La tutela ambientale in un’economia sostenibile – di Giuseppe Ladetto

La tutela ambientale in un’economia sostenibile – di Giuseppe Ladetto

Mi sento molto distante dalle posizioni espresse dai principali partiti che si contendono la scena politica riguardo a tematiche per me rilevanti, pertanto guardo con un certo distacco ai fatti politici nazionali. Non ho tuttavia un atteggiamento di pregiudiziale opposizione al governo Meloni che, come ogni governo scaturito da una maggiorana parlamentare, rappresenta comunque il Paese. Certo ho motivo per dissentire da parecchie sue scelte, a partire dalla politica estera dove è schierato con le componenti più oltranziste della NATO, ma, per ora, mi limito a prendere in considerazione le politiche relative all’ambiente che ritengo di interesse prioritario.

Nel discorso tenuto alla Camera per il voto di fiducia, Meloni ha affermato che “la tutela dell’ambiente e la sostenibilità economica e sociale devono procedere parallelamente”. Qui dobbiamo chiederci che cosa significhi questa affermazione, apparentemente di buon senso, ma che nasconde varie insidie. Il cambio della denominazione del ministero, passato da “Ministero per la transizione ecologica” a “Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica”, può darci una qualche indicazione.

Gilberto Pichetto Fratin, nuovo titolare del ministero in questione, ha detto che “la nuova denominazione del ministero significa una valenza di lungo periodo rispetto alla precedente denominazione,” cioè che la transizione energetica verso le fonti rinnovabili richiederà più tempo, un tempo compatibile con le esigenze del settore economico-produttivo. Inoltre, nella denominazione del ministero, l’accento pare posto sulla sicurezza energetica. Lo dimostrano gli obiettivi che il ministro ha evidenziato: diversificazione degli approvvigionamenti energetici e realizzazione di un piano per l’autosufficienza energetica; pieno utilizzo delle risorse nazionali, anche attraverso la riattivazione e nuova realizzazione di pozzi di gas naturale in un’ottica di utilizzo sostenibile delle fonti; promozione dell’efficientamento energetico; sostegno alle politiche di price-cap a livello europeo; ricorso alla produzione energetica attraverso la creazione di impianti di ultima generazione senza veti e preconcetti, valutando anche il ricorso al nucleare pulito e sicuro. Ovviamente c’è anche l’aumento della produzione di energia da fonti rinnovabili, ma questo obiettivo viene messo in coda agli altri, ed è lecito chiedersi se questa energia venga considerata pienamente sostitutiva di quella di origine fossile, o comunque in quali tempi si intenda realizzare tale transizione.

Per comprendere dove si stia andando, ritorno all’affermazione che la tutela dell’ambiente e la sostenibilità economica e sociale devono procedere parallelamente. È un proposito che viene condiviso da molti, compresa gran parte dell’opposizione (Azione, Italia viva e una quota rilevante del PD), ma che pone degli interrogativi.

Quando si lascia intravvedere che la transizione potrebbe richiede un tempo più lungo del previsto, c’è comunque la volontà di rispettare gli impegni presi in sede comunitaria circa il dimezzamento delle emissioni di CO2 per il 2030 e la loro eliminazione per il 2050? Se sì, dovrebbe essere chiarito come si intende operare, visto che siamo già in ritardo, in specie sul 2030. Se invece non si vogliono rispettare tali traguardi, significa che non si comprendono le conseguenze che ne deriverebbero, tenuto conto che tutti i climatologi li ritengono la soglia minima per evitare il peggio. E non si tratta di catastrofismo.

Antonio Guterres, in un recentissimo intervento all’ONU sui cambiamenti climatici, ha dichiarato che, in materia, il 2022 è stato un anno sprecato, e che abbiamo un’ultima chance prima della catastrofe. Serve riformare l’economia globale.

La maggioranza di centrodestra (e non solo essa) pare sorda a queste parole, e cieca di fronte a quanto ognuno può già rilevare con i propri occhi guardandosi attorno.

Anzi sento ripetere che l’energia ottenibile dalle pale eoliche e dal sole non è adatta a garantire in modo continuativo le necessità del sistema produttivo sicché non si potrà fare a meno del gas, come se la tecnologia (sempre invocata come risolutiva) non fosse in grado di superare tale problema realizzando efficaci batterie. Ma a parte questo aspetto, non si vuol capire che sono il sistema produttivo e gli stessi modi di vita della gente che dovranno adattarsi alla nuova situazione, non potendo restare come sono oggi.

Impegnarsi per la transizione significa varie cose delle quali il governo (con una significativa parte dell’opposizione) non pare avere un’idea chiara:

1) abbandonare in tempi stretti le fonti energetiche fossili per non immettere ulteriore CO2 in atmosfera, ciò che comporta forti investimenti per gli impianti produttivi di energia rinnovabile, ma soprattutto fare piazza pulita delle non più tollerabili procedure burocratiche richieste per la loro realizzazione, e dei connessi frequenti assurdi ostacoli posti dai TAR e da altri organi della amministrazione pubblica.

2) fare fronte agli effetti negativi del cambiamento climatico, che comunque, anche nel caso di un contrasto efficace, procederà ancora per anni. Ciò implica la messa in campo quanto prima di interventi nei più diversi ambiti. Alcuni esempi.

Per affrontare i sempre più lunghi periodi di siccità che riguarderanno larga parte del Paese e la progressiva riduzione dei ghiacciai alpini, occorre creare laghi artificiali, serbatoi e soprattutto bacini idrici montani; restaurare la rete di condotte di distribuzione dell’acqua sul territorio, oggi molto deficitaria; introdurre sistemi di riciclo dell’acqua anche recuperando e potabilizzando le acque reflue; rinnovare i sistemi di irrigazione delle colture per limitare l’impiego di acqua.

Per contenere i danni degli uragani, diventati sempre più frequenti, e delle rilevanti precipitazioni concentrate in breve tempo (le bombe d’acqua), necessita un riassetto del territorio montano e collinare accanto alla sistemazione dei corsi d’acqua, e allo smantellamento delle costruzioni in aree di esondo. Interventi altrettanto rilevanti andranno attuati in altri ambiti, ad esempio per fare fronte all’innalzamento del livello del mare con la conseguente alterazione salina delle falde acquifere, un fenomeno che va ben al di là della stretta zona costiera.

Queste misure richiedono la definizione di un progetto complessivo e organico, articolato in specifici capitoli che contemplino le varie tappe intermedie e i finanziamenti da destinare ad esso nei prossimi anni. Al momento, in questo ambito, il PNRR alla voce “Rivoluzione verde e transizione ecologica” prevede interventi vari (riguardano la promozione di un’agricoltura più sostenibile, il dissesto idrogeologico, la gestione delle risorse idriche, ecc.). Tuttavia, presto si vedrà se l’entità dei finanziamenti ad essi destinati e l’organicità delle misure del piano siano all’altezza di quanto impongono la dimensione dei problemi posti dal cambiamento climatico e l’urgenza delle risposte.

In ogni caso, le misure difensive (come ha lasciato intendere Guterres) non bastano per evitare il peggio, ma “serve riformare l’economia globale”.

È quindi necessario ridefinire il sistema economico produttivo che non potrà rimanere lo stesso in presenza del mutato quadro ambientale. È questo un aspetto di cui non sembrano rendersi conto quanti subordinano le misure in difesa dell’ambiente alla loro sostenibilità economica e sociale. Non vedono infatti che le ricadute del cambiamento climatico incidono e incideranno sempre più negativamente sul sistema economico e sociale, assai più delle paventate misure per il passaggio alle fonti energetiche rinnovabili.

Alcuni esempi possono farci comprendere di che cosa parlo.

Un settore in cui gli effetti del cambiamento climatico si fanno già ora evidenti è l’agricoltura. Siccità, uragani, eccessivo calore e sbalzi termici hanno comportato marcate perdite produttive (in media dell’ordine del 30% con punte oltre il 50%) destinate ad accrescersi con ricadute rilevanti sui prezzi dei generi alimentarti. Ma è l’intero panorama produttivo che in certi settori e in certi territori può risultare stravolto. Secondo la Coldiretti, la scarsa piovosità, un fenomeno destinato a stabilizzarsi o ad aggravarsi nella pianura padana, in particolare nella parte occidentale, potrà comportare una perdita da un quarto a oltre un terzo della intera produzione agricola nazionale.

Già oggi, ci sono numerose colture (ad esempio mais, riso, alberi da frutto, ecc.) caratterizzate da elevati consumi idrici o da esigenze climatiche destinate a non diventare più compatibili con il clima che si va instaurando (siccità, alte temperature estive, o un anomalo succedersi di caldo e freddo in primavera).

Alcuni anni fa, un viticoltore ed enologo molto qualificato, in una relazione presso l’Accademia dell’Agricoltura di Torino, ha segnalato le difficoltà incontrate per evitare che non fossero stravolte le caratteristiche tipiche del Barolo e del Barbaresco (grado alcolico, acidità, livello di tannino e di sostanze che definiscono l’aroma del vino) a causa delle temperature estive elevate. Concludeva che comunque si trattava di una battaglia persa perché la viticoltura sarebbe stata destinata, fra non molto tempo, a spostarsi verso latitudini più settentrionali. Qualche cosa di analogo riguarda la coltura dell’olivo, pianta strettamente legata a un clima mediterraneo che sta andando incontro a una marcata alterazione. Anche il settore zootecnico, ed in particolare quello lattiero caseario, dipendendo dalla disponibilità di foraggi e, per la qualità dei prodotti, dalle caratteristiche di questi, risentirà degli effetti di un clima a cui mal si adattano i nostri pascoli naturali e i foraggi tradizionalmente coltivati da noi.

A minacciare i nostri prodotti alimentari di eccellenza, la cui difesa è considerata una priorità dal governo, è più il cambiamento climatico che le molte contraffazioni, mentre dovrebbe ancor più preoccupare che siano a rischio gli indispensabili approvvigionamenti di generi alimentari. Garantire in autonomia il minimo vitale del Paese in campo alimentare è una urgenza pari a quella del raggiungimento della sovranità energetica. Lo ha sottolineato recentemente Macron per la Francia, che pur è leader in Europa nelle produzioni agricole.

Un altro settore che può risultare compromesso dalle modificazioni climatiche è il turismo, già dimostratosi fragile nel far fronte a criticità, come si è visto con il Covid.

L’annullamento, per mancanza di neve, delle gare di sci per la Coppa del mondo 2022/23 a Cervinia e a Zermatt (stazioni di alta quota) è una campana i cui rintocchi segnalano l’entrata in agonia degli sport invernali e del turismo ad essi associato. Anche quello estivo potrà essere penalizzato in quelle valli montane, già oggi e sempre più domani, con difficoltà di approvvigionamento idrico. Inoltre, dobbiamo interrogarci anche sul possibile impatto di temperature oltre i 40 gradi, protratte nei mesi estivi, e della carenza di acqua (fenomeni previsti già nei prossimi anni nei Paesi dell’area mediterranea) su ogni tipo di turismo, compreso quello balneare.

Le conseguenze del riscaldamento climatico si faranno sentire anche in altri settori, pure se al momento in modo meno palese. Pensiamo solo all’incidenza che temperature estreme e frequenti eventi meteorologici distruttivi possono avere sulle modalità e sulla produttività di varie attività lavorative.

Mi pare miope immaginare che la sostenibilità economica e sociale sia minacciata da una troppo accelerata transizione energetica quando sono invece le conseguenze del riscaldamento climatico a stravolgerla.

L’annuncio del successo conseguito nella sperimentazione della fusione nucleare ci fa intravedere un’epoca in cui l’energia sarà disponibile in abbondanza, ma non muta il quadro descritto. Infatti, se tutto va al meglio, la messa in attività di un primo reattore a fusione nucleare richiederà almeno una quarantina di anni, mentre noi già tra 27 anni dovremo aver abbandonato le fonti fossili di energia. La fusione nucleare potrà essere una grande opportunità per la seconda metà o la fine del secolo in corso, ma per ora non ci è consentito di mutare rotta dovendosi fare esclusivo affidamento sulle fonti energetiche rinnovabili.

Mi chiedo inoltre se la scadenza del 2050 per l’abbandono dei carburanti fossili (gas compreso), unitamente a quella, fra 7 anni, per il loro dimezzamento, sia tenuta presente da chi immagina di fare dell’Italia l’hub europeo per il rifornimento di metano dall’Africa e dal Medio Oriente…

Giuseppe Ladetto

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