Anche dopo la Sardegna: il quadro istituzionale e la legge elettorale – di Giovanni Cominelli

Anche dopo la Sardegna: il quadro istituzionale e la legge elettorale – di Giovanni Cominelli

La prima lezione riguarda l’interpretazione dello scisma silenzioso e massiccio dei cittadini rispetto alle istituzioni. Scisma in allargamento. I votanti sardi sono solo il 52,4%, in calo rispetto al 2019.

Vincitori e vinti, tutti impegnati a proclamarsi vincitori, dimenticano la sconfitta comune: la fuga dalle urne della metà circa dell’elettorato. L’astensione non è il prodotto di un’indifferenza degli elettori ai problemi del Paese e della Regione, cioè ai problemi della sanità, dell’agricoltura, dei trasporti…

È la reazione all’indifferenza, che gli elettori attribuiscono ai partiti, a tutti i partiti, rispetto ai problemi del Paese e della Regione, cioè ai propri. Attraverso quali meccanismi e circostanze si è costruita questa percezione? Si deve a due cause ben individuabili.

La prima è la rottura del legame tra elettore e suo delegato nelle istituzioni rappresentative. Nelle elezioni politiche nazionali l’elettore non sceglie più il proprio deputato, ma il partito. Il partito ha già messo in fila gli eleggibili, secondo propri criteri, totalmente estranei rispetto a quelli degli elettori.

È dal 2005, quando venne approvato il Porcellum di Calderoli, che dura questa farsa. Che la Corte costituzionale abbia proceduto, dopo un letargo di nove anni, a dichiararlo incostituzionale, non ha migliorato di molto la situazione, nonostante l’Italicum.

Il Mattarellum aveva introdotto, dopo l’abolizione del voto di preferenza, l’elezione diretta del deputato in collegio uninominale, sia pure solo per il 75% dei seggi. Questo legame della legittimazione elettorale del deputato è stato spezzato. La seconda causa è la rottura tra l’elettore e il capo del governo.

Beninteso, nel 1993 non erano previsti né il presidenzialismo né il premierato, tuttavia l’indicazione sulla scheda del nome del candidato alla presidenza del Consiglio stabilirebbe una connessione diretta, sufficiente, politica, se non giuridica. L’elettore sapeva da subito chi sarebbe stato il Presidente del Consiglio.

Un gruppetto di segretari di partito si è impadronito del meccanismo elettorale, a proprio oligarchico vantaggio. Ergo: privatizzazione partitica delle istituzioni. Si obbietta che i partiti svolgono una funzione pubblica. Certo, ma nel modo della privatizzazione della dimensione pubblica. Trattasi di circolo vizioso: svolgono funzione pubblica perché mettono le mani sulle istituzioni pubbliche.

Partiti, d’altronde, i cui meccanismi che non sono affatto democratici nella formazione della volontà politica interna. Ecco perché la democrazia liberale appare inutile ai cittadini. Ed essendo per lo più piegata sull’orizzonte politico-elettorale nazionale, non sorprenderà che la maggioranza degli Italiani – cfr. le previsioni di Nando Pagnoncelli – non abbiano nessuna voglia di alzare gli occhi oltre le Alpi e oltre un mare sempre meno “nostrum”, persino in occasione delle elezioni europee.

L’attuale scenario istituzionale

La seconda lezione è pratica. È una spinta alle riforme istituzionali, oggi sul tavolo: premierato – con sistema elettorale a collegio unico con doppio turno – autonomia differenziata, no a terzo mandato. Il panorama istituzionale del Paese non è affatto brillante: Presidenza della Repubblica fortissima, Governo debole, Parlamento debolissimo, Magistratura forte, Regioni deboli, Enti locali debolissimi, Amministrazione statale e locale fortissima, Partiti fortissimi, Politica debolissima. L’uso degli aggettivi forte/debole è più metaforico che scientifico, ma rende l’idea. Forte, cioè chi influenza la formazione delle opinioni, chi decide delle condizioni quotidiane di vita, chi distribuisce il denaro pubblico? E’, si intende, la percezione della casalinga di Voghera, da sempre attenta alle problematiche della sopravvivenza quotidiana. È la percezione del cittadino, il quale è e si sente debolissimo, per nulla preso sul serio. Dopo la grande protesta degli anni ’90 e quella populistica degli anni ’10 del 2000, il cittadino ha ormai perduto ogni slancio tanto di proposta quanto di protesta. Si muovono piccole minoranze ostinate e leggermente disperate. Riallineare le istituzioni rappresentative e il Governo alla volontà dell’elettore è l’unica cura possibile per la democrazia malata degli Italiani.

La fine della staffetta della rabbia

Il primo degli effetti nazionali riguarda Matteo Salvini. Salvini ha i giorni contati nel governo e dentro la Lega. La sua Lega di lotta e di governo “risale in disordine e senza speranza le valli (del Sud – aggiunta del redattore!) che aveva discese con orgogliosa sicurezza”. Aveva investito lucidamente e cinicamente sulla rabbia, sulla protesta, sulla rivolta contro il sistema, sull’odio ideologico contro la sinistra e contro ogni moderatismo. Nell’immediato l’investimento ha reso. Ma, alla lunga, “nihil violentum est durabile”, non si costruisce la convivenza democratica sull’eccitazione della rabbia. La vicenda di Pisa è stata paradigmatica. La polizia sbaglia clamorosamente la strategia della gestione della piazza. Il Presidente della Repubblica interviene. Le opposizioni chiedono chiarimenti. Alcune, va riconosciuto, in modo sguaiato e ideologicamente ipertrofico, alludendo a derive reazionarie e fasciste. Ma Salvini sposta la questione dal merito specifico e rilancia sul terreno del “chi è pro e chi è contro le forze dell’ordine.”

L’eccitazione estremistica non porta più voti. Il “trucismo” non paga. E si illudono certamente, presso il quartier generale di Fratelli d’Italia, quanti credono di poter raccogliere dalla mano di Salvini il testimone della rabbia. Sulla quale certamente ha investito la Meloni, durante la lunga traversata del deserto, che l’ha portata dal 4% ai livelli attuali. Ma con la rabbia non si governa. Torna l’ora dei moderati. Con questa espressione non si dice ancora nulla sui programmi. Si allude a qualcosa di più profondo: allo stile del far politica, al ragionare piuttosto che al comiziare, al fare i conti con i vincoli internazionali, al confrontarsi con le opposizioni, fatte di avversari, non di nemici.

Da questo punto di vista la Sardegna può essere un’occasione. Il surreale voto disgiunto ha consentito di votare con la stessa scheda per il Presidente di Regione e per il Consigliere che gli voterà contro. L’effetto: il Presidente è di sinistra, ma il Consiglio è di centro-destra. Ingovernabilità e stallo assicurati o, invece, collaborazione realistica volta a risolvere i problemi secolari dell’isola?

Giovanni Cominelli