Mezzogiorno.

Ma non è aria per i tempi che corrono.  Se consideriamo la penuria di risorse e la lentezza nella realizzazione dei progetti previsti nel Pnrr a favore del Sud, con ogni probabilità la Zes Unica andrà a finire su un binario morto.  Ebbene, pur considerando la forte diversità storica, economica e politica del nostro Secondo dopoguerra con il tempo attuale, balza subito agli occhi una cosa. La totale assenza di visione per il Mezzogiorno, oggi più che mai, in preda alla desertificazione industriale, alla denatalità e al progressivo spopolamento delle sue aree interne.  E allora, cosa fa il Governo, per contrastare questo scenario? Fa votare alla sua maggioranza una legge come quella sull’Autonomia differenziata. Un provvedimento molto simile ad una estrema unzione per le regioni più svantaggiate del nostro Paese.

Come sono lontani i tempi della Cassa per il Mezzogiorno. Un Ente che, nei suoi primi vent’anni, operò una vera e propria rivoluzione per il Sud. Vogliamo ricordare ai patrioti quali erano i suoi punti di forza? Innanzitutto, la sua dotazione finanziaria. Ebbe la capacità di attrarre risorse finanziarie sia nazionali che internazionali, sia dallo Stato italiano che da organismi internazionali, c come la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo e la Banca europea per gli investimenti. Tutto questo  permise alla Cassa di disporre di un ampio budget, che raggiunse, nel 1962, il 4,5% del PIL nazionale.

Un secondo punto di forza fu la capacità di innovare la struttura e la funzione dell’amministrazione pubblica. La Cassa fu  un modello di riforma amministrativa che si distinse per la sua autonomia, la sua efficienza, la sua competenza tecnica e la sua visione strategica. Si dotò, inoltre, di una pianificazione degli interventi, basata su studi e analisi scientifiche. Con una programmazione dei complessi organici, ovvero di insiemi coordinati di opere e progetti che miravano a creare poli di sviluppo integrato. In questo modo, esercitò  un ruolo di coordinamento tra i vari ministeri e le regioni interessate, con  una strategia che seppe evitare sovrapposizioni e conflitti di competenza.

Un terzo punto di forza fu la capacità di realizzare opere e progetti di grande rilevanza come strade, autostrade, ferrovie, porti, aeroporti, acquedotti, centrali elettriche, scuole, ospedali, case popolari.

Senza dimenticare che fu proprio la Cassa a favorire  lo sviluppo economico del Mezzogiorno, attraverso la creazione di aree industriali, la concessione di incentivi fiscali e finanziari, la partecipazione a società miste pubblico-private, la promozione di settori strategici come la siderurgia, la chimica, la meccanica, l’elettronica, la petrolchimica. Così come sostenne  lo sviluppo agricolo e sociale del Sud, attraverso la riforma agraria, la bonifica di aree paludose, la lotta alla malaria, la formazione professionale, la cooperazione e la cultura

Ma la più grande soddisfazione per De Luca e, sia detto per inciso per tutti i meridionali che non vogliono rassegnarsi al lento declino del Sud, non è tanto il risalto e l’eco che sta ottenendo sulla stampa e presso l’opinione pubblica più avveduta. La soddisfazione è  ben altra.  La sua battaglia per difendere le ragioni del Sud risale nientedimeno che ai primi del Novecento. Con le stesse argomentazioni e lo stesso rigore documentale, fu Francesco Saverio Nitti a denunciare lo stato di abbandono in cui si sarebbe trovato il Sud se si fossero  applicati due pesi e due misure nel governo del neonato Regno d’Italia. Andiamo a vedere cosa scrisse Nitti in un suo volumetto, pubblicato a Torino nel 1900, dal titolo “Nord e Sud”, proprio sul tema della ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato. A soli trentadue anni, già docente ordinario di Scienza delle Finanze e Diritto finanziario presso l’Università di Napoli, affrontò il tema del bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97. E subito fece notare l’iniqua ripartizione della Spesa pubblica in Italia. Dall’unità in poi il Mezzogiorno aveva subito un continuo e costante drenaggio di risorse solo per favorire lo sviluppo infrastrutturale e industriale dell’Italia settentrionale.  Confutate, in poche righe, quelle analisi di comodo e superficiali  che tentavano di ridurre a motivazioni antropologiche la natura del divario,  documentò  con  analisi, studi e  statistiche che il divario tra le due aree del paese era diventato così consistente  a  seguito di precise scelte di politiche finanziarie, economiche e doganali.  E contestò duramente  quella tesi  «molto comune […] non solamente radicata nel Nord d’Italia», che il Sud avesse sfruttato il bilancio nazionale.

Era del tutto falso, scriveva Nitti, che i meridionali pagassero meno tasse e meno imposte e conservassero i propri risparmi in maniera improduttiva. Era esattamente il contrario. E fu il solo a documentare come il  Mezzogiorno, fino al 1860, avesse conservato «più grandi risparmi che in quasi tutte le regioni del Nord». Prima delle politiche doganali del 1887, tra il 1880 e il 1888, aggiunse ancora Nitti,  «la ricchezza agraria del Veneto non era superiore a quella della Puglia, e tra Genova e Bari, tra Milano e Napoli era assai minore differenza di sviluppo economico e industriale che ora non sia».

Ma a fine Ottocento, «insieme a una diminuzione nella capacità di consumo», si notavano chiaramente «i sintomi allarmanti dell’arresto del risparmio, dello sviluppo della emigrazione povera, della pigra formazione dell’industria di fronte al bisogno crescente. Tra il 1870 e il 1888 la importanza del Mezzogiorno nella vita sociale ed economica dell’Italia era molto maggiore che oggi non sia».  Quanto sarebbe utile al governo dei sovranisti e dei patrioti ripassare un po’ di storia della questione meridionale.  Dice bene De Luca: al Sud non servono le nozze con i fichi secchi dei tagli, dei rinvii e degli accantonamenti. Servono certezze e coraggio nell’affrontare le sfide. Don Luigi Sturzo sosteneva che la questione del Sud la dovevano risolvere soprattutto i meridionali. E, in larghissima parte, dovrebbe essere così. Ma oggi, in questo rinnovato contesto europeo, da questione economica è diventata soprattutto una questione politica e morale. Ed è in questi termini che andrebbe affrontata. E non con provvedimenti discriminatori e punitivi che, ove mai fossero attuati, sposterebbero indietro di 163 anni l’orologio della nostra Storia.

Michele Rutigliano