Per una pace equa e duratura – di Stefano Zamagni

Per una pace equa e duratura – di Stefano Zamagni

1.Svolgo qui una breve riflessione sul mondo di oggi, percorso da venti di guerra, e sul tema specifico della pace. Prendo le mosse da due frasi che servono a definire i contorni del mio pensiero. La prima è nel Vangelo di Matteo e dice: “Beati i costruttori di pace”. E’ un’espressione densa di significato per tanti aspetti. Ma soprattutto ci ricorda che la pace è possibile ma deve essere costruita. Ogni giorno. La pace inoltre è un dono non una donazione. La seconda frase viene dalla Populorum progressio di Paolo VI e suona: “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Quando papa Montini, nel 1967, scrive questa enciclica siamo nel bel mezzo della guerra fredda. Cosa ha voluto significare Paolo VI? Che la pace ha un nome nuovo ed è lo sviluppo, lo sviluppo di tutti i popoli. Dobbiamo intenderci su che cosa significhi la parola sviluppo. Lo sviluppo è diverso dalla crescita. La crescita non è un attributo solo umano, anche animali o piante crescono. Lo sviluppo invece è caratteristica specifica dell’essere umano. Dalla lingua latina ne capiamo il significato, perché la s davanti a una parola svolge la stessa funzione della a privativa iniziale nella lingua greca. Sviluppo vuol dire togliere i viluppi. E i viluppi sono le catene, i lacci, che impediscono la dilatazione degli spazi di libertà delle persone. Il concetto di sviluppo è dunque legato a doppio filo al concetto di libertà o se preferite di liberazione. Tutto questo per dire che il messaggio importante è che se vogliamo la pace dobbiamo adoperarci per allargare gli spazi di libertà delle persone.  Non basta invocare la pace, per ottenerla.

Oggi nel mondo si combattono 169 guerre, anche se la nostra attenzione è tutta fissata sulla guerra in Ucraina, perché ci coinvolge da vicino. Ecco, a partire da queste due considerazioni sulla pace, la tesi che intendo sostenere è questa: con l’Ucraina ci troviamo di fronte alla prima guerra globale della storia. Secondo me non è corretto parlare di terza guerra mondiale, ma di guerra globale. La guerra si definisce globale quando gli effetti  della stessa gravano anche su Paesi innocenti che non hanno avuto alcun ruolo, né diretto né indiretto, nello scatenamento della guerra stessa e soprattutto quando la causa profonda della stessa non risiede unicamente nei paesi belligeranti.

Certo, i russi hanno invaso illegalmente l’Ucraina e ne sono gravemente responsabili, ma ciò consegue, in gran parte, alla rottura  di quell’equilibrio globale che per diversi decenni si era realizzato nel mondo dopo la Seconda Guerra mondiale. In estrema sintesi, si può dire: unilateralismo contro multilateraslismo. Continuiamo in Occidente a voler conservare il modello unilateralista. Dobbiamo dircelo francamente: chi continua su questa linea è un irresponsabile. Spero sia in buona fede, perché è una visione non più sostenibile. In altre parole, oggi il problema non è più quello dell’Est e dell’Ovest. Gli ultimi venticinque -trent’anni sono segnati dall’affermarsi del cosiddetto Global South, il Sud Globale. Agli inizi si parlava dei BRICS,  dalle iniziali di Brasile, India, Cina e Sud Africa. A questi cinque paesi si sono via via avvicinati altri importanti Stati come l’Arabia Saudita, il Qatar, l’Iran, l’Indonesia e altri ancora. Nel loro insieme, questo gruppo di paesi ospita il 40% della popolazione mondiale. Mentre gli Stati Uniti contano il quattro virgola uno percento della popolazione mondiale. Il Sud non può accettare un modello di politica internazionale ispirato al principio dell’unilateralismo.

La guerra in Ucraina è dunque effetto e causa ad un tempo della profonda trasformazione degli assetti geopolitici che ha avuto inizio negli anni Ottanta al seguito dell’avvio del processo di globalizzazione e della rivoluzione delle tecnologie del digitale. Aveva scritto, nel 2012, Z. Brzezinski, politologo e consigliere di Jimmy Carter: “Un’Ucraina isolata dall’Occidente e sempre più politicamente subordinata alla Russia incoraggerebbe la scelta sconsiderata della Russia a favore del suo passato imperiale”. (Strategic Vision, New York, 2012, p.150). Gli storici del futuro diranno (forse) se la sciagurata decisione di Putin di invadere l’Ucraina – (nel 2014 e poi nel 2022) è conseguenza dell’errore strategico di non aver incluso questo paese nel blocco occidentale, oppure se sia vero il contrario. E’ comunque un fatto, ormai da tutti percepito, che America e Asia, USA e Cina saranno protagoniste dei nuovi equilibri geopolitici che andranno a configurarsi al termine della disgraziata guerra in corso.

2.Quale sarà il lascito della guerra rispetto alle relazioni tra le due grandi potenze nessuno, al momento, è in grado di dire. Si possono solo formulare delle congetture. Quel che, in ogni caso, si può sostenere è che non solamente la Russia negli ultimi decenni ha attraversato una fase storica piuttosto travagliata – ne conosciamo le ragioni – anche la NATO si è venuta a trovare in una crisi severa. L’organizzazione nasce a Washington nell’aprile 1949 e per parecchi anni è stata la risposta efficace alla Unione Sovietica che non perdeva occasione per insediare regimi comunisti nei paesi conquistati durante la seconda guerra mondiale. È grazie alla NATO se paesi come Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia poterono ritornare alla democrazia. Ma con l’avvento di Gorbaciov e il ritorno della Russia alla forma democratica – sia pure in versione debole – la NATO aveva di fatto terminato la sua missione. Gli USA, però, non ritennero di poter rinunciare ad esercitare il ruolo guida dell’ordine mondiale fino a quel momento conservato.

Il quadro odierno è profondamente mutato. Con la nascita dell’UE e dopo la firma del Trattato di Maastricht (1992), i paesi dell’occidente europeo hanno cessato di aver bisogno dell’ombrello americano nelle forme che ben si conoscono, ma i noti effetti di isteresi, da un lato, e la debolezza di un pensiero politico europeo capace di tenere insieme questioni locali e questioni globali, dall’altro, hanno fatto credere che fosse ancora conveniente (e quindi opportuno) conservare il bipolarismo Est-Ovest, perché dall’equilibrio tra due poli di potere dominanti emerge naturalmente una certa stabilità, e le transazioni economiche e soprattutto finanziarie hanno bisogno di stabilità!

Il mondo di oggi, invece, sta diventando sempre più multipolare. Se dovesse continuare ad essere afflitto da una nuova rivalità tra Est e Ovest, i paesi del “Global South” rifiuterebbero di schierarsi. Si consideri che, nonostante l’atto di aggressione della Russia, oltre tre quarti dei paesi aderenti alle NU hanno scelto di rimanere in disparte, sperando di superare gli effetti nefasti del conflitto sulle forniture  alimentari ed energetiche. Si consideri anche che già due terzi dei paesi, oggi, commerciano più con la Cina che non con gli USA e che la Cina è diventata ormai il prestatore di prima istanza per questi paesi. Né si dimentichi che di recente è stata insediata a Shanghai la nuova “Asian Infrastructure Investment Bank” (AIIB), come alternativa alla Banca Mondiale. Sempre a Shanghai ha sede l’ “Organizzazione per la Cooperazione” (SCO), fondata da Cina e Russia nel 2001 e che comprende un numero ragguardevole di paesi, come Iran, Arabia Saudita, Qatar, Armenia, Cambogia, Pakistan, Mongolia, Sri Lanka e altri ancora. Pure la Turchia, membro dell’Alleanza Atlantica sta valutando una candidatura. La mal celata ambizione è quella di trasformarsi, nel breve periodo, in un’alleanza anti-NATO.

Ecco perché le persone sagge, oltre che intellettualmente oneste, devono adoperarsi per giungere alla comunanza etica (la koinotés di Aristotele) nella società del pluralismo. Oggi, tutti concordano nel ritenere che la politica internazionale debba poggiare su una qualche forma significativa di comunanza – se non si vuole che la politica scada in un mero modus vivendi privo di ogni visione del futuro. Ma dissentono sul modo di intenderla e di ricercarla. Ebbene, è questo il compito primario, oggi, che i “costruttori di pace” devono saper assolvere: come arrivare a qualcosa di comune nell’età del “pluralismo della prossimità”. Che significa? Che le diversità, ben lungi dall’appartenere a nazioni diverse e a gruppi distinti di persone, come è stato nel passato, ora sono vicine tra loro.

3.Alla luce di quanto sopra e con l’intento di muovere un passo nella direzione di far comprendere che è giunto il tempo di imparare a vivere l’uno accanto all’altro in un sistema globale ideologicamente diverso e politicamente pluralistico, sono dell’avviso che una proposta di pace, non solo giusta, ma anche equa, non possa prescindere dai cinque pilastri che qui indico. Non ho lo spazio per chiarire che giustizia ed equità non sono categorie sovrapponibili e che non necessariamente una pace giusta è pure equa (nel senso dell’epicheia aristotelica). Il che spiega perché tanti trattati di pace, ritenuti giusti, al momento della stipula, si rivelano poi non resilienti e quindi non sostenibili. (Non posso non far qui parola della nefasta influenza sulla cultura occidentale che, ancor oggi, viene esercitata dal pensiero del celebre giurista Hugo Grotius, che nel suo libro “De iure belli ac pacis” del 1625 sostiene che, in non poche occasioni, che la guerra è potenzialmente operatrice di giustizia, e ciò nella misura in cui essa è riparatrice di un diritto violato. Una posizione questa diametralmente opposta a quella di Francisco de Vitoria, di G. Vico e addirittura alla posizione del “pacifismo” del Leviatano di Hobbes, 1651, per il quale la guerra si sarebbe eliminata tramite un contratto sociale che consegnasse tutto il potere a un Sovrano).

I cinque punti che seguono hanno il respiro del medio-lungo termine. Nella prospettiva del breve termine, altre sono le proposte che vanno avanzate e delle quali mi sono occupato in altra sede (Paradoxa, 2, 2022).

a. Porre termine al neo-colonialismo. Nonostante quel si tende a credere, se è vero che il colonialismo è ufficialmente morto, non v’è da pensare che pratiche di stampo coloniale non tendano a persistere ancor oggi. Penso, in particolare, al triste fenomeno del land grabbing (accaparramento della terra) che affligge soprattutto l’Africa sub-sahariana e l’America Latina. Va eliminato il “commercio triangolare” che oggi opera per mezzo delle “supply chains”. Occorre esigere dalle 70.000 multinazionali oggi presenti nel mondo che quando operano nei paesi dell’era coloniale applichino gli stessi standard sociali di quelli in atto nei propri paesi. E così via.

b. Riscrivere gli statuti di Organizzazioni Internazionali, quali il FMI, la Banca Mondiale, il WTO, l’OMS e altri. Le regole di funzionamento di tali organizzazioni vennero scritte nel 1944 a Bretton Woods, avendo a cuore il processo di sviluppo dei paesi occidentali. Da allora solo modificazioni marginali sono state apportate. Di qui la rivolta del Global South contro l’aumento endemico e sistemico delle disuguaglianze sociali e culturali.

c. La riforma delle Nazioni Unite. Va eliminato il diritto di veto riconosciuto ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e sostituito da una procedura di votazione come quella di Borda. Soprattutto occorre dare vita ad una Assemblea Parlamentare delle Nazioni Unite (“United Nations Parliamentary Assembly”) sul modello della proposta avanzata dalla ONG “Democracy Without Borders”. Le NU vennero create per preservare la pace, ma senza dotare tale importante organizzazione dei poteri necessari. (Si veda, per i dettagli, lo studio recente di B. Milanovic su Social Europe, Oct. 2022). Non basta preoccuparsi solo della sicurezza degli Stati; occorre arrivare alla sicurezza delle popolazioni.

d. Realizzare un nuovo modello di integrazione per i migranti che vada oltre le mere politiche di accoglienza. Sono oltre duecento milioni le persone che vivono, da disperati, la condizione del migrante. I due modelli finora applicati hanno fallito e pour cause. Si tratta del modello multiculturalista, di derivazione anglosassone, e del modello assimilazionista di matrice francese. È il modello del dialogo interculturale quello verso cui andare. Ecco perché è urgente dare vita ad una Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, sulla falsariga dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. (Forse che le persone sono meno rilevanti delle merci e dei servizi?)

e. Lanciare una campagna per giungere ad un “Global Green Deal”, come anticipazione di una “Constitution of the Earth”. Un patto tra umanità e natura che serva a definire una legislazione ambientale a livello globale e che dia alla Corte Internazionale di Giustizia la giurisdizione necessaria per punire i crimini di ecocidio. A tal fine è urgente mettere al bando i paradisi fiscali, che costituiscono, oggi, una delle più gravi “strutture di peccato”, nel senso di Giovanni Paolo II.

Sono consapevole delle difficoltà insite nell’attuazione di una proposta del genere. Ma non bisogna avere paura delle difficoltà, perché anche l’acqua del mare ha bisogno degli scogli per sollevarsi più in alto! Vi sono persone che studiano l’arte della guerra -come veniva chiamata nella Cina antica – per essere meglio preparati al combattimento. Ma sono molti di più quelli che si occupano di guerra per scoraggiarne e per impedirne lo scoppio. La pace non è un obiettivo irraggiungibile, dato che la guerra non è un dato di natura (come un terremoto o uno tsunami); ma è il frutto marcio di persone che la vogliono. E allora sviluppano ideologie che insegnano ad odiare: il vicino, il diverso, il povero, spargendo ovunque i semi di quella sottocultura dell’aporofobia dei cui effetti devastanti sono piene le cronache. Occorre allora resistere, con saggezza e tenacia, perché tali persone non abbiano l’ultima parola nella formazione dell’opinione pubblica e soprattutto non arrivino a occupare posizioni di potere politico. Come si sa, l’odio è il più coesivo dei sentimenti politici, perché, più di ogni altro sentimento, tiene assieme una moltitudine e ne fa una totalità obbediente. Ecco perché il populismo, di ogni colore e sotto ogni latitudine, va combattuto con ferma convinzione.

Stefano Zamagni

L’articolo è in via di pubblicazione su “Pluralia”