Ucraina: le colpe dell’Occidente spiegano l’aggressione di Putin? – di Maurizio Cotta

Ucraina: le colpe dell’Occidente spiegano l’aggressione di Putin? – di Maurizio Cotta

In un recente articolo apparso su Rinascita popolare e ripreso da Politica Insieme (CLICCA QUI) Giuseppe Ladetto fa una puntigliosa elencazione tutte le colpe che l’Occidente e in particolare gli Stati Uniti avrebbero compiuto dopo il crollo dell’Unione Sovietica nei confronti della Russia. Colpe o errori che sarebbero all’origine della aggressione di Putin all’Ucraina (Ladetto non usa mai la parola aggressione, ma spero che convenga che di questo si è trattato) e (in parte) anche della evoluzione autoritaria del regime russo.

Si potrebbe discutere su questo o quell’aspetto menzionato, o magari notare che se la Nato ha fatto esercitazioni militari ai confini con la Russia lo stesso ha fatto regolarmente questo paese ai confini con la NATO (esercitazioni quadriennali Zapad). Oppure, per completare il quadro, potrebbero essere ricordati i non piccoli investimenti fatti dagli Stati Uniti in Russia (più di dieci miliardi all’anno nel periodo 2009-2022) dei quali ha largamente beneficiato la capacità produttiva del paese o gli aiuti dell’Unione Europea alla Russia nel campo della cooperazione universitaria ed altri. Così come andrebbe ricordato quanto l’elite politico-economica russa legata a Putin abbia negli ultimi decenni apprezzato l’Occidente come luogo per i propri costosi svaghi e dove parcheggiare senza turbamenti i propri (non sempre leciti) profitti lontano dagli sguardi della popolazione russa (ma con la complicità di Putin).

Su una posizione simile a quella di Ladetto si esprime anche Brundisini (sempre su Politica Insieme CLICCA QUI) che vede la rivoluzione di Maidan del 2013-2014 come una operazione essenzialmente americana, senza nemmeno menzionare che la estesa protesta popolare fu scatenata dalla decisione dell’allora presidente ucraino Yanukovitch di cancellare all’ultimo minuto l’accordo di libero scambio e cooperazione economica con l’Unione Europea (DCFTA) e di aderire invece sotto forti pressioni provenienti dal Cremlino ad un accordo con l’Unione Economica Euroasiatica promossa da Mosca. Per non parlare delle violenze commessa dagli apparati di polizia nei confronti dei manifestanti.

Ma ci sono altri aspetti più importanti che rendono l’analisi di Ladetto quanto meno parziale (al punto che, certo inavvertitamente, finisce per essere molto vicina alla narrazione vittimistica putiniana delle ragioni della operazione militare speciale).  In questa analisi sembra che la Russia, e le sue decisioni come anche l’evoluzione autocratica del suo leader siano state sostanzialmente determinate dall’influenza (negativa) dell’Occidente e non ci fossero nella spiegazione fattori endogeni alla Russia stessa. Questa interpretazione trascura due elementi fondamentali, ben noti ai conoscitori della Russia, e tra loro strettamente connessi: la lunga a persistente tradizione imperialista russa e la risorgente e connessa forza della scelta autocratica. Seppur per sommi capi occorre ricordare che la Russia si è sviluppata negli ultimi secoli come il più grande impero territoriale del mondo e la sua forma di governo ha avuto in prevalenza caratteri fortemente autocratici. L’autocrazia si è legittimata internamente come necessaria per mantenere unito il grande impero multietnico. E l’impero è stato presentato come lo scudo per difendere l’autorità moscovita da minacce esterne. Questo abbinamento non è certo andato a beneficio della sua popolazione e soprattutto delle sue minoranze interne che hanno dovuto pagare i pesanti costi in termini di libertà ma anche di arretratezza economica prodotti da questo modello. Inoltre questo modello è fallito due volte negli ultimi 120 anni per l’incapacità dell’autocrazia (quella zarista nel periodo 1905-2017 e quella sovietica negli anni 1980) di rispondere efficacemente ai problemi interni ed internazionali e di trasformarsi in una autorità meno totalitaria e aperta ai contributi della libertà democratiche. In entrambi i casi il collasso dell’autorità politica autocratica ha prodotto uno smantellamento parziale dell’impero e la liberazione di popoli e territori che mal sopportavano la cappa di oppressione di Mosca. Abbastanza comprensibilmente queste nazioni (paesi baltici, Polonia, Georgia, Ucraina, ecc.) hanno in forme varie cercato di consolidare la loro indipendenza nazionale rispetto al pericolo di un ritorno dell’impero con alleanze e protezioni occidentali.

Mentre altri imperialismi europei (come quello francese napoleonico, quello prussiano/tedesco, e quello austro-ungarico) sono stati consegnati alla storia e la loro fine è stata definitivamente suggellata con l’Unione Europea, quello russo, risorto con l’ascesa dell’Unione sovietica, aveva ripreso nel primo e secondo dopoguerra ed anzi esteso la sua presa diretta o indiretta su gran parte dell’Europa centro-orientale. Con Putin, dopo il 2000 e la sua prima elezione a presidente, il crollo dell’Unione sovietica viene considerato (come il nuovo presidente ha più volte esplicitamente dichiarato già dal suo discorso sullo stato dell’Unione del 2005) il più grande disastro geo-politico del secolo). Ovviamente questo punto di vista non è condiviso dai paesi dll’Europa e dell’Asia che hanno potuto ricavarne la propria indipendenza nazionale! Varie forme istituzionali sono state sviluppate da Mosca per recuperare parte del terreno perduto come la Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC) del 2002 e l’Unione Economica Euroasiatica (UEE) o la proposta di una fusione tra Russia e Bielorussia. In questa direzione il pezzo più ambito ma più difficile è stata certamente l’Ucraina che ha oscillato tra l’adesione a questi processi o invece il rapporto con l’Unione Europea (e la Nato), per poi decisamente orientarsi in quest’ultima direzione con il 2014. Se le citate organizzazioni di tipo più consensuale hanno faticato ad affermarsi e la loro attrattività non ha convinto ad aderire varie componenti dell’ex Unione Sovietica è probabilmente per il timore di un ruolo egemonico della Russia al loro interno (in questo ricordiamo il chiaro vantaggio dell’Unione Europea nella quale la mancanza di uno stato egemone ha dato garanzie anche ai paesi membri minori di rispetto della loro identità). Ma Putin non ha rinunciato ad azioni di altro tipo sfruttando i conflitti interni di stati usciti dell’Unione Sovietica: in Moldova (con la Transnistria), in Georgia (con l’Ossezia del Sud e l’Abhazija e più massicciamente ancora in Ucraina (con le regioni del Donetsk, del Luhansk e della Crimea). In queste realtà l’esercito russo è intervenuto in forma aperta o coperta con milizie senza bandiera a sostenere e consolidare i processi separatisti. Queste azioni non hanno trovato una significativa opposizione da parte dell’Occidente se non nella forma di sanzioni o di invio di armi alla parte lesa. L’invio di forze militari, seppur con compiti di interposizione o di tutela dei confini dei paesi colpiti dalla secessione, sono stati sempre esclusi per timore di una escalation del conflitto. Questa è stata una delle principali ragioni del fallimento degli accordi di Minsk.

Il 2022 ha segnato una drammatica escalation, ma da parte della Russia di Putin non certo dell’Occidente. L’operazione speciale militare come viene pudicamente denominata da Mosca non è stata una limitata azione difensiva dei secessionisti del Donbass, ma con l’attacco diretto sulla capitale dell’Ucraina si è configurata esplicitamente come il tentativo di decapitare il vertice politico del paese per poterlo ridurre in stato di vassallaggio ed eventualmente riportarlo tutto o in gran parte sotto la sovranità di Mosca. Che questo sia l’obiettivo lo ripete costantemente la narrazione pseudo-storico che Putin ripete sull’inesistenza dell’Ucraina come nazione autonoma e lo confermano il riconoscimento e poi l’annessione delle province separatiste e di quelle conquistate con l’aggressione del 2022 (Zaporigia e Cherson). Solo la strenua e inaspettata difesa ucraina impedisce per ora il pieno realizzarsi di questo disegno. Ma Putin non rinuncia ai territori conquistati e nemmeno al progetto più vasto (“denazificare l’Ucraina”, riunificare il “mondo russo”, il mitico Russkij mir) che viene costantemente ribadito da lui stesso e dai media di regime.

In parallelo a questa revanche imperiale si è progressivamente ma inesorabilmente sviluppata la autocratizzazione del potere presidenziale di Putin. Se le prime elezioni presidenziali del 2000 erano state ancora ragionevolmente competitive, le successive si trasformano in plebisciti grazie al controllo progressivo sulle televisioni, la repressione sempre più rigorosa delle opposizioni e dei mezzi di comunicazione indipendenti, l’esclusione di candidati alternativi pericolosi per via burocratica o addirittura con l’eliminazione fisica (Nemtsov e Navalny). L’elusione del limite costituzionale di due mandati, operata una prima volta nel 2008 con lo scambio tra presidenza della federazione e presidenza del governo tra Putin e Medvedev, e poi con una nuova riforma costituzionale nel 2020 rendono permanente il controllo del potere da parte di Putin e costruiscono il mito della sua insostituibilità (“senza Putin il caos”).

Chi vuole oggi la pace in Ucraina e più in generale in Europa, perché le due realtà non possono essere separate, deve fare seriamente i conti con questa realtà che non si può certo minimizzare sulla base di dati come la spesa militare russa di molto inferiore a quella occidentale. Le ultime vicende hanno dimostrato ad abundantiam che di fronte alla disponibilità di Putin ad usare con spregiudicatezza la forza militare (e le proprie truppe come carne da cannone) stanno l’esitazione e le divisioni del fronte occidentale nel rispondere sullo stesso piano.

L’appello accorato del Papa a porre fine alla guerra con il negoziato deve essere ascoltato, ma gli obiettivi, e gli strumenti del negoziato ricadono nella responsabilità delle forze politiche nazionali ed europee. Un negoziato che porti ad una pace sostenibile (se la parola “giusta” sembra troppo chiedere) non può prescindere da un netto respingimento delle pretese espansioniste della Russia di Putin e dal ristabilimento del principio cardine del rispetto della sovranità degli stati.  Questo richiede oggi necessariamente un fermo sostegno politico, militare ed economico dei paesi europei (e degli Stati Uniti) all’Ucraina e alle sue buone ragioni. Non si tratta certo di umiliare la Russia che ha invece tutto da guadagnare dalla fine di una guerra di aggressione che porta alla morte decine di migliaia dei suoi giovani e sottopone il paese ad una economia di guerra. Lasciare partita vinta oggi a Putin significherebbe invece aprire un baratro di instabilità e di tensioni generatrici di ulteriore guerra al centro dell’Europa.

Maurizio Cotta