Quel “pasticcio” tra Patto di stabilità e Mes – di Daniele Ciravegna
Fra il 20 e il 22 del mese corrente sono state definite due importanti questioni che aleggiavano da tempo all’interno dell’Unione Europea: la proposta da parte di Ecofin (Consiglio dell’UE riguardanti politica economica, fiscalità e regolamentazione dei servizi finanziari) del nuovo Patto di Stabilità, patto che era stato sospeso nel periodo più critico della pandemia di COVID-19, e la determinazione, da parte del Parlamento italiano, e quindi anche del Governo, riguardo alla modificazione dell’ordinamento del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), istituito (senza alcun rilievo nel dibattito politico italiano) nell’ottobre 2012, quale strumento per neutralizzare gli effetti di crisi finanziarie, sorte all’interno o importate, coinvolgenti i paesi dell’Eurozona; modificazione approvata dal Consiglio Europeo nel gennaio 2021 e già ratificata da 19 dei 20 membri, Italia esclusa.
Prima di proseguire è bene fare chiarezza, riassumendo brevemente che cos’è questo “meccanismo” alla luce del suo Atto costitutivo. Di diritto, esso è un’istituzione intergovernativa permanente costituita dagli stati membri dell’Area dell’Euro, esterna al quadro giuridico dell’UE, con piena autonomia decisionale e gestionale, con proprio capitale apportato dagli stati membri (che funge da garanzia sulle operazioni finanziarie di raccolta di fondi) e potere di raccogliere fondi con l’emissione di strumenti finanziari o con la conclusione di intese o accordi finanziari di vario tipo al fine di reperire risorse finanziarie con le quali concedere credito agli stati membri o alle banche in stato di crisi finanziaria. Il MES è guidato dal Consiglio dei Governatori, composto dai 20 Ministri dell’Economia/Finanze dei paesi dell’Eurozona, che delibera all’unanimità.
La funzione fondamentale del MES è concedere, sotto condizione, assistenza finanziaria agli stati membri che, pur avendo un debito pubblico sostenibile, abbiano grosse difficoltà a finanziarsi sui mercati finanziari nonché diventare prestatore di ultima istanza a favore di banche ordinarie in stato di crisi finanziaria. Delle due, la prima è quella politicamente più rilevante e, a ben vedere, costituisce una parziale modificazione dell’approccio iniziale dell’Unione Economica e Monetaria dell’EU (UEM) in materia di finanza pubblica – d’impostazione ordoliberistica – fondato sulla prevenzione delle crisi del debito sovrano, affidata al rispetto di regole di bilancio volte a mantenere disavanzi e debiti pubblici entro limiti considerati prudenti, piuttosto che prevedere specifici strumenti di salvataggio.
Di fatto, il MES agisce quale prestatore di ultima istanza nei confronti degli stati dell’Eurozona, venendo a svolgere ciò che normalmente svolgono le banche centrali degli stati non dell’Eurozona. Quest’ultima fu istituita in un contesto tipicamente monetaristico, che vede gli stati come grandi pericoli per la stabilità monetaria: gli stati non devono guastare, con le loro richieste di finanziamento con nuova base monetaria, l’asettico comportamento delle banche centrali (l’offerta di moneta non deve poter essere utilizzata quale strumento di politica economica dello Stato). Fu quindi introdotto, nello statuto della BCE, il divieto assoluto di finanziare direttamente la spesa pubblica dei paesi aderenti. Ma questo divieto è presente solo nell’Eurozona; non c’è negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Svizzera, in Giappone, negli altri paesi dell’Unione Europea e del mondo. L’istituzione del MES è una chiara dimostrazione dell’insensatezza della predetta regola monetaristica.
Ad ogni modo, tutti gli interventi del MES devono rispettare il principio di condizionalità, cioè sono subordinati all’attuazione di politiche di risanamento concordate con la Commissione Europea, che può coinvolgere anche la BCE e il Fondo Monetario Internazionale, il che può di fatto portare a una specie di commissariamento dello Stato che si rivolge al MES.
Rinviando alla lettura della Scheda n.1 del Dipartimento Europa ed Eurozona – Interventi europei del Partito INSIEME per Lavoro, Famiglia, Solidarietà e Pace – per conoscere che cos’è il MES, la sua struttura istituzionale e operativa, vediamo qui il contenuto del progetto di modificazione del Trattato del MES approvato dal Consiglio Europeo con particolare riferimento a quattro aree principali:
a) i rapporti e la cooperazione fra il MES e la Commissione Europea e la variazione nella governance del MES, prevedendo che, qualora la Commissione Europea e la BCE richiedano l’assunzione di decisioni urgenti in caso di minaccia per la stabilità finanziaria ed economica dell’Eurozona, la maggioranza richiesta per le deliberazioni da prendere non sia l’unanimità, ma la maggioranza dell’85 per cento; per cui Francia, Germania e Italia – ognuna delle quali possiede un diritto di voto superiore al 15 per cento del totale – possono singolarmente porre il loro veto sulle decisioni prese in condizioni d’urgenza;
b) le condizioni per la concessione dell’assistenza finanziaria precauzionale da parte del MES. Vengono definiti in modo più preciso i termini della preventiva valutazione di sostenibilità del debito e si affianca il criterio della verifica ex ante della capacità di ripagare il prestito. Nel nuovo Allegato III, vengono – ahimè – recuperati ancora una volta i vecchi due parametri del Patto di Stabilità europeo del 1997 (già inclusi fra i requisiti preliminari per l’ammissione all’Eurozona, previsti dal Trattato di Maastricht del 1992) concernenti i rapporti deficit pubblico/PIL e debito pubblico/PIL nonché il vincolo, contenuto nel Fiscal Compact del 2012 (che peraltro il Parlamento Europeo, a fine 2018, ha rifiutato d’introdurre nell’ordìnamento giuridico dell’UE) del rientro da un’eventuale situazione, per lo Stato considerato, di eccesso rispetto al 60 per cento del rapporto fra debito pubblico e PIL, nella misura di un ventesimo del debito pubblico all’anno. Con il Fiscal Compact decaduto e il Patto di Stabilità sospeso e da rinegoziare, pare inopportuna l’introduzione dei predetti parametri dello Statuto del MES. Passano i tempi e le criticità economiche, ma i parametri del Trattato di Maastricht e del Patto di Stabilità sono immutabili!
Eppure è stato ampiamente dimostrato che i predetti parametri non hanno alcuna validità teorica. Si può infatti facilmente dimostrare l’infondatezza scientifica della coppia “rapporto deficit pubblico/prodotto interno lordo (PIL) che non superi il valore del 3 per cento” e il “rapporto debito pubblico/PIL che non superi il 60 per cento”. Infatti, la divisione del primo rapporto per il secondo dà come risultato il tasso di variazione del debito pubblico – qualora il deficit pubblico sia finanziato integralmente con nuovo indebitamento pubblico, che è gioco forza, dato il divieto assoluto che i deficit pubblici siano finanziati con creazione di nuova base monetaria. Se il debito pubblico risulta avere un tasso di crescita uguale a quello previsto per il PIL nominale, il rapporto fra debito pubblico e PIL nominale è ovviamente stabilizzato, e quindi il debito pubblico risulterebbe sostenibile dal PIL: principio di sostenibilità piuttosto debole!
Al momento della stipulazione del Trattato di Maastricht, era considerato realistico, per la media dei paesi europei, un tasso di crescita annuo del PIL nominale pari al 5 per cento, il che richiedeva – per la supposta sostenibilità del debito pubblico del paese rappresentativo della media dei paesi dell’UE – che anche il debito pubblico crescesse non più del 5 per cento e quindi un rapporto deficit/debito pubblici pari al 5 per cento. In effetti, 3/60 = 0,05, ma 5 per cento darebbero anche i rapporti 1/20, 6/120, 9/180 ecc.; la soluzione ammette infiniti rapporti compatibili con il 5 per cento di crescita del PIL nominale! Perché è stata allora presa la coppia 3 per cento e 60 per cento? Semplicemente perché:
1) i due parametri impongono una presenza contenuta del settore pubblico nel sistema economico, principio caro al modello liberistico che ha dominato il processo di formazione dell’UEM europea e, più in generale, il processo di formazione e di gestione dell’Unione Europea;
2) senza però esagerare, nel senso di strangolare i settori pubblici di tutti i paesi: fu presa la coppia 3 e 60 per cento che, all’inizio degli Anni Novanta del secolo scorso, andava bene ai paesi leader della costituenda UEM europea: Germania e Francia;
3) la coppia sarebbe andata stretta per i paesi “discoli”, quali Italia e Spagna, così da impedire a questi l’accesso all’Area dell’Euro, e questo non dispiaceva a una parte dei paesi contraenti.
Se questo è rigore scientifico?! In effetti, in primis, la definizione della sostenibilità del debito pubblico richiede analisi ben più approfondite dello stato dei due parametri suddetti. Richiede analisi assai più ampie che tengano conto della situazione complessiva del paese, presente e prevedibile per il futuro di medio periodo; situazione da valutare non solo in termini prettamente contabili ed economici, ma anche, e con la stessa, se non maggiore, intensità d’interesse, delle situazioni sociale, demografica e ambientale del paese. Di fronte a queste considerazioni, è facile intendere perché Romano Prodi definì “stupidi” i parametri di Maastricht.
c) la costituzione del MES quale “istituto di sostegno” (backstop) al Fondo di risoluzione unico nella gestione delle crisi bancarie, nel caso in cui le risorse del Fondo stesso non siano sufficienti a finanziare gli interventi che deve porre in essere, e questo non si può dire che non sia buona cosa. In effetti, con la riforma che consente al MES di fungere da backstop del fondo di risoluzione unico, il MES contribuirebbe a contenere i rischi di contagio connessi con eventuali crisi bancarie di rilevanza sistemica, creando condizioni più distese nei mercati finanziari, il che dovrebbe creare una situazione più favorevole per il rifinanziamento del debito pubblico dei paesi che ne abbiano già un elevato livello;
d) la modificazione della disciplina delle clausole di azione collettiva, passando dalle dual-limb (maggioranza di adesioni dei privati sia sulla singola emissione di titoli di Stato sia sul totale delle emissioni) alle single-limb (maggioranza solo sul totale delle emissioni) nel caso in cui uno Stato decida di procedere alla ristrutturazione del debito; clausole che non aumentano la probabilità d’insolvenza, ma riducono l’incertezza relativa al suo esito. Questo punto è stato uno dei più discussi: che la modificazione del Trattato del MES apra le porte ad azioni di ristrutturazione del debito pubblico degli stati in condizione di crisi finanziaria (con pressoché inevitabile perdita di parte del patrimonio dei creditori). In verità, nulla è scritto a questo proposito nella proposta di modificazione del Trattato del MES e il testo del 2012 ne parlava come “caso eccezionale”. «Non c’è scambio tra assistenza finanziaria e ristrutturazione del debito pubblico; comunque – ha scritto la Banca d’Italia – il coinvolgimento del settore privato nella ristrutturazione del debito pubblico rimarrebbe strettamente circoscritto a casi eccezionali».
Diffuso è il timore che, a séguito della riforma in parola, vengano affidato al MES compiti di sorveglianza macroeconomica. Non è fondato, anche se i prestiti sono condizionati a un programma di aggiustamento macroeconomico dello Stato prestatario, che si affianca alla preliminare verifica della capacità di ripagare il debito. La riforma conferma la differenza, già esistente nel Trattato in vigore, tra “condizionalità semplice” (Precautionary Conditioned Credit Line – PCCL) e quella condizionalità rafforzata” (Enhanced Conditions Credit Line – ECCL). La prima è riservata ai paesi che rispettano le prescrizioni del Patto di Stabilità, che non presentano squilibri macroeconomici eccessivi e che non hanno problemi di stabilità finanziaria, mentre gli ECCL sono destinati ai paesi che non rispettano pienamente i predetti criteri, per cui vengono loro richieste misure correttive rafforzate.
Infine, la riforma non accresce i poteri del MES, ma prevede un suo ruolo attivo nella gestione delle crisi e nel processo che conduce all’erogazione dell’assistenza finanziaria così come nel successivo monitoraggio. Il MES affianca, non sostituisce la Commissione Europea, alla quale rimane la responsabilità esclusiva sulla valutazione complessiva della situazione economica di ogni paese e la loro posizione rispetto alle regole del Patto di Stabilità e della procedura per gli squilibri macroeconomici. Le modalità di cooperazione tra le due istituzioni saranno definite in un accordo che verrà sottoscritto quando le modifiche al Trattato del MES entreranno in vigore.
Si ricordi inoltre che, fin dalla sua istituzione nel 2012, la presenza di assistenza finanziaria del MES (nella forma di un prestito accompagnato da un programma di aggiustamento macroeconomico) è condizione necessaria per l’intervento della BCE nel mercato secondario dei titoli di Stato di un paese in difficoltà finanziaria.
In conclusione, il MES continua a essere uno strumento che ha potenzialità valide, tanto più valide quanto più porta in sé regole di comportamento che permettano elasticità di decisione e di applicazione. Non si può dire che i parametri del Trattato di Maastricht (di 30 anni fa) e del Patto di Stabilità e (di 26 anni fa) diano garanzia di soddisfare tali requisiti, anche perché erano insensati fin dall’origine, e quindi non dovrebbero essere in alcun modo presi quali parametri di riferimento delle politiche finanziarie nel 2023 né delle successive.
Con l’eccezione del caso in cui vengano introdotti i parametri di Maastricht, le modifiche che si vorrebbero apportare al Trattato del MES, e sopra illustrate, non paiono peggiorare la capacità del MES di esercitare la funzione di sostegno agli stati e alle banche dell’UEM, né l’elasticità di decisione e di applicazione del meccanismo; anzi, sotto diversi aspetti, paiono intervenire in senso migliorativo.
La considerazione di sopra fa sorgere la domanda sul perché di tanto fervore contrario alla modificazione dello statuto del MES da parte del Governo italiano. Forse perché l’opposizione al nuovo MES era un’arma da usare in sede di ricostruzione del Patto di Stabilità?
Quest’ultimo è stato ridefinito il 20 dicembre a séguito di un’approvazione all’unanimità dei 27 ministri dell’economia e delle finanze dell’UE e, a detta del Ministro Giorgetti, si tratta di un compromesso equilibrato: «Ci sono alcune cose positive e altre meno. L’Italia ha ottenuto però molto e soprattutto quello che sottoscriviamo è un accordo sostenibile per il nostro paese, volto, da una parte, a una realistica e graduale riduzione del debito mentre, dall’altra, guarda agli investimenti, specialmente del PNRR, on spirito costruttivo. Regole più realistiche di quelle che esistevano nel precedente Patto di Stabilità».
Vediamo, in estrema sintesi, i punti qualificanti il nuovo Patto di stabilità che è stato confezionato da Ecofin e che dovrà ancora essere esaminato nella fase di negoziazione interistituzionale, comunemente nota come trilogo, al quale partecipano la Commissione Europea, il Parlamento Europeo e il Consiglio Europeo.
Premesso che ciò che segue può essere inesatto poiché desunto da agenzie di stampa e non da fonte istituzionale, rilevanti sono le salvaguardie per la transizione verde e per quella digitale nonché per gli investimenti del PNRR, lo scomputo dal deficit strutturale della spesa per interessi (fino al 2027), delle spese per la Difesa (che lascia perplessi, ma è ormai noto che l’UE ha recentemente scoperto la Difesa). Di fatto, vengono ripristinati i principi del vecchio Patto, ovvero il contenimento, per ogni paese, del deficit pubblico al 3 per cento del PIL e del debito pubblico al 60 per cento del PIL. Cambiano i percorsi di rientro del primo parametro, che diventano più lunghi – passando da 4 a 7 anni in cambio dell’impegno dei paesi a fare riforme e investimenti. Quanto al secondo parametro, i paesi con un rapporto debito pubblico/PIL superiore al 90 per cento (fra cui l’Italia) dovranno ridurlo di almeno l’1 per cento all’anno; inoltre, bisognerà far calare il deficit pubblico all’1,5 per cento, per creare un cuscinetto da mettere in campo in casi di crisi esogene. L’aggiustamento annuo richiesto per il primo parametro è dello 0,5 per cento, che può essere ridotto fino allo 0,25 per cento nel caso di piani di rientro di 7 anni. I paesi con un rapporto debito pubblico /PIL compreso fra il 60 e 90 per cento dovranno necessariamente tagliarlo di uno 0,5 per cento l’anno.
Nota di conclusione (forse ingenua). Poiché molti esponenti del Governo italiano (a partire da Meloni e Giorgetti) hanno sottolineato la bontà per l’Italia del compromesso avuto sul Patto di Stabilità, perché il Parlamento italiano ha ancora preso a schiaffi, a mio avviso in modo ingiustificato, la proposta di modificazione del MES, per la quale gli altri paesi hanno prodotto, unanimemente e da tempo, la ratifica parlamentare?
Daniele Ciravegna