I popolari: senza le radici non c’è qualità – di Giancarlo Infante

I popolari: senza le radici non c’è qualità – di Giancarlo Infante

Pubblicato su www.politicainsieme.com

Un uomo senza radici è, come direbbe Robert Musil, senza “qualità”. E questo vale anche per quegli organismi collettivi che nascono per offrire una presenza organizzata in politica.

Se è vero che, ogni giorno, tutto ci dice  della nostra immersione in una visione utilitaristica della vita, e persino di mancanza di quello che dovrebbe essere un moto di passione per le cose che ci accomunano, è altrettanto vero che sempre più ci rendiamo conto di quanto, per questa mancanza di “qualità”, sia misera ed impoverita la nostra dimensione umana e di cittadini. Giovanni Cominelli ha esaminato qualche giorno fa una tale odierna condizione parlando di una società senza politica (CLICCA QUI).

Invece, una diversa politica e un diverso modo di apportare un contributo alla cosa pubblica sono possibili. E questo soprattutto se, come scrivemmo nel Manifesto Zamagni (CLICCA QUI), si ricercano le ragioni dello stare insieme accomunati da un “pensiero forte”.

Se ben guardiamo, al di là del momentaneo successo elettorale che porta a Palazzo Chigi questa o quella parte, nella nostra assoluta e malinconica indifferenza, entrambi gli schieramenti contrapposti sono in una profonda crisi esistenziale e concreta. Le cronache politiche di questi giorni ce lo confermano nella maniera più miserevole. E la cosa quanto riguarda anche i cattolici impegnati politicamente?

La diaspora e la divisione tra quelli della morale e quelli del sociale, divisione che ancora permane anche per quel crudo realismo secondo cui bisogna pur sempre schierarsi con qualcuno in grado di vincere, hanno portato inevitabilmente a far perdere per strada quello che, invece, per i popolari e i cattolici democratici dovrebbe essere la stella polare di riferimento rappresentata dal Pensiero sociale della Chiesa. Che è organicità e sapiente insegnamento. Che guarda all’essere umano, alla Persona, nella sua completezza ed insieme delle sue connessioni. La cosiddetta Dottrina sociale della Chiesa non si affaccia fiduciosa solo sulle problematicità dell’odierno “Homo oeconomicus”, ma stimola ad andare oltre, verso la piena ricchezza che l’essere umano rappresenta con il suo senso della Vita e con le sue relazioni.

I popolari, richiamati dalla lucida visione di don Sturzo, in quel 18 gennaio del 1919, con il lancio dell’Appello ai liberi e forti, avevano ben chiaro il modo con cui fosse opportuno, e possibile, sintonizzarsi con le attese di una larga parte del Paese. Partendo da quei primi germogli della organica visione sociale, del tutto originale, sollecitata dai cattolici che aveva preso le mosse con la Rerum Novarum. E quei cattolici riuniti all’Hotel santa Chiara di Roma sapevano di essere in grado d’illuminare le vicende umane con un proprio faro, con una propria luce distinta da quella emanata dalla visione liberale o da quella socialista. La conferma è venuta dalle successive elaborazioni. Da tutte le altre encicliche sociali, giunte oramai, con le ultime di Francesco, a ben oltre dieci. Così come, sul piano più strettamente politico, si è sviluppato e si è consolidato un forte movimento popolare d’ispirazione cristiana che, ad esclusione dell’Italia, riesce ancora a far sentire la propria voce e a rimarcare il senso di una visione che pone al centro della società, dell’economia, e dell’intero Creato, l’Essere umano.

Un movimento che è stato forte ed incisivo fino a quando è riuscito a concretizzare il “ragionare politicamente”, in azione di programma. Laico e progressista nel senso che, come scrisse Aldo Moro, Sturzo fu il primo ad indicare la necessità del superamento di quell’”ibridismo politico-religioso” che fino ad allora aveva caratterizzato l’impegno dei cattolici nei primi e difficili passi nell’Italia unita e dare vita ad una “coscienza unitaria e programmatica”.

Ecco perché l’Appello del 18 gennaio 1919 non fu un documento d’intellettuali, ma di “politici” sia pure poco adusi alla frequentazione dei palazzi romani delle istituzioni liberali. Partì da precise radici ed altre ne diffusero a loro volta credendo nella ripetuta successione della presenza e dell’impegno di donne e di uomini di buona volontà.

In effetti, dal famoso discorso di Sturzo, del 1905, quello della Croce di Costantino, era stata data vita alla creazione di un movimento dal basso. Fatto di esperienze cooperativistiche, di organizzazioni delle masse rurali e di una parte della borghesia cittadina. E non a caso, quel 18 gennaio di 105 anni fa,  si mettevano insieme le riforme democratiche, le questioni dell’autonomia e del decentramento amministrativo, oltre che originali intenti trasformatori che, in quella società, partivano dalla tutela e dallo sviluppo della proprietà contadina contro il latifondo nelle aree rurali e delle pulsioni di una borghesia cittadina che aveva bisogno di uno sviluppo che non poteva restare fermo ai modelli del liberalismo classico, privo cioè di un nèrbo autenticamente popolare.

Giuseppe Ignesti ha magistralmente spiegato la portata di quell’Appello nel suo “Voce del Lessico sturziano”(ed Rubbettino): “Ed è la prospettiva di un’ampia riforma della vita politica italiana imperniata sull’ideale della libertà che spinge Sturzo a delineare un vasto programma di rinnovamento dello Stato, della società e delle istituzioni, della legislazione e dell’ordinamento amministrativo. Una riforma della vita politica quindi che si basa essenzialmente su quella che egli chiama una vera e propria “inversione dei termini”: ad uno Stato concepito come “fine ultimo di ogni attività degli associati, legge a se stesso, principio di ogni altra ragione collettiva”, cioè ad una visione di tipo assoluto e panteista, deve sostituirsi la prospettiva profondamente liberale e democratica che “il vincolo sociale deve servire alla elevazione personale di ciascun associato”.

E Guido Bodrato nel suo “Le stagioni dell’intransigenza” (ed Celid – Fondazione Carlo Donat Cattin) scriverà: “Per Sturzo un partito deve qualificarsi per il programma e per le responsabilità che intende assumere anche quando è collocato all’opposizione; deve essere radicato nel territorio, avere un programma “per l’azione” e rivolgersi ai problemi concreti del paese”.

Non è la prima volta che viene da riflettere come l’Italia, per molti versi, cambiando ciò che c’è da mutare, sia tornata in quella stessa condizione di 105 anni orsono. E cioè nella necessità di avviare una stagione di trasformazione radicale politica, economica, sociale e, persino, antropologica. Un impegno cui devono dedicarsi tutte le forze più vive del Paese. Quelle consapevoli del fatto che alle sfide dell’oggi non si risponde con lo sguardo nostalgico rivolto al passato. E neppure frammentando ulteriormente la nostra comunità nazionale e creando nuove fratture tra quelle regionali e locali.

Come allora è necessario offrire agli italiani un nuovo modello di sviluppo. E per fare questo, altra profonda analogia con gli intenti dei primi popolari raccolti da Sturzo, mettere mano a delle riforme istituzionale in grado di allargare e garantire gli spazi di partecipazione e d’inclusione a tutti i livelli e di ridurre la divaricazione createsi tra eletti ed elettori. Ecco perché è necessario pensare ad una legge elettorale che ridia voce a  tutte le componenti della società civile.

Le analogie, di cui è bene innamorarsi con discernimento, servono non per rimirare una commovente fotografia in bianco nero di un album di famiglia perennemente, però, riposto in un cassetto, ma per rinnovare la ricerca delle proprie radici e, con esse, di una propria “qualità”. Che dev’essere rivendicata e difesa, e soprattutto messa in pratica.

Giancarlo Infante