In onore del funzionario parlamentare – di Giuseppe Sacco

In onore del funzionario parlamentare – di Giuseppe Sacco

E’ un dato che va di per se stesso registrato positivamente, che uno o più funzionari del Senato abbiano avuto la capacità e il coraggio, francamente insolito con l’aria che tira attualmente non solo in Italia ma in tutta Europa,  di esprimere dati alla mano un parere che non è piaciuto ad una piuttosto assertiva  forza politica di governo. Anche se non è detto che ciò si applichi anche al partito più importante della coalizione, e alla premier che essa ha espresso. E da prendere in considerazione con tanto più favore ed attenzione tanto più in quanto si trattava di una valutazione dei costi che finirebbero per ricadere sullo Stato qualora alla questione dell’autonomia differenziata venisse data una risposta tanto faziosa ed antinazionale quanto quella che la Lega vorrebbe imporre.

Anche se il documento prodotto dagli uffici del Senato è stato rapidamente  (ma troppo tardi, dal punto di vista dell’effetto politico) messo da parte e addirittura derubricato ad  un’analisi puramente teorica,  i suoi autori – dei veri specialisti – non potevano non sapere che mettendo  onestamente nero su bianco il proprio parere tecnico  si esponevano ad una possibile ritorsione. Che è stata infatti ventilata da qualche organo di stampa.

Non sempre infatti i Servizi del Parlamento hanno dimostrato tanta indipendenza, tanta coerenza professionale e – non sembri eccessivo dirlo – tanto coraggio. Gli esempi non mancano. E non solo nelle malconce situazioni politico- istituzionali che hanno fatto seguito alla mai dimenticata Prima Repubblica. E’ del 1970, per esempio, la vicenda che costrinse il Parlamento a trattare la spinosa questione di quale avrebbe dovuto essere il capoluogo della Calabria; questione sorta nel momento in cui veniva infine tradotta in realtà la disposizione costituzionale, fortemente voluta alle sinistre, che prevedeva la creazione delle Regioni.

Un precedente significativo

Così come era avvenuto anche a Catanzaro e a Cosenza, l’opinione pubblica e le forze politiche di  Reggio Calabria si erano allora fortemente mobilitate perché toccassero alla  loro città l’onore e i benefici economici  – non trascurabili se si considera il grave sottosviluppo della Calabria – di tale scelta. Ma i reggini  non si limitarono ad agitare a sostegno della loro rivendicazione vecchi e nuovi  testi di geografia della scuola media. Dai loro ranghi nacque un movimento estremista che esprimeva il proprio indefettibile impegno per la causa al grido di “boia chi molla !”. Ed effettivamente, esso non si scioglierà neanche una volta definita la questione del capoluogo regionale, anzi acquisterà in seguito una più precisa connotazione “groppuscolare” e di estrema destra, giungendo a dare concreti segni di vita e peso elettorale ancora quarant’anni dopo.

Ovviamente, sulla questione del capoluogo, i “boia chi molla” non si arresero senza aver prima di aver speso tutta la loro forza e tentato tutte le strade; in particolare la strada nazionale.  Essi si rivolsero infatti al Parlamento impegnandolo a pronunciarsi sulla scelta della sede delle istituzioni della regione Calabria. Il Parlamento non gradì molto.  I suoi membri ebbero anzi netta la sensazione del rischio di impegolarsi in un nuovo giudizio di Paride, di provocare una feroce gelosia tra divinità femminili che finirono per affrontarsi by proxy in una celebre guerra. Guerra che – come è noto – infiniti addusse lutti agli Achei,  e ai concittadini nell’incauto arbitro la distruzione della loro città. Non sono forse i Calabresi, si chiesero probabilmente i parlamentari, parenti stretti degli antichi greci e dei loro litigiosi dei?

Per allontanarla dall’Aula, la piccola ma rognosa incombenza di scegliere tra le province calabresi, venne perciò scaricata sull’Ufficio Studi della Camera, che venne incaricato di preparare un rapporto sul tema. E che senza batter ciglio decise di affidare lo studio ad un consulente esterno, vero professionista della materia;  un docente universitario dotato delle opportune qualifiche qualifiche in materia di geografia economica e pianificazione territoriale. E questi, infatti,  in tempi sufficientemente brevi per soddisfare le pressioni politiche e le premure  degli esponenti delle province calabresi,  produsse un rapporto che, se lasciò tutti con l’amaro in bocca,  concesse però a ciascuna delle parti la soddisfazione di non aver permesso che un’altra la spuntasse.

La razionale collocazione – sanciva infatti lo studio –  di un centro amministrativo e di servizi funzionale alla distribuzione delle attività economiche e dei centri urbani nel territorio regionale non poteva essere che Lamezia Terme. Una cittadina, questa, che sorge in una rara zona pianeggiante posta pressocchè al baricentro del complesso territorio della Calabria, e gia costituiva un nodo ferroviario ed autostradale dove era appena stato costruito un nuovo aeroporto. Il tutto collocato a breve distanza da Catanzaro (ad est),  da Cosenza (a nord) e da Vibo Valentia e Gioia Tauro (a sud).  E che con percorsi non molto  più lunghi risultava collegata con Crotone (ad est), con Rossano e Castrovillari (a Nord) e con Reggio Calabria (a sud).

La trasformazione di Lamezia nel centro dell’amministrazione regionale,  che non avrebbe ovviamente  implicato la perdita del loro ruolo da parte dei tre capiluogo provinciali,  era finalizzata – nella logica del progetto – non solo a una razionale organizzazione territoriale del sistema dei servizi, ma anche a favorire una coalescenza delle varie piccole e diversificate zone economiche che sono caratteristiche del territorio calabrese, naturalmente frammentato in molte vallate. E ciò avrebbe potuto nel tempo garantire una condivisione di obiettivi, e forse anche forme di integrazione, dei relativi vari gruppi di interesse, oggi troppo piccoli per farsi sentire anche politicamente a livello nazionale, facendo acquistare loro maggior peso, e quindi capacità di attirare nuovi investimenti non solo pubblici ed infrastrutturali, ma anche di tipo privato ed a carattere produttivo.

La prudenza del Servizio Studi

Il riconoscimento qualitativo che lo studio prodotto dal consulente esterno ottenne, cosi  come lo ottennero le ipotesi e le possibili strategie di crescita per la regione da questo delineate, e che venne da tutte e tre le parti discusso come schema logico di sviluppi futuri non bastò,  tuttavia, a che esso venisse adottato come proprio dal Servizio studi della Camera,  che esitò ad assumersene la paternità e i rischi. Esso fu da tale servizio sempre presentato come il contributo di un esperto esterno, che per quanto autorevole da un punto di vista professionale, non poteva vantare un ruolo istituzionale sufficiente a far prevalere,  in una decisione che restava comunque politica, i principi della razionale pianificazione del territorio.

Prevalse infatti, come conclusione della vicenda, una logica spartitoria tra i diversi establishments politici locali. Cosicché – sgomberato il campo della candidatura di Cosenza, dove informalmente si decise che sarebbe stata creata, come poi avvenne, la nuova Università della Calabria – furono assegnati a Catanzaro gli uffici dell’amministrazione regionale e a Reggio Calabria la sede che Consiglio. Si applicò cioè una logica di inefficienza e di sprechi che ebbe buon gioco a superare il gran numero di obiezioni che vennero da più parti sollevate facendo valere nientemeno che l’esempio del Parlamento Europeo, che – per soddisfare un tipico capriccio dei Francesi – si riunisce a Strasburgo mentre la sostanza del lavoro viene svolta a Bruxelles,  costringendo così parlamentari e funzionari ad un dispersivo e costosissimo pendolarismo.

Ancora oggi, il caso della Calabria costituisce un esempio di quanto danno abbia allora fatto la rinuncia del Servizio studi della Camera ad assumere in pieno le proprie responsabilità e a svolgere il proprio ruolo istituzionale. E di converso mostra quanto sia indispensabile affrontare i problemi del territorio e la loro gestione nella logica e con gli strumenti della scienza e della tecnica contemporanea, e superare la logica del pateracchio  tra piccoli interessi locali.  I quali, comunque, erano allora, anche dalla regione più povera della Repubblica, infinitamente più nobili degli squallidi interessi e della vergognosa vocazione alla rapina che sono l’anima del tentativo leghista di dar vita ad una cosiddetta “autonomia differenziata”.

E questa una differenza che salta immediatamente agli occhi, specie in un momento in cui i così tanto e tanto a lungo vantati amministratori dell’Emilia-Romagna che, pur fingendosi “di sinistra” tanto volgarmente si battono per i privilegi che loro verrebbero dall’autonomia differenziata, non esitano a chiedere la carità a tutti gli Italiani.

Ma soprattutto una differenza che pone in tutta la luce che merita il comportamento di quei sinora oscuri servitori dello Stato e delle sue istituzioni cui deve andare il plauso della Nazione, per aver messo nero su bianco gli aspetti negativi e distruttivi  della brama dei cosiddetti leghisti a trasformare in realtà la loro risibile presunzione, il loro miserevole provincialismo, il loro servile ed austriacante guardare al di là delle Alpi.

Giuseppe Sacco