La scelta di Putin – di Domenico Galbiati

La scelta di Putin – di Domenico Galbiati

E’ lecito e saggio sperare che Putin si fermi? Conosce il linguaggio della pace oppure soltanto quello della violenza e della guerra indiscriminata che avanza solo facendo terra bruciata? Secondo il duo franco-tedesco, Macron e Scholz, avrebbe mostrato quell’apertura che ha negato a Draghi e c’è da sperare che sia vero. A meno che giochi al gatto e al topo e finga di ammorbidire la sua posizione per favorire, nel mondo occidentale, coloro che vorrebbero lasciare l’Ucraina in balìa del suo destino. E cosi guadagnare tempo e spazio.

Neppure è da escludere che si possa interpretare gli interventi del Presidente francese e del Cancelliere tedesco come quel po’ di smagliatura del quadro atlantico che, assecondata e favorita, nella prospettiva di un possibile allargamento di tale fessura, potrebbe essere cantata, perfino più dell’occupazione del Donbass, come il segno della sua vittoria. Del resto, se appena potesse non dico disarticolare il rapporto tra Europa e Stati Uniti, ma almeno metterci seriamente un cuneo, altro che autonomo protagonismo europeo… Potrebbe servire in tavola l’Europa cucinata a puntino ai cinesi e quant’altro.

Si può, dunque, far conto che possa sedersi ad un tavolo della “pace”, se come tale intendiamo non un semplice “cessate il fuoco”, e neppure un provvisorio e precario accordo regionale, ma piuttosto il raggiungimento di un reale e solido equilibrio che, nel rispetto del diritto internazionale, escluda la “belligeranza”? Pur in un contesto in cui vi siano tensioni, rivalità e conflitti che sono, di fatto, ineliminabili, purché siano regolati secondo modalità e criteri che, in ogni caso, escludano il ricorso alle armi? A meno che ci accontentiamo – come pare suggerisca Letta – di una pace sia pure “non giusta”, senza scordare che questa altro non sarebbe se non il presupposto di un grappolo di altri conflitti, destinati a succedersi nel tempo, come tanti fuochi d’artificio. Anche la linea ferma del segretario del PD comincia a subire il logoramento dei mal di pancia interni ad un partito che, peraltro, grandi prove di coesione non ha mai dato? Al massacro dell’Ucraina si sommano i danni collaterali che Putin persegue con fredda e cinica determinazione, anche contro i paesi più poveri che dipendono dal grano ucraino per la sopravvivenza alimentare.

Siamo di fronte alla “guerra di Putin”, lo sviluppo cieco, rabbioso, impermeabile ad ogni spiraglio di umanità di un pensiero contorto, patologico, alimentato dai fantasmi di una lettura mitologica della storia della grande Russia. E probabilmente dalle nostalgie “sovietiche” di un personaggio che, fin da giovane, ha assorbito lo spirito del “comunismo realizzato” e, da uomo del KGB, ha sofferto il rovinoso crollo dell’ URSS come una ferita personale che l’ha investito nel profondo.

I dittatori tanto più sono pericolosi quanto più, contro ogni apparenza, quasi sempre non hanno piena contezza di sé.
Sono, ad un tempo, attori e vittime di un circuito perverso di emozioni, di sentimenti – spesso legati a rielaborazioni inconsce di frustrazioni affettive – che da loro si riverberano sulle masse e da queste rimbalzano, a ritroso, su di loro.
Si entra in un gioco di specchi che, senza fine, rimandano ad un’attrazione fatale tra l’”uomo forte” e la massa.
Un gioco che li imprigiona l’uno nell’altro, in un vincolo inestricabile che, non a caso, spesso non può risolversi se non in una sorta di reciproco “cupio dissolvi”. La violenza è una droga. Crea assuefazione e dipendenza. E sempre si accompagna, fa tutt’uno, con la menzogna che funziona come una sorta di anestetico morale che la rende tollerabile a coloro stessi che la promuovono, perché neppure loro, infine, la sopporterebbero se, in qualche modo, non la mascherassero.

E’ difficile, dunque – e Draghi l’ ha colto molto chiaramente nei colloqui telefonici – essere fiduciosi circa la capacità di Putin di voler porre fine alla guerra. A meno che, nel suo immaginario, concepisca non la pace, ma un “cessate il fuoco” che possa interpretare come una pausa funzionale ad un nuovo assalto, sia pure procrastinato nel tempo e magari su un altro teatro di guerra. Come, peraltro, in più occasioni ha fatto fin qui, prima di aggredire l’Ucraina.

Nella carriera di ogni dittatore c’è sempre un Rubicone, un punto al di là del quale non c’è ritorno e Putin ha superato da tempo questo confine. Un dittatore , anche quando mostra la sua presunta onnipotenza, non è mai un uomo libero. Potrebbe, perfino, soccombere in una battaglia, ma non, mai, perdere la faccia. Perderebbe sé stesso o meglio la maschera che si è posto in volto e di cui è diventato schiavo.

Domenico Galbiati