La difesa della razza … ne abbiamo già sentito parlare

La difesa della razza … ne abbiamo già sentito parlare

Il 19 aprile del 1937 venne emanata la prima di quelle che sono state definite le leggi razziali del regime fascista. Era dedicata a vietare i matrimoni misti e il concubinaggio con le donne africane. Il regio decreto – legge anticipò la ben più famosa disposizione che ufficializzava la categoria di cittadini di “serie b” per gli ebrei. Il passo fu breve e, comunque, espressione di una logica razzista che era propria del pensiero fascista.

Questo filone del fascismo trovò una voce esplicita ne “La difesa della razza”, il periodico fondato da Teresio Interlandi e direttamente controllata dal Ministero della cultura di Mussolini. Il segretario di redazione del periodico fu Giorgio Almirante. Al giornale fu data una sede prestigiosa: Palazzo Wedekind che, poi, fu a lungo quella del quotidiano Il Tempo di cui ancora campeggia la scritta in Piazza Colonna.

Non si trattava dunque di un qualcosa fatto per accontentare il sempre più alleato nazista, bensì di una scelta piena e consapevole.

Non è male ricordarci della nascita de “La Difesa della razza” oggi che sentiamo parlare di “sostituzione etnica” con una leggerezza che fa riflettere. A piccoli passi si può tornare a far parte di un circolo di cui si dice di voler prendere le distanze.

Comunque la si giri, la lingua batte dove il dente duole e, per quanto, cerchi di darsi un tono ed un’ immagine decente, alla fin fine – che si tratti di uno scivolone o piuttosto di una studiata provocazione – la vera natura della destra non si trattiene e tracima, in un modo o nell’altro, l’ ossessione identitaria che la divora. Lo scivolone ci sta se appena si considera la pochezza di certa classe politica di cui la destra abbonda, anche ad alti livelli di responsabilità  istituzionale.

Eppure, non è affatto da escludere che si voglia tastare il polso, saggiare la reazione popolare a fronte di affermazioni pericolose ed indecenti, accompagnate da pretestuose motivazioni che vorrebbero renderle suadenti e somministrate, per ora, a dosi omeopatiche, sperando che molti ci si facciano il palato. Come se si volesse accennare, un piccolo passo dopo l’altro, ad una sorta di pedagogia “nazionale”.

Si ricorre all’ etnia per seminare distacco e diffidenza, poi si coltiva ostilità ed, infine, si raccoglie odio. Nel contesto in cui la pone il Ministro Lollobrigida – per quanto probabilmente non se ne accorga – il termina “etnia”, lo si voglia o meno, si carica, perlomeno, di una ambiguità intollerabile.

Storicamente, certe parole sono talmente compromesse che, una volta sdoganate, attecchiscono come una gramigna inestirpabile, capace di penetrare l’animo anche di cittadini ineccepibili.