Il premierato e le riforme – di Giovanni Cominelli

Il premierato e le riforme – di Giovanni Cominelli

L’approvazione il 3 novembre nel Consiglio dei Ministri del “Disegno di legge costituzionale” intitolato “Introduzione dell’elezione popolare diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia” ha generato un’alluvione di commenti, argomentazioni e contro-argomentazioni di costituzionalisti, di editorialisti, tanto di giornale quanto di tastiera.

Alluvione inutile. Cui partecipa a pieno titolo anche l’articolo che state incominciando a leggere, s’intende. Allora, perché scriverne? “Un po’ per celia e un po’ per non morir”, sospirerebbe la Madame Butterfly di Puccini.

Perché inutile? Perché il Disegno non arriverà al traguardo, per la gioia di tutti i conservatori e di tutti i fan della “Costituzione più bella del mondo”.

Per tre ragioni pesanti, tutt’altro che futili.

Il pasticcio tecnico

La prima è che il progetto è stato assemblato con sciatteria tecnico-intellettuale: un piede calza la scarpa quasi inglese del premier – però eletto dal popolo – l’altro la ciabatta tedesca della sfiducia costruttiva anomala.

Nel corso della campagna elettorale era stato promesso il presidenzialismo, i cui contenuti ora disvelati ne sono ben lontani. Che il premierato Meloni-Salvini sia confusissimo pare chiarissimo. Sabino Cassese ha sintetizzato i punti di contraddizione, indicati da molti altri, da Ceccanti a Clementi, a Pera, a Quagliariello. È un “Disegno costituzionale” concepito non per rendere più forte l’istituzione-governo, ma per rendere più stabile la maggioranza politica che la occupa.

Tuttavia, ecco il bug, se il premier viene eletto dal Paese e se l’opposizione non potrà più combinare ribaltoni, potrà sempre farli la sua maggioranza, anzi l’unità più marginale della sua maggioranza.

Il premier eletto può essere sfiduciato dalla sua maggioranza ed essere sostituito da un “secondo premier”, sempre della coalizione di maggioranza, che, paradossalmente, è più stabile e più potente del primo. Infatti, non lo può più toccare nessuno: resta lì come il monolite di “Odissea nello spazio”, perché, se cade, si va a elezioni. Insomma: cade Meloni, ma Salvini può legittimamente succederle fino alla fine della legislatura. Tuttavia, questo premier eletto dal popolo e così potente sulla carta non ha il potere né di scegliere i Ministri né di licenziarli.

Altro che “premier d’Italia”. È il “preside d’Italia”, che in un Istituto scolastico decide su parecchio, ma non ha il potere di scegliere i suoi insegnanti. Il premier si presenta come un “Re travicello”.

E poiché viene eletto direttamente, occorre procedere a modificare la legge elettorale, garantendo il 55% degli eletti. Ma non si dice quale sarebbe la soglia minima di voti necessari. La Legge Acerbo del 1923 prevedeva un quorum minimo del 25% dei voti popolari, perché scattassero i 2/3 dei seggi.

La preoccupazione è tutt’altro che peregrina, considerata la discesa costante dei votanti e preso atto che ci stiamo avviando verso una democrazia di minoranze. Peggio ancora: la legge elettorale dovrebbe essere scolpita nel marmo della Costituzione e diventare intoccabile per decenni.

E in questo puzzle che fine il Presidente della Repubblica, che viene eletto solo dal Parlamento? Decisamente più debole e ininfluente. Si profila uno scontro di legittimazione e di poteri: il Premier eletto dal popolo, il Presidente solo dal Parlamento.

Come si vede, si tratta di un disegno-porcospino, destinato a pungere chiunque lo tocchi, dentro e fuori la maggioranza. Se poi si dovesse andare a referendum, è facile prevedere che il premierato non uscirà vivo dalle urne elettorali, finirà in una delle urne cinerarie, dove giacciono tutti i disegni di riforma costituzionale degli ultimi quarant’anni.

I partiti contrari, a turno, alle riforme costituzionali

La seconda ragione di inutilità dei numerosi dotti commenti è che i partiti non vogliono nessuna riforma costituzionale che limiti il loro potere di disporre delle istituzioni del Paese. In particolare, che impedisca loro, non appena costituito un governo, di darsi subito da fare per farlo cadere e sostituirlo al più presto.

Così la politica, intesa come eterna ammuina, può liberamente navigare: “tutti chilli che stanno a prora vann’a poppa e chilli che stann’a poppa vann’a prora…”. L’impotenza di governo della politica fa crescere la reazione populista e questa oggi funziona come alibi per sottrarre la politica al popolo.

L’alibi è “No all’uomo solo al comando!”. Di questo brand hanno fatto largo uso la destra, la sinistra, il centro ogni qualvolta si sia gonfiato a livello di massa lo scontento per governi che non decidono e che non governano. Così nel 2006 la Destra propose un Premier che avrebbe potuto nominare e revocare i ministri e sciogliere direttamente la Camera. La Sinistra si oppose.

Nel 2016 Renzi riprese in mano la proposta, assai più debole di quella della Destra nel 2006. Eppure la Meloni dichiarò: “La riforma costituzionale di Renzi …riduce la democrazia e toglie agli italiani la possibilità di eleggere i senatori… noi vogliamo abolire davvero il Senato e dare all’Italia un Parlamento più efficiente…”. E così continuiamo a goderci due Camere. E Salvini? “Quella di Renzi è una riforma confusa, pasticciata e pericolosa… Voterò No, perché sono contrario alla strategia del pensiero unico (sic!) … questo referendum non è il mio referendum, perché questa riforma ha un padre che si chiama Giorgio Napolitano”. “L’uomo solo al comando” è finito a Piazzale Loreto in una postura piuttosto scomoda 78 anni fa, ma viene usato a tutt’oggi come spauracchio per difendere la democrazia. Il poveretto si rivolta legittimamente nella tomba.

Gli Italiani non vogliono le riforme costituzionali

La terza ragione è la tiepidezza riformistica degli Italiani. Alessandra Ghisleri ha già incominciato a sondarli. Quella che la Meloni ha definito “la madre di tutte le riforme” appare piuttosto come una suocera malmostosa.

Gli Italiani sono di sicuro contrari ai ribaltoni e di sicuro d’accordo sullo scioglimento delle Camere, se il governo cade, ma sull’elezione diretta del premier solo il 39,2% è a favore, il 38,6% è contrario. Poiché lungo gli ultimi decenni, l’intero arco partitico ha messo in guardia, a turno, i cittadini sui pericoli per la democrazia rappresentati da un governo che duri cinque anni filati con un solo capo del governo, beh, un po’ di gente ha finito per prendere sul serio questa tiritera.

O forse gli elettori non gradiscono la torsione personalizzante che la Meloni, come già Renzi, sta imprimendo all’iter del Disegno? Cioè: sono d’accordo con la tua riforma, ma voto No. Chiedere a Renzi per i dettagli!

Ma la causa più profonda sta, forse, ancora più sotto. Ciò che è “pericoloso” per la maggioranza degli Italiani è un governo che duri cinque anni, che annunci riforme e che le faccia, che tagli le unghie ai poteri diffusi, forti e deboli, che galleggiano brillantemente sull’impotenza delle istituzioni. Ciascuno di noi ha qualche buon motivo per evitare riforme che tocchino i suoi piccoli o grandi privilegi. Le riforme si devono fare, ma nel giardino degli altri. È la democrazia corporata, bellezza!

Possiamo sospirare speranzosi con la succitata Butterfly: “Un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo sull’estremo confine del mar”?

Il fil di fumo di riforme costituzionali? Non pare proprio.

Giovanni Cominelli