Il nuovo patto di stabilità: l’Italia alla prova – di Daniele Ciravegna

Il nuovo patto di stabilità: l’Italia alla prova – di Daniele Ciravegna

Prima o poi doveva succedere: che la Commissione Europea riprendesse in mano la questione della riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), erede del Trattato di Maastricht del 1992, strumento di coordinamento delle politiche fiscali a livello comunitario, istituito nel 1997, entrato in vigore il 1° gennaio 1999, con l’attivazione dell’Unione Economica e Monetaria, reso più stringente con il Six Pack e il Two Pack, entrambi del 2011, confluito nel Fiscal Compact del 2012 (ormai decaduto) e sospeso nel marzo 2020 affinché i singoli stati potessero affrontare con le mani più libere la difficile situazione economica e finanziaria generata dalla pandemia di COVID-19.

È ormai convenuto che la predetta sospensione del PSC terminerà alla fine del 2023 e la la vicinanza della sua riattivazione ha provocato un ampio dispiegamento di richieste di modificazione del Patto stesso, in quanto esso si è dimostrato fallimentare sia sul piano della stabilità finanziaria sia sul piano della crescita di gran parte dei paesi dell’UE, anche se, in mancanza di un possibile confronto controfattuale, non sarebbe lecito dire che il PSC sia stato la causa degli scarsi risultati macroeconomici avuti da quasi tutti paesi comunitari nel corso degli ultimi 25 anni.

Ad avviso di molti, la riforma del PSC non può ridursi ad aggiustamenti del valore dei parametri cui sono agganciati attualmente le azioni d’intervento della Commissione Europea e le penalizzazioni previste dal PSC. Voglio comunque ricordare l’infondatezza scientifica della coppia “rapporto deficit pubblico/prodotto interno lordo (PIL) che non superi il valore del 3 per cento” e il “rapporto debito pubblico/PIL che non superi il 60 per cento”. Infatti, la divisione del primo rapporto per il secondo dà come risultato il tasso di variazione del debito pubblico – qualora il deficit pubblico sia finanziato integralmente con nuovo indebitamento pubblico, che è gioco forza, dato il divieto assoluto che i deficit pubblici siano finanziati con creazione di nuova base monetaria. Se il debito pubblico risulta avere un tasso di crescita uguale a quello previsto per il PIL nominale, il rapporto fra debito pubblico e PIL nominale è ovviamente stabilizzato, e quindi il debito pubblico risulterebbe sostenibile (dal PIL).

Al momento della stipulazione del Trattato di Maastricht, era considerato realistico, per la media dei paesi europei, un tasso di crescita annuo del PIL nominale pari al 5 per cento, il che richiedeva – per la supposta sostenibilità del debito pubblico del paese rappresentativo della media dei paesi dell’UE – che anche il debito pubblico crescesse non più del 5 per cento e quindi un rapporto deficit/debito pubblici pari al 5 per cento. In effetti, 3/60 = 0,05, ma 5 per cento darebbero anche i rapporti 1/20, 6/120, 9/180; la soluzione ammette infiniti rapporti compatibili con il 5 per cento di crescita del PIL nominale!

L’errore di metodo che comunque sta alla base del PSC vigente è che si possa impostare un’azione di controllo e d’intervento applicando i predetti parametri in modo uguale a tutti i paesi, cioè un modello parametrico uguale per tutti i paesi e che non tenga perciò conto delle particolarità che ognuno di essi ha: un abito di uguale taglia per tutti, che si mostrerà incapace di vestire bene tutti, anziché un abito disegnato su misura, sulle caratteristiche peculiari di ogni paese.

In effetti, nella proposta presentata dalla Commissione Europea presentata al pubblico il 26 aprile scorso, l’approccio parametrico incentrato sui rapporti deficit/PIL e debito pubblico/PIL non scompare, ma viene corretto tenendo conto del livello di debito pubblico rispetto al PIL di ogni paese, distinguendo fra paesi con rapporti alti (oltre il 90 per cento, come Grecia, Italia, Portogallo, Belgio, Spagna, Francia), paesi con rapporti moderati (tra il 60 e il 90 per cento, come Austria, Irlanda, Germania, Finlandia), paesi con rapporti bassi (sotto il 60 per cento, come Paesi Bassi, Polonia, Svezia, Repubblica Ceca, Romania, Danimarca, Lussemburgo).

La Commissione Europea indicherà a ogni paese un percorso di aggiustamento fiscale, e quindi di riduzione del debito pubblico, riferito alla spesa netta primaria (spesa pubblica al netto delle entrate, degli interessi pagati sul debito pubblico e delle eventuali misure legate al ciclo economico; ad esempio, l’aumento della spesa pubblica per sussidi di disoccupazione o cassa integrazione guadagni dei lavoratori causata da contrazione ciclica delle attività produttive private). La Commissione Europea monitorerà anno dopo anno il percorso di riduzione del debito pubblico di ciascun paese; percorso di riduzione differente a seconda che il paese  appartenga al gruppo dei paesi con rapporti debito pubblico/PIL alti, moderati o bassi.

Per i paesi appartenenti al primo gruppo (come l’Italia), la graduale rimodulazione della spesa netta primaria dovrà essere fatta entro 4 anni e dovrà essere tale da permettere la riduzione del rapporto debito pubblico/PIL in un arco temporale di 10 anni. In questi 10 anni dovrà comunque essere rispettata, anno per anno, la soglia massima del 3 per cento del rapporto deficit pubblico/PIL. Se invece il paese ha un rapporto debito pubblico/PIL moderato, la graduale rimodulazione della spesa pubblica netta primaria potrà avvenire nell’arco di 7 anni (mantenendo comunque la soglia del 3 per cento del rapporto deficit/PIL e il percorso di riduzione del debito pubblico). Ancora meno stringenti le regole per i paesi meno indebitati, che potranno anche spendere di più, e ai quali si applicherà solo la soglia del 3 per cento nell’arco dei 10 anni.

In sintesi, siamo in presenza di una riscrittura che mantiene il peccato originale di un approccio tipicamente contabile, senza alcuna anima. Si potrebbe dire che ogni qual volta, a Bruxelles, compare la coppia 3 per cento e 60 per cento con riferimento ai due rapporti qui considerati, significa che opera un approccio contabile non etico! E dire che, anche nel nuovo progetto di modifica dello statuto del MES (Meccanismo europeo di stabilità), di cui tanto si parla in questi giorni, poiché il Governo italiano non intende approvarlo, la coppia di ferro compare nuovamente!

Ritornando al progetto di riforma del PSC, se la predetta rimodulazione ha un significato assai ristretto, compare invece una novità assai più significativa. Si terrà conto delle caratteristiche dei singoli paesi introducendo, nel processo di aggiustamento richiesto dalla Commissione Europea, il riferimento alle riforme e agli investimenti di cui ogni singolo paese necessita.

Questa innovazione può essere considerata come l’estensione al futuro dello spirito proprio del Programma Next Generation EU (NGEU), proposto dalla Commissione Europea nel maggio 2020, attivo dal 2021 e fondato – attraverso lo strumento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), proposto da ogni paese e approvato dalla Commissione Europea – sul principio della cooperazione fra Commissione Europea e ogni singolo paese. Non interventi per sanzionare i “discoli”, ma per individuare interventi condivisi che riguardino alcuni campi di rilevanza propria e comunitaria e per i quali il singolo paese può avere difficoltà ad agire da solo.

Si tratterebbe di un salto notevole di qualità nei rapporti tra i singolo paesi e la Commissione Europea, che richiede a monte la condivisione fra degli obiettivi finali  dei partner.

Possiamo cercare una risposta alla domanda implicita nel periodo precedente considerando il quadro degli obiettivi che la Commissione Europea ha mostrato di avere, non in un qualche documento programmatico, ma nel modo in cui ha operato nel corso degli anni del corrente decennio, specie nel periodo della Presidenza di Ursula von der Leyen.

Innanzitutto la scelta dell’agire in modo comunitario, in quanto Unione, seguendo la strategia di trasformare l’UE in un’economia intelligente (sviluppare un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione), sostenibile (promuovere un’economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva) e inclusiva (promuovere un’economia con un alto tasso di occupazione, che favorisca la coesione  sociale e territoriale).

Questo secondo pilastro della riforma di cui parliamo pone una forte enfasi sul contributo delle riforme e degli investimenti, così come ce l’ha il NGEU. Sulla base del percorso di aggiustamento condiviso con la Commissione Europea, i singoli stati dovranno presentare un piano (Fiscal-Structural Plan), almeno quadriennale, che includa appunto le riforme e gli investimenti che intende fare e soprattutto quelli che rispettano gli obiettivi dell’UE sopra riportati. Se queste riforme e investimenti influiscono positivamente sull’aggiustamento fiscale richiesto dalla Commissione Europea, quest’ultimo verrà alleggerito e/o il periodo di aggiustamento potrà passare (anche per i paesi altamente indebitati) da 4 anni fino a un massimo di 7 anni.

Questo secondo pilastro parrebbe aprire la via a una nuova versione di programma tipo NGEU, ma questo punto – come del resto anche il resto – è ancora ad uno stadio ipotetico da approfondire, che coinvolgerà il Consiglio Europeo, all’interno del quale, si sa, i comportamenti dei singoli stati dipenderanno dalla valutazione della propria convenienza piuttosto che della convenienza dell’intera comunità dei paesi, dell’Unione dei paesi.

Daniele Ciravegna