Partiti e giornali che non vogliono Draghi al Quirinale – di Giancarlo Infante

Partiti e giornali che non vogliono Draghi al Quirinale – di Giancarlo Infante

Con una coincidenza che non può non essere registrata, per quanto probabilmente non deliberatamente voluta, Il Corriere della Sera e La Stampa, appartenenti a gruppi imprenditoriali diversi, sono usciti ieri con due editoriali che sembrano confermare un “no” di taluni ambienti alla possibilità che Mario Draghi salga al Quirinale, in aggiunta a quello continuamente ribadito dai  principali partiti. Le firme non sono di due giornalisti qualsiasi, visto che si tratta di Ferruccio De Bortoli sul Corriere e del Direttore del quotidiano Fiat-torinese, Massimo Giannini. Non possono essere definiti la “voce del padrone”, ma è certo che non sono loro del tutto sconosciute le reali intenzioni dei propri editori.

De Bortoli constata come “dal momento in cui è emersa l’autorevole candidatura del premier alla presidenza della Repubblica, l’esecutivo si sia indebolito e la maggioranza di fatto lacerata”. La critica di Giannini è persino più stringente in materia di pandemia sostenendo che gli ultimi due decreti legge anti-Covid varati in sequenza tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 hanno “stupito e confuso e in qualche caso irritato l’opinione pubblica”. Il direttore del giornale direttamente legato da sempre alla famiglia Agnelli sembra andare addirittura oltre e rinfacciare a Draghi quelle mancanza di chiarezza e distrazioni cui ha fatto riferimento il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso di Capodanno. La conclusione: “sono tante le risposte che ci aspettiamo da Draghi. Vorremmo capire perché, proprio nel momento in cui il virus riprende forza e Omicrom si diffonde, la politica lanci segnali così contraddittori”.

De Bortoli è preoccupato del Pnrr: “Salvate il Pnrr! Salvatelo dalla ricerca del consenso per le elezioni del 2023. E per farlo occorre che nel 2022 ci sia un governo il più possibile forte, autorevole, e non un esecutivo di passaggio (una volta si sarebbe detto balneare) in grado solo di portare ordinatamente l’Italia al voto”.

Ovviamente, quelli che sembrano dei veri e propri aut aut sono indorati con le solite considerazioni sul prestigio internazionale di cui gode il nostro Capo del Governo. Al punto che, secondo Giannini, con Draghi a Palazzo Chigi potremmo sperare di veder speso almeno il 60% dei 39 miliardi a fondo perduto previsti per l’Italia con il Next Generation Eu, destinato altrimenti, con un altro a Palazzo Chigi, a ridursi della metà, non andando oltre il 30%. Per questo, Giannini richiama esplicitamente l’attuale Presidente del Consiglio al “dovere della coerenza e della chiarezza”.

Le attese riposte in Draghi, allora, appaiono ridimensionate rispetto a quelle di un anno fa quando s’insediò a Palazzo Chigi sulle ali dell’attesa di un cambiamento complessivo del sistema di guida del Paese. Diverse anche a confronto con quelle che, quegli stessi organi d’informazione, affidarono a Mario Monti a fine 2011. Del quale non venne solo sostenuto il controverso tentativo di mettere i conti in ordine all’insegna del grido “lo vuole l’Europa”, ma pure, con le successive elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2013,  l’ambizioso progetto di dare vita ad una formazione politica organizzata di centro destinata ad avere ben altre ripercussioni sul sistema politico nazionale. Insomma, Draghi deve restare a Palazzo Chigi esclusivamente per gestire il Paese per ciò che riguarda l’economia e spendere, a questo fine, tutto il prestigio da lui guadagnato in campo internazionale.

Eppure, la chiamata di Draghi a Palazzo Chigi venne giustamente valutata come una possibile risposta alla decomposizione di un intero sistema dimostratosi incapace ad autoriformarsi. I rischi furono, però, immediatamente  evidenti. Non a caso, già nel febbraio dello scorso anno, mentre ancora si formava il nuovo esecutivo, parlammo subito della necessità di preoccuparci di “salvare il soldato Draghi” (CLICCA QUI). Salvarlo da chi, se non da un sistema bloccato in cui era stato inserito da Sergio Mattarella nella speranza che fosse possibile trovare, invece, il modo per avviarne la rigenerazione?

La decisione su chi dovrà salire al Quirinale, e ciò vale per tutti gli eventuali possibili candidati, dovrebbe rispondere a un quesito di fondo: qual è la soluzione migliore per il Paese affinché s’incammini sulla via di un cambio di paradigma istituzionale, politico, persino culturale ed antropologico, visto che un riformismo di natura esclusivamente economicista non è servito finora a molto?

Per fare questo è necessario smettere di rifugiarsi nell’idea che ci si possa affidare a dei “salvatori della Patria”. Nessuno da solo, neppure la riproposizione della coppia Mattarella – Draghi, per molti versi più che auspicabile, sarebbero in grado di cambiare alcunché se della rigenerazione non se ne fanno carico tutti i partiti, o una buona maggioranza di loro, trovando il convinto sostegno e la partecipazione da parte dell’intera classe dirigente del Paese. Anche da parte dei grandi giornali nazionali e dagli interessi che vi stanno dietro.

A ben guardare, dunque, l’appuntamento del 24 gennaio, quando si riuniranno le Camere in seduta congiunta per le elezioni del nuovo Capo dello Stato, costituirà l’ennesima occasione per misurare le reali intenzioni e le capacità dei partiti di guardare all’insieme delle questioni che stanno diventando sempre più stringenti per l’Italia e per gli italiani. Se non daranno questo segnale sarà inevitabile chiedere loro il riconoscimento di un definitivo fallimento e la necessità, quindi, di voltare pagina introducendo un sistema elettorale in grado di restituire alla società civile la voce di cui è stata privata a mano a mano che questa Seconda Repubblica si è ritrovata sempre più svuotata di sostanza democratica.

Giancarlo Infante