L’Intelligenza artificiale e l’Italia – di Giuseppe Sacco

L’Intelligenza artificiale e l’Italia – di Giuseppe Sacco

Che cos’è una Nazione ? Cos’è precisamente questa entità collettiva sulla base della quale poggiano i principali stati europei? Cosa significa questa parola cui la Presidente del Consiglio si fa un quasi un punto d’onore di ricorrere il più frequentemente possibile, anche nei casi in cui, nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, nei tre quarti di secolo caratterizzati dalla democrazia e dalla Repubblica parlamentare, la maggior parte degli scrittori o di politici ha sempre usato la parola “Paese” ? Cos’è insomma questo grande e composito corpo sociale cui, la sera del 31 dicembre, il Presidente della Repubblica ha rivolto un messaggio, che pur rientrando in una tradizione cerimoniale e stilistica un po’ imbalsamata, ha presentato un innegabile elemento di novità?

Questo termine è, peraltro, spesso usato, sempre in senso improprio, anche come sinonimo di “Stato”. Ma quest’ultimo è un concetto giuridico, e non un concetto sociologico come invece é quello di “Nazione”. Inoltre, ed indiscutibilmente, quello di Nazione è un termine che fa fortemente riferimento al passato. Alla permanenza nel tempo dei tratti culturali e linguistici di un gruppo umano. Non a caso, il nazionalismo, come ideologia politica, coincide quasi automaticamente con preferenze “di destra” relativamente al regime politico.

Nella comunicazione, infatti, il termine “Nazione” viene quasi sempre usato per scelta politica. Per sottolineare quel conservatorismo autoritario come l’elemento cruciale che, nel caso dell’Italia, trasformerebbe poco meno di sessanta milioni di donne e di uomini, in un “popolo”, cioè in un soggetto della storia.

La Nazione tra passato e futuro

Non è difficile, peraltro, notare che i tratti culturali fondanti di tutti gli Stati nazionali, pur essendo questi assai diversi, sono tra loro simili nel tentativo di ancor più differenziarsi l’uno dall’altro traendo forza e legittimità dal passato, più o meno antico o più o meno recente. Ci sono al mondo paesi come il Giappone, il cui “nucleo duro” dell’identità e del consenso tende addirittura a rifarsi ad un imperatore di pretesa origine divina. Altri in cui questa continuità del passato, come nel caso della Gran Bretagna, è incarnata da Westminster e dalla Monarchia. In altri ancora, come in Francia, l’elemento di auto-identificazione è costituito dalle “fraternità” di una élite laico-massonica, oppure da una pretesa mission civilisatrice, una missione ancora sentita nelle sue forze armate di esportazione nel mondo intero dei valori dell’age des lumières e della rivoluzione del 1789.

Ci sono però, nel mondo contemporaneo altri casi, come quello della Cina, una realtà antichissima in cui però da oltre un secolo l’identità nazionale fa riferimento soprattutto al futuro, ed ha portato ad una duplice rottura col passato, consumata dapprima nel 1912 con l’abbattimento del potere imperiale. E poi con una lunga e durissima guerra rivoluzionaria culminata nel 1949, quando Pechino divenne la capitale della Repubblica Popolare.  Duplice rottura di cui, pur tra fasi alterne, spina dorsale, negli ultimi settantacinque anni, è stata la nomenklatura di un partito politico che era al tempo stesso un “esercito di liberazione”, una élite decisa a sposare un’ideologia, il socialismo, di origine europea, e che in Europa aveva impregnato di se buona parte del diciannovesimo e del ventesimo secolo. Ma un regime, quello del comunismo cinese, che negli ultimi 45 anni, a partire dal 1979, non ha esitato, al fine di compiere un altro balzo furioso verso la contemporaneità, e per il perseguimento della crescita economica. a sposare un gran numero di tratti culturali dal mondo occidentale e capitalista,

E si potrebbero citare anche altre entità ed identità nazionali la cui origine coincide con un vero e proprio “assalto al futuro”. Tentativi di creare identità nazionali moderne in società ancora pesantemente zavorrate dal loro passato quali quelle nate dal disfacimento dell’Impero austriaco, come la Grande Polonia, o dell’Impero ottomano, o il tentativo, molto meno riuscito, della Persia sotto le dinastie Qajar e Pahlavi.

E forse val la pena di notare che nella maggior parte di questi casi, in cui il sentimento nazionale si sposava con una forte desidero di progresso, il modello ispiratore non era altro che il Risorgimento italiano. In particolare, nel caso della rivoluzione kemalista, ancora oggi in pieno vigore, o del modello yougoslavista, che tanti rimpianti oggi suscita, dopo essere stato stritolato dalla frantumazione dello spazio sovietico, dall’ondata post-Guerra Fredda dei regionalismi reazionari, e dall’ambizioso revival geopolitico della Germania riunificata.

Gli orizzonti dell’Italia

Se in questo variegato – e molto approssimativo –  quadro si cercasse di identificare l’attuale patrimonio ideale e politico della Nazione Italia. Se ci si chiedesse quale sia la spina dorsale della Repubblica nata dopo la seconda Guerra Mondiale, dopo l’avvento della Repubblica e di settantacinque anni di democrazia compiuta, verso quale orizzonte sia rivolto il patrimonio ideale che gli Italiani di oggi sembrano voler trasmettere alle generazioni future, due sentimenti appaiono prevalenti.

Non solo nei i ceti sociali più umili, ma largamente anche in quelli piccolo-borghesi, è evidente un forte (e piuttosto sconcertante) desiderio di protezione e di sostegno materiale da parte delle istituzioni. Ma esiste – assai diffusa in quelle classi medie che potremmo definire come una anziana plebe teledipendente , più un ampio strato di giovani che non lavorano né studiano, –  anche una forte aspirazione alla libertà, anche se intesa più in termini personali e concreti che in termini collettivi e politici, e troppo spesso solo in termini di liberta commerciale e di costumi. Due sentimenti abbastanza mediocri, cui però i continui spostamenti della massa elettorale da un partito all’altro consentono – specie se di guarda alla continua e massiccia fuga dei giovani più istruiti verso l’estero – di aggiungere non solo l’inesausta ricerca di una leadership di migliore qualità, ma anche una innegabile insoddisfazione per il presente, il desiderio di un futuro diverso.

A questa Nazione, di cui il recente Rapporto del Censis ha tracciato un quadro drammatico e sostanzialmente privo di speranza, anno dopo anno, il 31 dicembre, il Presidente della Repubblica ha dedicato un discorso da un lato fitto si lamentazioni, e dall’altro di incoraggiamenti e di principi tanto buoni quanto difficilmente applicabili dai singoli, e che richiederebbero invece uno sforzo collettivo di cui non sempre appaiono esistere i presupposti. Così era stato negli anni scorsi e sembrava inevitabile che fosse anche quest’anno, con l’inevitabile aggiunta di un più forte senso di amaro – e un po’ cinico – realismo quando si fosse inevitabilmente arrivati a far cenno delle due principali guerre in corso.

A sorpresa è invece giunta una nota dissonante, quando Mattarella ha fatto una insolita divagazione dai temi abituali. Affermare i diritti – egli ha detto – “significa, anche, saper leggere la direzione e la rapidità dei mutamenti che stiamo vivendo. Mutamenti che possono recare effetti positivi sulle nostre vite.”

Uno squarcio sul futuro

E non si trattava di uno squarcio di ottimismo generico e di maniera. Al contrario, il Presidente è entrato nello specifico. “La tecnologia ha sempre cambiato gli assetti economici e sociali. Adesso, con l’intelligenza artificiale che si autoalimenta, si sta generando un progresso inarrestabile. Destinato a modificare profondamente le nostre abitudini professionali, sociali, relazionali”.

Non è difficile rintracciare in questi temi, toccati quest’anno da Mattarella in maniera del tutto esplicita, un’assonanza con l’approccio volto al futuro che era stato evidente, lo scorso 14 dicembre, nelle parole di Papa Francesco. Il quale, rivolgendosi al mondo intero, ha proclamato il 1 Gennaio “Giorno della pace e dell’intelligenza artificiale”. Quando la massima autorità spirituale ha chiesto di superare la diversità di impostazione con cui i principali soggetti politici del pianeta – e in primo luogo l’Europa, gli Stati Uniti e la Cina – stanno affrontando le grandi questioni sollevate da un’innovazione tecnica che potrebbe rivelarsi straordinaria –più creatrice oppure più devastatrice – di qualsiasi precedente creazione dell’uomo.

Ovviamente, il Presidente della Repubblica, nel suo discorso di fine d’anno, si rivolgeva non al mondo intero, bensì più specificamente alle Italiane e agli Italiani. Eppure, ha creduto opportuno affrontare lo stesso argomento, un argomento di primario interesse mondiale: la questione dell’ormai irresistibile avvento dell’era dell’Intelligenza Artificiale.

Lo ha fatto invitando l’Italia a prendere audacemente posizione nel dibattito che già si è aperto a libello globale. E a prendere posizione guardando al futuro, e non più solo come un Paese – come è stato scritto – “ripiegato su sé stesso e imprigionato in una discussione molto domestica e presentista”Ma come un Paese che fa le sue scelte guardando al mondo intero e alle sue prospettive future. Ed alla propria capacità di portare un contributo, ancorché piccolo, al progresso dell’umanità.

Perché poi forse, in fondo, una Nazione è proprio questo: una entità collettiva che vive nel ricordo delle generazioni precedenti, dei loro rapporti con gli altri popoli, del loro ruolo nella storia del mondo. E che, ispirandosi a tutto ciò partecipa al progresso dell’umanità, per prepararsi al futuro e ad accogliere in un quadro che offra migliori condizioni e più grandi speranze le generazioni che verranno.

Giuseppe Sacco