Un “partito di programma” (2) – di Domenico Galbiati

Un “partito di programma” (2) – di Domenico Galbiati

Segue la prima parte pubblicata il 12 marzo scorso (CLICCA QUI)

Partito sta per “parte”. Esprime una visione delle cose del mondo radicata in una definita ed originale matrice storica, culturale, morale. Allude alla rappresentanza privilegiata di questo o di quell’ambito civile, accosta i fenomeni sociali secondo un certo angolo di visuale, assume la cura di un interesse particolare, eppure riconosce come vada ricondotto nell’ alveo dell’interesse generale della collettività, evoca la responsabilità’ personale e l’ autonomia di giudizio, il libero concorso critico di ciascuno dei suoi aderenti. Ambizione quest’ultima irrinunciabile a maggior ragione oggi, se si intende concorrere al governo del mondo globale e complesso in cui viviamo.

Una volta i partiti erano fortezze dotate di un territorio di appartenenza che letteralmente “militarizzavano”, arruolando quanto più possibile, in una sorta di generale chiamata alle armi, ogni espressione in qualche modo affine ai loro rispettivi orientamenti, che nascesse nelle mille articolazioni della società civile.

Oggi, se vogliamo insistere in questa metafora, una forza politica dev’essere, piuttosto, una torre d’avvistamento che, sia pure da un preciso punto d’ osservazione non scelto occasionalmente, ma definito secondo i caratteri della sua idealità, ascolti, scruti ed interpreti un territorio. Per orientare efficacemente la propria azione deve saper leggere dove, tra le righe dei fenomeni sociali, della protesta, delle stesse forme di disagio e di disaffezione dalla vita pubblica, si nasconda un anelito, un’ attesa frustrata di libertà.

In altri termini, deve porsi come “nodo” di una rete diffusa, capace di vivere una relazione libera e costruttiva con altri soggetti sociali, culturali, civili che non esercitano una funzione espressamente di ordine politico militante, ma pure concorrono al discorso pubblico e non possono fare a meno di interrogarsi circa la proiezione politica della loro presenza attiva nel contesto civile.

Il “partito”, come lo immaginiamo noi – “voce di chi non ha voce”, come sosteneva Carlo Donat Cattin – è uno strumento tuttora essenziale ed indispensabile perché la collettività possa esprimere la creatività e la sovranità che le appartengono, così’ da tradurle in termini di sicura vita democratica, presidio della libertà di ciascuno. Va inteso come struttura “generativa”, attore di un sistema aperto, capace di apprendere induttivamente dal contatto vivo con la realtà sociale, piuttosto che grigio simulacro di un pensiero ideologico e presuntuoso che immagini di dedurre da assiomi ossificati un divenire della vicenda umana rigido, pianificato, predeterminato, a suo modo prevedibile e scontato, negando il carattere perennemente innovativo ed aperto della storia.

Un “partito” che – pur senza scordare ciò che, come si diceva sopra, esige la sua etimologia – sia, nel senso pieno e forte del termine, “forza politica”, cioè impegnato, qualunque sia la sua specifica rappresentanza, non a difendere corporativamente interessi di categoria e parziali, bensì ad edificare il “bene comune” della città terrena, sapendo che solo in questa cornice ogni istanza particolare può trovare la sua piena legittimazione.

In questo senso, la nostra denominazione “INSIEME” è di straordinaria efficacia ed attualità, così come fu, a suo tempo, la denotazione “Democrazia Cristiana”, che evocava un’ intenzionalità rivolta non a settori particolari, bensì, nel segno di una ispirazione cristiana, alla comunità nazionale come tale, in vista di un interesse generale in cui tutti potessero riconoscersi, sia pure criticamente, senza contraddire la propria vocazione culturale originaria.
Se vogliamo riattualizzare la suggestione sturziana del “partito di programma”, dobbiamo saper creare sul serio un partito “nuovo”, piuttosto che un nuovo partito. Passando attraverso almeno tre dicotomie che esigono di essere poi approfondite una per una:

***partito di tessere, di iscritti – che pur ci vogliono – oppure anche e soprattutto partito di relazioni? Capace, per dettato statutario, di creare collaborazioni stabili e strutturate con soggetti sociali disponibili a concorrere ad una sistematica elaborazione comune, in un quadro di paritaria e reciproca libertà;

***partito che si fa carico di portare dentro il concerto delle istituzioni i bisogni e le domande che nascono nel cuore della società oppure anche partito che porta la politica fuori dal “palazzo”, cercando di sollecitare e favorire un incremento di partecipazione e di esperienze ispirate ad un principio di “democrazia deliberativa”?

***partito che esaurisce il suo ruolo nei termini della nuda e cruda gestione del potere oppure capace di intendere la politica, come insegnava Lazzati, soprattutto come esercizio, capacità, attitudine diffusa a “pensare politicamente” ?

Domenico Galbiati