Migranti: il no della Tunisia al “misterioso” Piano Mattei
Che cos’è il Piano Mattei? Chiacchiere verrebbe da dire se consideriamo che alla sua prima messa alla prova sembra trattarsi di un grande fallimento. E sì che la Meloni, Tajani e tutta la diplomazia italiana ci si erano messi di buona lena ad avviare questo “misterioso” Piano proprio partendo da uno dei nostri paesi dirimpettai della sponda sud Mediterraneo che più ci interessa. Per i migranti e non solo. Visti i forti rapporti d’ogni genere che abbiamo da decenni con Tunisi. A partire dalle tante imprese italiane che lì si sono trasferite o hanno aperto loro succursali.
Che non la cantassimo giusta è stato evidente sin da subito. Già prima che si realizzasse il tanto declamato incontro di Tunisi dove volarono, con la nostra Meloni, anche Ursula von der Leyen e l’olandese Rutte. Vi sottoscrissero un Memorandum che nelle allora nostre speranzose attese era considerato come la panacea per fermare i migranti, ultimamente in movimento a frotte proprio dalle coste tunisine. Ma bastava leggere le dichiarazioni del Presidente tunisino Saied per capire che le cose sarebbero state molto più complicate di come ce le ammannivano i nostri servili telegiornali. Saied fu molto chiaro: “noi non siamo i poliziotti dell’Europa”. Semmai, in ogni caso, precisò, vogliamo i tre miliardi che abbiamo chiesto al Fondo monetario internazionale. Ma quest’ultimo non intende intervenire a favore della Tunisia fino a quando in quel paese non saranno avviate modifiche tali da garantire un profilo democratico alla vita pubblica e all’economia.
Abbiamo continuato a parlare di Piano Mattei indicando proprio in quel memorandum la sua pietra miliare. Più che al Piano Mattei, il quale non ha mai avuto in testa una cosa del genere, sembra di trovarci di fronte alla beffa del Trattato di Uccialli la cui equivoca traduzione ci portò nella prosecuzione delle scellerate e sanguinose guerre d’Abissinia a fine ‘800.
La verità è che Enrico Mattei aveva delle cose da offrire. Che non ha oggi l’Italia. A parte la retorica con cui si spacciano per fatte cose tutte al di là dal realizzarsi. Sostanzialmente, Mattei offriva una rapporto non colonialista e non certamente paragonabile allo sfruttamento delle risorse locali che ha sempre caratterizzato la presenza degli stati dell’Occidente e delle loro compagnie estrattive e commerciali . Non parlava solamente con i dittatori. Anzi, come nel caso dell’Algeria, lui che era stato importantissimo capo partigiano, non si preoccupava di mettere in crisi le cosiddette “Sette sorelle” del petrolio mondiale per offrire la coopartecipazione al 50% dell’oro nero estratto. Aveva, insomma, una visione del tutto diversa sul mondo che anela alla crescita e che, giustamente, non voleva, e non vuole a maggior ragione oggi, più sbrigare le “faccende sporche”, in tutti i sensi, che fanno comodo a noi occidentali.
Ai tempi di Mattei esisteva il problema per noi dell’emigrazione alla rovescia. Con migliaia e migliaia di nostri connazionali che ancora lasciavano il Paese, anche dal Veneto, dalle valli bresciane e del bergamasco e dalla Liguria, per andare a cercare un futuro al di là dell’Atlantico e nel resto d’Europa dove non mancavano i cartelli nei negozi che vietavano l’ingresso ai cani e agli italiani. E proprio per questo Mattei si prodigava per creare posti di lavoro in Italia, là dove sembrava possibile tirar fuori anche una sola goccia di petrolio o di metano.
Forse il Mattei dei giorni nostri si sarebbe presentato non per chiedere la creazione di lager per migranti, bensì per portare delle soluzioni, dei progetti, delle imprese che avrebbero fatto bene a noi e ai popoli di terre fino ad oggi solamente in larga parte sfruttate. E dove, per di più, c’interessa molto garantire la sopravvivenza di gruppi di potere, violenti e collaboratori delle vecchie e nuove forme di colonialismo.
Un ultimo quesito sul Piano Mattei non può non riguardare cosa stia facendo l’Italia in queste ore per la pulizia etnica in corso a danno degli armeni del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbagian con cui abbiamo accordi per importare, attraverso la Tap, il 10 per cento del nostro fabbisogno di gas, con la prospettiva di raddoppiare al più presto possibile.