Il mondo globale e Mario – di Giuseppe Sacco

Il mondo globale e Mario – di Giuseppe Sacco

Che appartenesse alla generazione digitale, era indubbio. Mario aveva infatti solo 14 anni quando i personal computers che usavano il sistema Windows, ed i Macintosh della Apple si affermarono tra gli adolescenti come universale strumento di gioco, di studio, di scoperta sessuale, e persino di esplorazione del mondo in cui erano destinati a vivere. Un mondo che sembrava dover essere caratterizzato dalla “morte della distanza – come scrisse a quel tempo l’Economist (un settimanale “globale” se mai ve ne furono) e di omogeneizzazione culturale, tanto da rendere “piatto” il mondo intero. E ne aveva 15, di anni, quando nel 1987 venne lanciato il programma Erasmus, che consentì ad un gran numero di giovani europei di sgusciar via dall’ambito familiare, per andare a studiare in università situate in paesi diversi da quello in cui il destino li aveva fatti nascere.

Non c’era dubbio insomma che Mario non fosse figlio di un’epoca assai diversa da quelle che la avevano immediatamente preceduta. Parte di una generazione tanto diversa, e per certi versi più fortunata, da creare una vera rottura rispetto a quelli che erano già conteggiati come young adults negli anni in cui il ventesimo secolo agonizzava, portando via con tutte le sue passioni, le sue ideologie, le sue ribellioni. E come tanti giovani italiani suoi coetanei, Mario era stato anche politicamente marchiato a fuoco dai primi anni duemila, in cui apparvero evidenti i risultati di tutto quel che nei decenni precedenti si era fatto, sotto il profilo della educazione e della propaganda, per cercare di far credere ad una patria europea, e comunque per sprovincializzare, e anche per denazionalizzare, un’intera generazione.

Fu così che Mario non andò a laurearsi in una qualche università italiana. (E nei decenni precedenti, quando la parola d’ordine non era ancora la globalità, ma il localismo, la regione, la sussidiarietà, ne erano state create a dozzine, in ogni sperduta provincia). Al contrario, partito dalla natia Pescara, ottenne l’equivalente di quello che in Italia si chiamerebbe pomposamente una laurea magistrale all’università di Dublino, per poi proseguire i suoi studi in Inghilterra. Da dove mosse anche i primi passi di una carriera universitaria, che poco più che trentenne lo portò a Parigi, assieme una moglie irlandese graziosa, timida e piuttosto intellettuale. E ad un bambino, Giovanni, che d’Italiano ne parlava veramente assai poco. E di Francese ancora meno

L’europeo del tempo globale

Erano insomma, lui e la sua piccola famiglia, fatti su misura per i tempi in cui maturava e stava per esplodere l’era globale.  L’idea di tornare a vivere e lavorare in Italia gli era infatti non solo estranea, ma sembrava apparirgli – nei rari casi in cui qualcun altro la evocava – come un’ipotesi sorprendente, da trattare usando il periodo ipotetico del terzo tipo, quello della irrealtà; comunque una infattibile e sciocca irrazionalità. E venendo da Mario, questo atteggiamento non poteva che avere credibilità, dato che proprio dei fenomeni migratori egli aveva fatto il centro dei suoi interessi, e a questi dedicava la propria attività, in un Centro di ricerche sociopolitiche collegato al celebre Institut d’Etudes Politiquesdi Parigi, familiarmente detto “Sciences-po”.

Ben trent’anni mi separavano da lui, eppure – me ne accorsi sin dalle prime volte che lo incontrai – mi parlava, e si comportava con me, come s’io fossi un globalizzato tale e quale a lui e a quelli della sua generazione. E in  ciò era probabilmente influenzato dal fatto che molti,  nel giro lezioso e molto franco-francese di Sciences-po,  sembravano considerarmi – se non un caso di genio e sregolatezza, perché a un certo punto avevo rifiutato una posizione stabile in quello che era, ai loro occhi, il centro dell’universo intellettuale – un caso estremo di cittadino del mondo, o addirittura una specie di inquieto dromomane, dal cui CV  saltavano fuori, o venivano per una ragione o per l’altra almeno nominati, una sessantina di paesi diversi,  dall’Afghanistan a Santo Domingo, dalla Svezia all’Indonesia, e da Taiwan alla Jugoslavia.

Paesi, per di più, mai visitati per ragioni turistiche, ma dapprima con borse di studio, poi per ricerca, insegnamento o consulenze; insomma per motivi legati al lavoro che mi ero scelto: quello dell’esploratore. Perché (e cercavo di spiegarlo a chiunque fosse disposto ad ascoltarmi) l’esplorazione non è – come molti erroneamente credono – andare alla ricerca di nuove terre, della sorgente dei fiumi, o di passaggi marittimi tra i ghiacci polari. Questa è la ricognizione. L’esplorazione– invece – è ricerca delle società e delle culture, delle credenze, e delle aspirazioni, dei miti e della storia, della saggezza e dei sogni di donne e di uomini con cui condividiamo il pianeta, ma che nel profondo restano diversi da noi.

Mario, da buon sociologo, capiva perfettamente questa differenza, e ed anche natura della mia inquietudine. Ed infatti una volta che apertamente mi parlò di quanto fosse per lui bruciante e continuo il desiderio di allargare senza sosta il suo panorama della società umana, e quindi indispensabile e vitale il bisogno di potersi muovere liberamente da un paese all’altro, lo fece con un tono di complicità che quasi sembrava fossimo due carbonari.

E non sbagliava interlocutore, Mario. Nessuno poteva capire come me il suo bisogno di poter conoscere ogni parte del pianeta, o quasi. Nessuno. Tanto più che io avevo avuto la ventura – o forse la sventura – di vivere i miei vent’anni in un tempo per lui probabilmente difficile da immaginare, in cui chi amava la libertà di esplorare il mondo, era destinato a soffrire.

Una necessità vitale

Non c’era solo la primitività e il costo dei mezzi di trasporto, prima che questi letteralmente crollassero alla fine del secolo. Ad ostacolarlo c’erano tutte le impalcature giuridiche sopravvissute per circa mezzo secolo agli anni del nazionalismo sfrenato e dello spaventoso conflitto che ne era conseguito, tutta la durezza e tutto il sospetto verso lo straniero dovuti alla Guerra Fredda e alla psicosi delle spie. Era un’epoca soffocante in cui, per viaggiare all’estero, per ottenere un passaporto dotato di piccole finestre temporali di validità, si era costretti, negoziando con l’Ufficio Studenti del distretto militare, a ritagliarsi qualche mese di rinvio del servizio di leva; un obbligo che pendeva come una eterna minaccia sulla testa di ogni giovane maschio nato nella Penisola. E fu perciò che gli risposi, forse pensando più ai miei che ai suoi sentimenti: “insomma, per te il passaporto è di importanza vitale!”

Non mi aspettavo, perciò, la reazione che ebbe. Ogni luce di amicizia scomparve dai suoi occhi. Anzi, mi guardò come se avessi tentato di tirargli una coltellata. “ll passaporto ?! “disse: anzi, gridò, o quasi. E siccome dovetti sembragli stupito, fece una faccia serissima e sibilò “il passaporto è un abuso…!” Poi, con tono meno gridato, ma non meno duro, aggiunse: “Che diritto ha il governo italiano di impedirmi di viaggiare? Come si arroga il potere di darmi il permesso di andare dove voglio io?”. E infine, dopo qualche secondo di pausa “Come osano i governi, tutti i governi, tracciare questa diabolica rete di confini per imprigionare i popoli?”.

Mario non era un anarchico. Io lo conoscevo bene. E mi era chiaro come facesse solo parte di una generazione diversa dalla mia: la generazione della globalizzazione. Quel suo scatto fece però che, d’improvviso, ebbi una sensazione sino ad allora sconosciuta: la sensazione che i trent’anni che ci separavano si fossero aperti come un crepaccio, come una voragine, tra me e lui. Presi d’un tratto tutta la misura di quanto limitate fossero state, rispetto a quelle che a lui apparivano elementari ed essenziali, le mie libertà in una fase decisiva della mia giovinezza. Ebbi la sensazione di essere stato un cagnolino che aveva potuto passeggiare solo nel ristretto ambito consentito dal guinzaglio che aveva portato al collo, e vedeva ora un uccello librarsi libero in volo.  Quasi mi vergognai, e rimasi amareggiato e pensoso per tutto il resto della giornata.

Non feci, ovviamente parte a lui di questi miei sentimenti. Trovai il modo di cambiare discorso ed evitare da allora in poi di tornare sull’argomento, anche nelle ripetute volte in cui successivamente ci incontrammo in quegli anni di vita a Parigi. Molte volte, perché sulle fangose rive della Senna, dove io mi ero rimescolato e mi ero conosciuto, Mario si era installato, con moglie e figlio, in maniera che sembrava, se non  definitiva o quasi, certamente stabile. E che effettivamente lo rimase per molti anni, almeno finché la sua piccola famigliola non si trovò a fare esperienza di quello che rimane il cuore stesso dell’essere francese, del sistema educativo d’oltralpe.

Giovanni, il figlio di Mario, era un bambino vivace e di buon carattere, ma non molto studioso; e che per questo motivo fin dai primi giorni trascorsi in una scuola del sixième arrondissement  si era trovato in difficoltà. Anche i suoi tentativi di comunicare con una maestra che si ostinava a parlagli in un francese rapido e serrato, suscitavano spesso l’ilarità dei suoi compagni di scuola.  E qualche volta – come Mario credette di poter dedurre dai reticenti, confusi e frammentari racconti del piccolo – un atteggiamento di ostilità, se non addirittura di disprezzo.

L’educazione alla disciplina

Da buon genitore corretto e collaborativo, Mario tentò ovviamente di convincere questa istitutrice ad un comportamento diverso e più comprensivo, ma senza molto successo. Almeno a giudicare dallo stato di irritazione e scoraggiamento in cui lo trovai, incontrandolo casualmente subito dopo uno di questi colloqui.

Più tardi, ripetutamente, mi accorsi che le difficoltà incontrate da suo figlio a farsi accettare nell’ambiente scolastico erano, alla lunga, diventate per Mario un tarlo che lo rodeva senza sosta.  Un tarlo che divenne veramente difficile da sopportare quando – mi raccontò visibilmente scosso – il suo piccolo era stato punito per aver fatto ancora una volta ridere tutta la classe con il suo difficoltoso francese, e per aver poi detto, nel tentativo di giustificarsi, qualcosa che la maestra aveva interpretato come scortese nei suoi confronti.

E la punizione era stata aspra quanto, almeno agli occhi di Mario, sorprendentemente vessatoria. Quella di dover stare seduto da solo su un seggiolone posto accanto alla lavagna con in testa un foglio strappato da un suo quaderno, e ripiegato in modo a simulare le orecchie di un asino. Mario, giustamente, aveva trovato la punizione inammissibile.

Così non pareva però fosse agli occhi delle autorità scolastiche, cui egli subito si rivolse. Si era trattato di una punizione severa, certo, e forse un po’ sproporzionata, ma legittima, ed in definitiva, benefica ai fini del mantenimento della disciplina nella classe, e dell’educazione dello stesso piccolo Italiano alla disciplina. La maestra non era insomma andata oltre un limite comunemente accettato.

Ma ciò non convinse Mario e la sua giovane moglie irlandese. Divenne, anzi, un problema per la famiglia. Anche perché Giovanni, dopo di allora, incominciò a dimostrarsi riluttante ad andare a scuola. E se convinto o forzato, lo faceva malvolentieri. Tanto che, quando si arrivò alla fine dell’anno scolastico, Mario dovette prendere una decisone.

Non so se prese in considerazione l’ipotesi di cambiare scuola, di mandarlo in una scuola privata. né se ciò fosse possibile, o troppo costoso.  Evidentemente il problema lo tormentava abbastanza seriamente da spingerlo a tenerlo principalmente per sé, anche un amico piuttosto intimo, come aveva sempre dato prova di considerarmi.

Non più un gabbiano

La soluzione mi fu nota solo qualche mese più tardi, quando mi disse come se fosse un evento di poca importanza, che lui e la sua famiglia lasciavano il loro appartamento di Parigi per trasferirsi a Ventimiglia. E che da allora in poi Giovanni sarebbe andato a scuola in Italia. Evidentemente era stato forse riconosciuto che – contrariamente a quanto era stato insegnato alla sua generazione – in definitiva esistevano in Europa delle aree culturali, in cui le diversità erano – e sono tuttora – non solo linguistiche e nel modo di porsi dello Stato rispetto ai cittadini, ma molto più profonde, relative persino alle prassi pedagogiche e in definitiva al rapporto tra adulti e bambini, tra maestri e scolari, tra genitori e figli.

Non per questo, tuttavia, Mario venne meno alle sue abitudini globalizzanti, né alla sua convinzione della crescente irrilevanza delle frontiere politiche. La famiglia si trasferì infatti immediatamente al di là della frontiera, senza che per questo egli abbandonasse il proprio posto nella prestigiosa università parigina. Riuscì ad organizzare il suo corso su quattro giorni lavorativi consecutivi, e divenne un “frontaliero”, un pendolare dei treni ad alta velocità.

Ora Mario era forse era ancora più trans-frontiera di prima, vivendo e lavorando in due paesi diversi, e a farlo grazie a dei treni Super moderni, anch’essi diventati un simbolo del mondo caratterizzato dalla “morte della distanza”.

Ma era evidente che qualcosa si era rotto nella sua visione del mondo, che il carattere sconfinato dei suoi orizzonti sì si era in qualche modo ridotto, che il pianeta in cui egli viveva era diventato meno “piatto”, e reso più complesso da profili di monti e skylines di costruzioni umane. Il suo passaporto, poi, era diventato un po’ più simile al mio, uno strumento per più facilmente passare da un paesaggio culturale ad un altro, altrettanto affascinante anche se diverso. E non gli appariva più come una brutale imposizione, come un uno strumento di controllo, in definitiva come un ingiusto ostacolo al suo desiderio di essere, alla pari di un gabbiano, in perpetuo volo.

Giuseppe Sacco