La partecipazione dei lavoratori fa bene anche all’impresa

La partecipazione dei lavoratori fa bene anche all’impresa

Avvenire di ieri (CLICCA QUI)  ha pubblicato un articolo sul tema della co-partecipazione dei lavoratori così come previsto dall’art.46 della Costituzione, peraltro mai applicato.

Il tema costituisce uno dei punti della Petizione sul Lavoro presentata da INSIEME (CLICCA QUI) a proposito del quale è scritto:

La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa

14. Dobbiamo muoverci verso il modello partecipativo . È necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione, in toto o compartecipata, per sentirsi attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori e, quindi, anche nei risultati economici dell’impresa stessa.

Le possibilità di sviluppo di ogni lavoratore, e i risultati complessivi del lavoro, sono tanto migliori quanto più ha modo di esprimersi l’intelligenza di chi lavora, quanto più è apprezzata e stimolata (e non, invece, osteggiata) la sua intraprendenza, quanto più ampia è la libertà di partecipare al conseguimento di obiettivi condivisi.

Di seguito il testo dell’articolo di Stefano Zamagni su Avvenire

 

Quali ragioni, di natura sia economica sia politica, parlano a favore della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa? Si legge all’art. 46 della nostra Carta Costituzionale: «… La Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Un chiarimento del concetto di partecipazione entro l’impresa è opportuno. La partecipazione assume un significato e una portata diversa a seconda che si ragioni entro l’orizzonte hobbesiano (il riferimento è al Leviatano di T. Hobbes del 1651) oppure entro l’orizzonte rinascimentale.

Nel primo caso, la partecipazione non si spinge oltre all’informazione e alla consultazione dei lavoratori – e tutt’al più alla parziale condivisione agli utili di impresa ( profit sharing). Nel secondo caso, invece, la partecipazione arriva fino alla gestione dell’impresa – come appunto intende l’art. 46. Perché questa differenza? La ragione è che per la seconda concezione il lavoro, prima ancora che un diritto, è un bisogno umano fondamentale. È il bisogno – come già Aristotele aveva insistito – che ogni individuo avverte di trasformare, in qualche misura, la realtà di cui è parte e quindi di edificare se stesso. Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per l’ovvia ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. Sappiamo anche che non sempre i bisogni possono essere espressi nella forma di diritti politici o sociali. Bisogni come quelli di fraternità, dignità, senso di appartenenza non possono essere rivendicati sul piano giuridico. È dunque il bisogno di lavorare a dare fondamento, non solo giuridico ma anche etico, al diritto al lavoro, che diversamente risulterebbe un diritto infondato e pertanto passibile di venire calpestato – come ben si sa.

Quali dunque le ragioni di cui ho scritto sopra? Ne indico due. La prima è di principio. Se è vero, come è vero, che capitale e lavoro sono entrambi fattori essenziali e dunque complementari per la produzione, non v’è argomento al mondo che porti a sostenere che le scelte strategiche nelle materie sia dell’organizzazione del lavoro sia del modello di business debbano essere assegnate esclusivamente a chi rappresenta gli interessi del capitale. È evidente che si debba discutere dei modi e delle forme in cui tale partecipazione possa avvenire – modi e forme che dovranno tenere conto sia delle specificità dei settori produttivi, sia delle circostanze ambientali, sia ancora delle caratteristiche soggettive delle persone coinvolte. D’altro canto, l’unico modo per giungere a legittimare l’esclusione dei lavoratori dalla gestione dell’impresa sarebbe quello di affermare, apertis verbis, che il lavoro è una merce, sia pure particolare, e pertanto che l’attività lavorativa può essere scorporata dalla persona che la pone in essere, proprio come avviene con l’oggetto posseduto da un individuo che viene da esso separato. Come scrisse Francesco Santoro Passarelli nel 1948: «Se tutti gli altri contratti riguardano l’avere delle parti coinvolte, il contratto di lavoro riguarda ancora l’avere per l’imprenditore, ma per il lavoratore riguarda l’essere, il bene che è condizione di ogni altro bene».

( Per proseguire la lettura CLICCA QUI)

Stefano Zamagni