Mercati finanziari. L’allarme che arriva dagli Usa

Mercati finanziari. L’allarme che arriva dagli Usa

La situazione sui mercati finanziari non è florida e ci sono anzi segnali piuttosto preoccupanti che arrivano dagli Stati Uniti Se vi dicessero che la metà del sistema bancario mondiale non sopravviverà alla prossima crisi finanziaria, se questa si presentasse con una magnitudo di contagio pari a quella del 2008, voi ci credereste? Quasi sicuramente, no. E non perché siate degli scettici impenitenti, né perché – al contrario – abbiate cieca fiducia nel sistema: semplicemente, perché non avete percezione di quanto sta accadendo in queste settimane e mesi sotto il proverbiale pelo dell’acqua. Dove si muovono gli iceberg.

Ebbene, questa previsione apparentemente catastrofistica, da day-after, non è stata avanzata da dietrologi nascosti dietro qualche oscuro blog, ma da un’azienda di consulting seria e leader mondiale come McKinsey nel suo ultimo report, 55 pagine da mettere i brividi. In base alle conclusioni del quale, il 35% degli istituti a livello mondiale dovrà giocoforza fondersi o farsi acquisire da soggetti più grandi, se vorrà sopravvivere. Perché i numeri parlano chiaro: la creazione di nuovi prestiti è stata solo del 4% nel 2018, la più bassa in 5 anni e 150 punti base al di sotto della crescita del Pil nominale.

Il tutto, alla luce di sfide sempre più estreme, in primis l’appiattimento generalizzato della curva dei rendimenti e la discesa strutturale nel nuovo regime di tassi negativi. In parole povere, la fiducia nel sistema sta indebolendosi un’altra volta. Di più, il report dice chiaro e tondo che il 60% delle banche mondiali rischia di dover affrontare una realtà che si sostanzierà in returns al di sotto del costo dell’equity. Semplicemente, insostenibile.

Inoltre, nonostante si sia entrati nella fase conclusiva di un ciclo di espansione economica formalmente da record, molte voci di metrica sono peggiorate e di molto rispetto al 2010. In primo luogo, il -10,5% del ROTE medio e il +61,2% di istituti il cui titolo è in negoziazione ben al di sotto del book value. Signori, siamo affacciati su un bel precipizio, stile Will Coyote.

E quale soluzione offre McKinsey a questo disastro? Investire maggiormente in aggiornamento tecnologico, visto che se il comparto fin-tech stanzia per questa voce circa il 70% del suo budget, quello bancario solo il 35%. Ma attenzione, perché più tecnologia significa più automazione e digitalizzazione: quindi, alla lunga, meno posti di lavoro “umani”. Ovvero, taglio dei costi attraverso ristrutturazioni di massa. Ciò che, di fatto, sta già avvenendo, da Hsbc a Deutsche Bank a Unicredit. Solo per citare alcuni “giganti” del comparto. Insomma, ci sarà un costo sociale. Pesante. A causa di chi?

Qui la domanda si fa interessante, perché è strettamente connessa al grado di percezione dello status quo di cui parlavo all’inizio. Guardate questi due grafici, sono la sintesi della camminata sul filo da trapezista che stiamo compiendo in questi giorni. Senza nemmeno saperlo. Anzi, accelerando anche il passo, essendo totalmente ignari e invece concentratissimi su pagliacciate come il Def o la campagna da farsa della Turchia in Siria. La quale, come vi dicevo in tempi non sospetti, si è risolta in un accordo di spartizione da tarallucci e vino fra le parti in causa (curdi compresi, alla faccia del rischio di pogrom che si leggeva sui giornali e si sentiva nei tg) dopo meno di una settimana di offensiva militare.


In compenso, fra bufale sull’uso di armi chimiche, paura per la fuga dei carcerati Isis e nuovi flussi di profughi, il parco buoi è stato buono buono e impegnato in altro. Ammansito e distratto, per dirla tutta. Ma torniamo ai grafici.

Il primo è abbastanza chiaro di per sé: nei primi quattro giorni di operatività di quello che Jerome Powell, numero uno della Fed, non vuole che venga chiamato nuovo Qe, la ratio di sovra-iscrizione della domanda rispetto all’offerta (7,5 miliardi di acquisti per asta) è sempre andata crescendo. E su livelli poco giustificabili, stante la garanzia da parte della Banca centrale Usa che il programma di acquisto proseguirà almeno fino al secondo trimestre inoltrato del 2020.

Quella tenutasi mercoledì, poi, è stata la più esposta a discrepanza fra domanda e offerta. Per completezza d’informazione, dopo la vulgata che voleva il ritorno della Fed all’operatività sul mercato repo di metà settembre dovuto alle imminenti incombenze finanziarie di fine trimestre, ora va molto di moda quella che vorrebbe che questa sete inestingubile di liquidità legata al rischio crescente di un Brexit no-deal che vada fuori controllo e si palesi, dalla sera alla mattina, a inizio novembre. Se così fosse, scusate, ma penso che chi di dovere avrebbe già riportato Boris Johnson – con le buone o con le cattive – a più miti consigli.

Il Brexit, invece, esattamente come il conflitto commerciale fra Usa e Cina, fa comodo proprio per i suoi continui stop-and-go che rendono manipolabili i mercati, orientando i rialzi, ma – soprattutto – calmierando i tonfi. Quando non servirà più o i rischi supereranno potenzialmente i benefici, si arriverà a una conclusione. Puff, di colpo.
Comunque sia, qualcosa non va.

E il secondo grafico ci mostra la profondità di quella frattura insita al sistema. Ci mostra infatti l’andamento preso in chiusura di contrattazione da Wall Street mercoledì sera, quando mancava poco meno di un’ora alla campanella finale. Cosa ha mandato in orbita gli indici? La firma dell’accordo con Pechino? Qualche trimestrale da record da parte del settore tech? La scoperta del più grande giacimento petrolifero del mondo sotto un Wal Mart in Nebraska? No, il fatto che senza alcun preavviso, la Fed di New York abbia pubblicato sul suo sito un comutnicato nel quale annunciava che dal giorno seguente (ovvero, da ieri 24 ottobre) le aste repo quotidiane avrebbero visto aumentare il controvalore disponibile da 75 a 120 miliardi di dollari, at least. Come minimo. Mentre le due successive aste term (quella di ieri e quella del 29 ottobre prossimo) passeranno da 35 a 45 miliardi, sempre at least. Vi pare normale? Sia la modalità, sia il timing, sia i controvalori di liquidità iniettata nel sistema sono tutto, tranne che indice di normalità.

E non diamo all’ipotesi di Brexit no-deal troppo peso, poiché questa echeggia nell’aria da almeno sei mesi abbondanti e le banche – si sa – operano con prezzature di rischio precauzionale molto, molto anticipate. Ovvero, se davvero il timore per quell’ipotesi è tanto alto, il cuscinetto di emergenza lo avrebbero cominciato a far crescere – anche imponendo mosse alle Banche centrali – ben prima di adesso, quando mancano potenzialmente solo giorni. Signori, rendetevi conto: ogni giorno la Fed metterà a disposizione del sistema finanziario – in cambio di Treasuries e MBS – 120 miliardi di dollari di liquidità. Ogni giorno.

E già prima di ieri, quei miliardi erano 75, non proprio bruscolini. Volete davvero dirmi che non sta succedendo nulla, sotto il pelo dell’acqua? Volete dirmi che questo non ha nulla a che vedere con il report della McKinsey e le sue conclusioni tutt’altro che rassicuranti? Guardate ora quest’altro grafico: in contemporanea con la crisi di panico della Fed, il 22 e 23 ottobre scorsi la Pboc cinese ha dato vita a sua volta a due operazioni repo per iniettare liquidità nel sistema a 1 giorno. Sapete per quale controvalore? Qualcosa come 200 miliardi di dollari il primo giorno e 250 il secondo: 450 miliardi di dollari in 48 ore, la più grande iniezione di doping di Stato da quella monstre dello scorso gennaio. Anche qui si teme il Brexit, magari per i ricaschi di natura storica che potrebbe avere sull’ex colonia di Hong Kong?


Non prendiamoci in giro. E, soprattutto, non facciamoci prendere in giro. Stiamo camminando su un lago, il cui strato di ghiaccio si sta però rivelando – giorno dopo giorno – sempre più sottile e a rischio di rottura: si cammina a tentoni, si va avanti un passo dopo l’altro. Quasi al buio, certamente non con la prospettiva di un lungo cammino. Solo quella, in un modo o nell’altro, di arrivare a riva. E quello che sta accedendo non rappresenta uno scenario dietrologico possibile ma improbabile, non è un tail risk accademico o l’ombra del Cigno nero: è realtà.

Nel caso delle aste repo della Fed, quotidiana dal 17 settembre scorso. Giorno in cui il sistema ha detto chiaro e tondo che aveva bisogno di essere “attaccato alle macchine”, altrimenti sarebbe stramazzato al suolo.

La domanda ora è una sola: il paziente sta migliorando, stante la cura da cavallo in atto? I segnali di prezzatura proxy del mercato dicono di no, il tasso di disidratazione del mercato è così profondo da necessitare mosse come quelle della Fed di New York di mercoledì sera, salutate dal mercato con rialzi degni dell’Ipo di Aramco. Signori, attenzione a ogni singolo evento che paia fuori dall’ordinario: perché lo è, viviamo in tempi che di normale non hanno più nulla.

Stiamo di fatto camminando su un campo minato, parzialmente bendati. Per questo, occorre che la gente non se ne renda conto. Altrimenti, la svegliata forzata che ci darà il botto, sarà tardiva.

Mauro Bottarelli

Pubblicato da Business Insider