La guerra e le elezioni italiane – di Giuseppe Sacco

La guerra e le elezioni italiane – di Giuseppe Sacco

Sino a poco tempo fa, approssimativamente sino a metà Settembre, le campagne elettorali dei partiti in corsa per le elezioni politiche del 25 /09/ 2022 si sono svolte come se la guerra tra Russia e Ucraina quasi non ci fosse.  O meglio, fosse ormai diventata una guerra di posizione tra un corpo di spedizione russo che, anche per insufficienza numerica, era riuscito a conquistare solo il 20 per cento del territorio ucraino, ed un governo, quello di Kiev, che era riuscito a mobilitare a suo favore l’America e i suoi alleati europei. Ci si comportava come se si trattasse di un conflitto ormai “congelato”, nel quadro di una situazione mondiale assai peculiare, in cui una difficile uscita dalla globalizzazione, che richiederebbe tempo, si scontra con i ritmi rapidi imposti al deliberato ritorno verso la situazione di Guerra Fredda che aveva prevalso fino agli anni ’80.

Da qualche giorno, invece, questo atteggiamento “distratto” dei media, e di conseguenza dell’opinione pubblica italiana nei confronti degli eventi bellici sembra essere diventato più difficile da mantenere, anche perché sta diventando chiaro che nella “controffensiva ucraina” il ruolo principale è in realtà svolto dai servizi di ricognizione e di informazione americani. Lo ha fieramente sottolineato lo stesso Presidente dell’Ucraina. «Senza l’aiuto degli Stati Uniti, non saremmo stati in grado di riconquistare questi territori » ha infatti detto Zelensky l’8 settembre, durante la ennesima visita del Segretario di Stato americano Antony Blinken à Kiev.

L’umiliazione sul campo che i Russi stanno subendo è molto seria, ed è aggravata del clamore che essa ha suscitato. Clamore che è stato ancor più accresciuto della conseguente decisione di moltissimi governi, quello tedesco in testa, che sinora erano stati assai prudenti nei confronti di Mosca, di correre “in soccorso del vincitore”. O meglio, di tentare di vieppiù ingraziarsi Washington accarezzando Zelensky, che al momento è chiaramente il favorito degli Americani.

Questa accresciuta visibilità della guerra in Europa, in coincidenza temporale con una fase di rialzo generale dei prezzi e di prospettive economiche molto dure, sta facendo sì che, a torto o a ragione, i due fatti vengano collegati nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica, e che finiscano per incidere sulle scelte elettorali. Mettendo così i partiti, soprattutto in questi ultimi giorni di una campagna elettorale in cui il numero degli indecisi (su chi votare) e dei dubbiosi (se andare a votare) è altissimo, nella necessità di prendere posizione sui grandi temi internazionali.

Essere accettati

Piuttosto singolare– almeno a prima vista – appare quindi la somiglianza tra le posizioni delle due principali forze politiche che si contendono il successo elettorale. Anziché presentarsi con posizioni, se non contrapposte, almeno differenziate, tanto il Partito Democratico che Fratelli d’Italia hanno sin dal primo giorno della guerra mostrato un aperto sostegno all’Ucraina, paese aggredito, ed espresso una nettissima condanna della Russia, paese aggressore, e soprattutto del suo Presidente. Ed hanno fatto sfoggio di un atlantismo preconfezionato e a prova di bomba, tanto da essere talora poco credibile.

Soprattutto, i due partiti attorno ai quali si sono formate le due coalizioni in lizza appaiono insensibili al “valore elettorale” di quella non molto grande, ma crescente, fascia del corpo elettorale che non sembra aver del tutto condiviso il netto posizionamento del Governo Draghi a sostegno di Kiev. E ciò pur rigettando le motivazioni avanzate da Mosca per giustificare la sua maldestra invasione dell’Ucraina.

Questa disattenzione nei confronti dei molti “indecisi” e “dubbiosi” da parte di entrambe le due formazioni politiche che esplicitamente si candidano a guidare il Paese dopo il 25 Settembre, non è difficile da spiegare, se si fa caso alla necessità dell’Italia post-Draghi di essere “accettata” senza esitazioni o sospetti nel quadro del cosiddetto “Occidente collettivo”.

Se è infatti comprensibile che Fratelli d’Italia abbia qualche problema a farsi riconoscere come un partito “fondato solo dieci anni fa”, e completamente vergine di ogni ascendenza, più sorprendente è che anche il PD soffra dell’essere formato dagli eredi, e in parte anche del personale, di due partiti dal grande ma talora ingombrante passato, che avevano avuto un ruolo cruciale nella Guerra Fredda. Eppure, è probabilmente per questo che Meloni e Letta, quando si pronunciano sui temi della politica estera, sembrano chiaramente rivolgersi soprattutto ai referenti internazionali. Quei referenti che da un lato garantiscono per loro nei confronti degli Italiani, ma ai quali si deve dall’altro lato garantire l’allineamento dell’Italia nel nuovo contesto di parziale de-globalizzazione, e di ripresa delle rivalità militari.

Il loro sbandierare a destra e a manca le loro posizioni atlantiste e di fedeltà a Bruxelles costituisce insomma il segno e la conseguenza del loro essere consapevoli del fatto che l’Italia, come tutti i paesi europei, nell’attuale fase di ritorno alla Guerra Fredda dispone solo di un limitato margine di manovra. Apparire saldi sulla linea atlantica è perciò importantissimo, specie per quel che riguarda la Meloni, che non senza motivo pensa di essere continuamente sotto la minaccia che qualcuno evochi per la sua origine “fascista”.

Sedurre con le “mezze ali”

All’interno di entrambe le parti che si contendono la vittoria in queste elezioni (impropriamente dette di “centro-destra e di centro-sinistra, perché in questa consultazione elettorale il “centro” sembra voler veramente fare parte per se stesso), esistono però anche altre forze, che potremmo definire “le mezze ali” di ciascuno schieramento. Si tratta ovviamente della Lega di Salvini per quel che riguarda il fronte delle destre, e dei Cinque Stelle di Giuseppe Conte nel piuttosto disorganizzato – sotto il profilo delle candidature – schieramento di sinistra. L’una e gli altri appaiono più problematiche di quanto non siano il partito di Letta e quello della Meloni, nella loro posizione sulla guerra e sui rischi che essa comporta. Ed anche un po’ in costate evoluzione sotto la spinta dei continui mutamenti del quadro internazionale,

Questi movimenti non hanno grandi responsabilità di posizionamento internazionale. Anzi rischiano, sotto questo profilo di essere più un “liability” che un “asset”, di fare più danno che beneficio alla componente leader del loro schieramento. Sono però indispensabili per far ottenere la maggioranza ad uno o all’altro dei fronti contendenti. I loro voti, non ostante la legge elettorale tenda a sfavorire le forze minori, peseranno alla fine più o meno lo stesso di quelli dei due partiti leader ai fini della conquista del potere. E possono però essere molto utili per sedurre quegli elettori i cui voti esitano a confluire sull’atlantismo e sull’europeismo senza sfumature dei partiti principali.

Nelle posizioni e nei programmi politici delle “mezze ali”, si nota infatti un frequente ricorrere di temi autarchici, più che sovranisti. Temi – il protezionismo e il sovranismo – che sono in realtà tra loro assai diversi, come è mostrato dal fatto che il paese più sovranista d’Europa, la Svizzera, è però il meno autarchico dal punto di vista economico. Ma temi che hanno presa elettorale, perché il libero commercio non è mai stato molto popolare, specie tra quel che resta degli industriali italiani, come è logico in un paese che assai di rado è stato tecnologicamente all’avanguardia.

Le “mezze ali” possono insomma più agevolmente, o se si preferisce più demagogicamente dedicarsi a sedurre l’elettorato indeciso (se andare a votare) o dubbioso (su chi votare), ed in particolare quella parte dell’opinione pubblica i cui tradizionali sentimenti hanno fatto sempre considerare gli Italiani un popolo “filorusso”. E che forse lo rimane ancora, anche se si tratta in gran parte di una simpatia motivata da ragioni ideologiche oggi scomparse, una simpatia risalente ad un’epoca diversa, quando Mosca era il punto di riferimento di gran parte del “socialismo” mondiale, e non la capitale della Federazione Russa. Un paese molto più piccolo della ormai dissolta Unione Sovietica, a carattere nazionale, e politicamente piuttosto patriottico, il cui Presidente dice cose come “Dio vuole che l’Ucraina sia ricongiunta alla Russia”. E sembra a volte crederci davvero.

Tendenti come sono a seguire l’orientamento dell’opinione pubblica nei suoi mutamenti –  mutamenti che sono emersi pur nel corso di una campagna elettorale estremamente breve e raffazzonata come quella del 2022 – le “mezze ali” dei due schieramenti possono insomma essere molto utili ai partiti, per così dire, “più serii” che guidano la destra e la sinistra.

 La libertà delle mezze ali nel cercare voti d’opinione fa si che esse non siano costrette soprattutto, e magari solo, allo “endorsement” dei poteri forti della nuova Guerra Fredda. Esse perciò rincorrono i dubbi dell’opinione pubblica sulla crisi ucraina, dubbi sempre più diffusi man mano che si profila una umiliazione della Russia; e dubbi sempre crescenti, come e più del rischio di una escalation del conflitto verso le armi nucleari.

La demagogia della Lega

Del valore che esse hanno per i “partiti leader” delle rispettive coalizioni, le mezze ali sono del tutto consapevoli; e non esitano a trarne profitto. Tale valore è però proporzionale al grado di strutturazione – soprattutto elettorale –  di ciascuno schieramento: strutturazione che il centro-destra è riuscita a realizzare in maniera nettamente più vantaggiosa di quanto abbia saputo fare Letta per la cosiddetta “sinistra”.

In questo quadro, la Lega, cioè la mezz’ala del centro destra, si è trovata in una posizione particolare, che ha bisogno di sfruttare per non essere soffocato dell’ondata di voto di protesta e di rabbia impotente che oggi si dirige verso la Meloni, come quattro anni fa si rovesciò sui Cinque Stelle. Salvini perciò si affida sempre di più alla sua istintiva capacità di percepire quali siano i temi di cui si parlerà domani, e ancor più per che cosa si sarà preoccupati o insoddisfatti. E su quei temi prende posizioni e avanza proposte che gli consentano di ottenere consensi, anche se si tratta di proposte non necessariamente realizzabili, né finalizzate ad un preciso disegno politico.

Salvini ha perciò più prosaicamente messo in atto un evidente tentativo di accaparrarsi il sostegno ed il voto di quelli – e sono molti, imprese e soprattutto famiglie – che rischiano di non poter far fronte all’aumento dei prezzi, in particolare a quello dell’energia. E sono costretti a rinunciare, nella loro scelta elettorale, non solo a qualsiasi posizione politica o addirittura ideale, ma persino a qualsiasi esigenza di non appesantire ulteriormente il deficit del bilancio pubblico.

A causa dei suoi precedenti legami con Russia Unita, e all’ondata di insinuazioni con cui è stata bombardata, la Lega si è però trovata in difficoltà su un altro fronte in evoluzione. Non ha potuto infatti giocare troppo a fondo la carta di attirare il voto di quegli elettori, che senza essere “amici di Putin”, cominciano a trovare convincenti le assai diffuse critiche alle sanzioni, le quali più che danneggiare la Russia metterebbero in crisi le economie europee. Per attrarre cioè quegli elettori che cominciano a chiedere un rapido passaggio dalla guerra guerreggiata ad un negoziato per la pace, o almeno ad una tregua.

La linea di Conte

Sull’altro fronte, il fronte del centro-sinistra, che dal punto di vista elettorale è molto peggio organizzato di come non sia il centro-destra, Giuseppe Conte tende perciò ancor più chiaramente a convogliare sulle liste dei Cinque Stelle, dove in posizione favorevole sono candidati alcuni suoi “fedelissimi”, i voti di coloro che dubitano della razionalità delle sanzioni. E reclama apertamente anche la sospensione del sostegno militare italiano all’Ucraina, adducendo però ragioni solo economiche, e non di dissenso con gli alleati occidentali.

Su questo terreno, il nuovo leader dei Cinque Stelle, che si è liberato dell’ineffabile Di Maio, e che beneficia di un certo distacco di Beppe Grillo dalla vita quotidiana del movimento, è dunque imperativo distinguersi da Salvini, col cui sostegno ha però capeggiato il governo nella prima fase della legislatura. E a tal fine – sul piano personale – egli può ricordare che l’alleanza che portò alla nascita del governo di coalizione tra Cinque Stelle e Lega non è in alcun modo a lui imputabile.

Quella fu una scelta politica di Beppe Grillo e dei suoi “consigliori” romani, patetici e tremendi al tempo stesso. Fu soprattutto una scelta per una coalizione “alla pari”, che aveva due Vice-Presidenti del Consiglio, Salvini e Di Maio. E solo a cose fatte Conte venne chiamato a fare da premier, come personaggio del tutto ignoto, sino ad allora politicamente non attivo. E quindi considerato – a torto, si capirà dopo – politicamente manovrabile ed irrilevante.

Conte può, per di più, far valere di non aver praticamente partecipato quasi per niente neanche al dibattito sulla fiducia sul suo primo governo, perché scaraventato, immediatamente dopo il giuramento, a Charlevoix, in Canada, per un vertice del G7, cui egli disse subito avrebbe preferito che anche la Russia fosse presente. E in quella occasione– come scrisse l’AGI – “fa la voce grossa con l’Unione Europea sugli immigrati, … e sul nodo delle sanzioni alla Russia non esclude di porre il veto, quando si tratterà di confermarle”. Dichiarazioni che sarebbero già piaciute a quella crescente fascia di elettori di cui egli tenta oggi di prendere i voti.

Analoga fu del resto la linea che egli tenne nel suo discorso di insediamento, quando, nel “ribadire la convinta appartenenza del nostro Paese all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato”, aveva aggiunto che “saremo fautori di una apertura alla Russia, che ha consolidato negli ultimi anni il suo ruolo internazionale in varie crisi geopolitiche. Ci faremo promotori di una revisione del sistema delle sanzioni, a partire da quelle che rischiano di mortificare la società civile russa”.

Posizioni, certo, assunte quattro anni fa, quando la situazione internazionale era assai meno tesa, ma che non possono essere considerate irrazionali da chi è preoccupato per le conseguenze dell’attuale clima di ritorno agli anni’50, in un momento in cui la Russia ha già fatto sapere che un intervento ancora più scoperto delle forze armate americane a fianco dei nazionalisti ucraini potrebbe essere considerato alla stregua di una vera e propria dichiarazione di guerra.

Giuseppe Sacco