Fu vera gloria? – di Giancarlo Infante

Fu vera gloria? – di Giancarlo Infante

La scomparsa di Silvio Berlusconi ha occupato l’informazione internazionale. La cosa ci ha fatto pensare agli inizi della “Storia d’Italia” di Benedetto Croce che prende le mossa dall’uscita di scena del “geniale despota che tutta l’occupava”. Evidente il riferimento a quel Napoleone che avrebbe fatto chiedere al Manzoni se fosse stata vera gloria. E la responsabilità della risposta ricadde sui posteri.

Come oggi nel caso di Berlusconi. E’ un po’ la stessa nostra condizione, infatti, visto che non siamo posteri abbastanza per valutare in maniera oggettiva e fredda il significato di Silvio Berlusconi a lungo “despota” della scena politica italiana nell’arco degli ultimi trent’anni. Il consistente oscuramento della sua posizione dominante degli ultimi anni non deve fare ingannare, tanto è riuscito a restare determinante anche nelle ultime vicende che ci riguardano. Basti pensare al ruolo da lui svolto per l’ascesa a Palazzo Chigi di Mario Draghi. Determinante quanto il successivo e subitaneo abbandono di un Presidente del consiglio che, fino al giorno prima, continuava a difendere perché, Berlusconi diceva, quasi esclusivo frutto suo.

Ma questo era Silvio Berlusconi. Cangiante quando non poteva essere l’unico a dare le carte. Determinato e poco incline a riconoscenza e sentimentalismi quando sentiva il vento nella propria vela.

Entrò in politica contro il teatrino e, poi, si è trovato da par suo a diventare uno dei più grandi impresari della messa in scena di una rappresentazione che deve a lui la decisa semplificazione dopo lunghi decenni di mediazioni, sopimenti, inclusioni. Si presentò quasi oltre trent’anni fa come se non avesse mai avuto a che fare con quel teatrino. Anche se il suo sviluppo da valente imprenditore molto doveva, invece, alla politica. E anche alle sue infinite relazioni per cui ha dovuto pagare importanti costi d’immagine come fu nel caso del ritrovamento del suo nome tra quelli degli affiliati alla P2 di Licio Gelli. E poi c’è stato dell’altro.

Le sue capacità imprenditoriali e una non comune spregiudicatezza spiegano il suo iniziale notevole successo di costruttore. Sin da giovane ebbe a che fare con la politica e i grandi affari in cui egli seppe inserirsi davvero bene: perché “Milano 2” non è nata nelle aride distese dell’Arizona, ma nel pieno dei ricchi interessi dell’hinterland milanese. A maggior ragione da imprenditore della comunicazione, egli si avvalse da subito della politica. E non si trattava solo degli strettissimi legami con Bettino Craxi. La Dc provò ad offrirgli un posto al Senato, ma quando egli capì la situazione si prese tutta la posta in gioco.

La difesa del suo impero economico, multimediale e finanziario costituì sempre il più importante spartito delle sue messe in scena della politica. L’esempio più evidente fu quel segnale lanciato da Confalonieri che, pubblicamente sostenne Giorgia Meloni, quando ancora ella si trovava all’opposizione, e così indicò la via, tra gli altri, per la caduta definitiva di Mario Draghi.

Forza Italia non è mai stato un partito vero e proprio. Bensì uno strumento personale di Berlusconi. In questo aprendo addirittura nel mondo la pista al satrapismo e alla personalizzazione della politica, come mai accaduto prima. E  Donald Trump, ma anche altri ad altre latitudini gli devono il riconoscimento del copyright. Forza Italia non ha mai fatto un congresso. Dopo essersi progressivamente sbarazzato di tutti coloro che con lui fondarono Forza Italia, e c’era gente di sostanza tra di loro, inventò l’unità di misura del “quid”. Pronto sempre a ritirare la “lettera di brevetto” concessa dal Monarca. In più d’uno ne hanno fatte le spese. Spesso senza che se ne riuscisse a conoscere le ragioni.

Uomo unitario e divisivo al tempo stesso. Autoritario nella sostanza, ma al tempo stesso rispettoso delle norme democratiche basilari, credeva nel liberalismo, ma godeva delle leggi che egli stesso si faceva per difendere l’oligopolio televisivo, e non solo. Le sue televisioni influirono molto sul clima creatosi con Mani Pulite e l’esaltazione dei magistrati inquirenti. Poi, da esse sono venute le più spietate critiche quando quegli stessi magistrati hanno rivolto l’attenzione verso il suo mondo.

Molti dei suoi successi furono frutto della sua capacità d’essere concreto e ridurre tutto a questione d’affari, anche nei rapporti umani. Era questa del resto la sua autentica natura. E così si spiega come riuscì a formare i suoi governi con il secessionista Bossi, da un parte, e il nazionalista Fini, dall’altra.

Bisogna essere franchi e chiederci se davvero Berlusconi, da solo, abbia impedito quella profonda riforma della Giustizia necessaria all’Italia Paese. Perché non l’hanno fatto neppure i governi “antiberlusconiani” che gli sono succediti in più occasioni lungo i corsi e i ricorsi di circa vent’anni che lo hanno visto in prima fila alla guida del Paese. E Silvio Berlusconi non venne forse anche utilizzato come alibi, pure dalla sinistra, per non risolvere  i tanti, troppi, conflitti d’interesse che sono propri della nostra Italia destinata, per questo, a restare sempre fuori del novero delle grandi società moderne occidentali?

Poi c’è stata tutta la pagina del “colore” che lo riguardava. E che lo ha fatto diventare famoso nel mondo in maniera smisurata. Di sicuro molto di più di quel che avrebbe potuto meritare solo perché era stato più volte Presidente del consiglio. Il “bunga bunga” resterà scolpito a futura memoria a lungo un po’ in tutto il mondo. Ma questo perché egli creava un “teatrino” diverso ed alternativo a quello ufficiale e fino a quando non gli si alzò contro il muro dello spread nel 2011. In fondo, questa sua immagine di uno zio Paperone, non proprio da mostrare ai pudici occhi dei bambini, di uomo di successo nell’impresa, in politica e con le donne, costituiva di per sé l’immagine di un marchio capace di raccogliere tanti consensi.

Il problema per lui è sempre stato, però, quello di gestire quel consenso per utilizzarlo come base di partenza per mantenere davvero le cose che agitava al fine di richiamare i voti nelle urne. Che fine hanno fatto il suo “contratto con gli italiani”?, il milione di posti di lavoro? e le tre famose “I”, internet, inglese, imprenditoria?

Infine, l’ultima domanda per i posteri. E’ notorio di quanto trattasse con una certa sufficienza Salvini, da lui definito “ruspante”, ma anche Giorgia Meloni. In fondo, li aveva visti venire su da ragazzi cui non faceva proprio mancare nulla. Eppure, progressivamente, ha preferito loro spazio invece che creare un’alternativa davvero centrale ed europeista. Egli ben sapeva come i due avessero poco avevano a che fare con il suo dirsi liberale, con il suo impegno ad essere il principale rappresentante del Partito popolare europeo, e, tutto sommato, a rispettare le norme basilari che stanno alla base della nostra Costituzione. E così il suo ultimo lascito non è stato quello di un governo improntato dal moderatismo liberale.

Giancarlo Infante