“Reddito di cittadinanza” o “reddito d’inclusione”? – di Daniele  Ciravegna

“Reddito di cittadinanza” o “reddito d’inclusione”? – di Daniele  Ciravegna

Negli ultimi mesi si è discusso molto di abolizione o di riforma del “reddito/pensione di cittadinanza” (istituito con D. L. 4/2019, attivato il 1° aprile 2019 e definito come “misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale”) e dell’opportunità o meno di reintrodurre il “reddito d’inclusione sociale” definito come “percorso di contrasto alla povertà di carattere universale, condizionata alla creazione di un progetto personalizzato di attivazione e d’inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà, predisposto sotto la regia dei servizi sociali del Comune” (istituito con D. Lgs.147/2017, attivato il 1° dicembre 2017 e sospeso, nella modalità di nuove erogazioni, a séguito dell’entrata in vigore del reddito/pensione di cittadinanza).

Sono entrambi (ma più il primo che il secondo) confusi nei loro obiettivi: contrasto alla povertà oppure azione d’inserimento sociale in séguito a un inserimento lavorativo?

La distinzione non è di lana caprina; riguarda la sostanziale differenza fra solidarietà passiva e solidarietà attiva, due declinazioni del principio di solidarietà, che ha il suo principio ispiratore nella fraternità: la solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili di tutti.

La solidarietà va intesa come il vincolo che unisce tutti coloro che appartengono a una comunità; un vincolo rivolto al bene comune della comunità; un vincolo che fa crescere, all’interno della comunità stessa, l’armonia del rapporto sociale. Ha il suo fondamento nel considerare ogni essere umano per quello che è, più che per quello che fa o che ha.

La solidarietà è il fondamento della concordia sociale, chiamata a favorire l’incontro fraterno e l’aiuto vicendevole, sia all’interno di ogni comunità, di qualsiasi dimensione, sia nelle relazioni internazionali. La solidarietà è lo strumento per arrivare alle periferie esistenziali dell’uomo.

Così dicendo, voglio mettere in evidenza che la solidarietà svolge una funzione sua propria per la realizzazione del bene comune; non già che essa sia semplicemente un correttivo da introdurre per attenuare, o per annullare, le disuguaglianze create dalle libertà del mercato e da attuare restringendo alcune di queste libertà e/o, meglio, introducendo processi di livellamento delle situazioni di entrata nel mercato. La solidarietà è sì un fatto di giustizia, ma non solo: è anche l’espressione di un amore verso il prossimo, anche se non è sufficiente, per esprimere solidarietà, voler bene; occorre anche fare bene.

La solidarietà non è una variabile indipendente che, operando, crea legame e coesione sociale, tiene insieme la comunità. La saldezza del legame sociale, la sua solidità è la fonte della stessa solidarietà. In ultima analisi, solido, solidale, solidità, solidarietà hanno la medesima radice semantica e la solidarietà dice la solidità della comunità, in quanto la prima produce la seconda e, a sua volta, la seconda è il fondamento della prima. La solidarietà è un rapporto che s’instaura fra tutti i membri della comunità, non solo ed esclusivamente con quelli che sono più deboli e bisognosi. La solidarietà può portare alla messa in comune dei beni, materiali e immateriali, fisici e spirituali, il che viene di fatto a beneficiare i più deboli e bisognosi, ma la solidarietà può essere esercitata anche altrimenti, poiché è un animus prima di essere un’azione; è una virtù civile che rende possibile a tutti la convivenza civile. Per di più – a differenza della giustizia, che persegue il fine di garantire a chicchessia il rispetto dei diritti personali e delle obbligazioni assunte, oltre il quale s’inaridisce – la solidarietà crea un habitat che dà spazio per lo sviluppo della speranza creativa.

La solidarietà dev’essere qualificata da un approccio di tipo sussidiaristico: sussidiarietà nella solidarietà. Ciò significa che, piuttosto che calare dall’alto (la solidarietà realizzata in uno Stato totalitario o il Welfare State degli stati liberali o la solidarietà della filantropia dei grandi capitani d’impresa), la solidarietà deve salire dal basso. Dev’essere qualificata da un approccio solidaristico di tipo attivo, per fare tutte le persone e tutti i popoli artefici del loro destino.

Occorre però distinguere ed essere assai precisi riguardo alle due tipologie che la solidarietà può assumere: la solidarietà attiva rispetto alla solidarietà passiva. Ricordando il vecchio adagio attribuito a Confucio – secondo il quale, “piuttosto che regalare un pesce a chi ne ha bisogno per sopravvivere, è meglio insegnargli a pescare” – la solidarietà passiva, l’elemosina, consiste nel regalare il pesce; la solidarietà attiva corrisponde a insegnare a pescare. Con uno slogan: laddove l’organizzazione filantropica, che eroga l’elemosina (solidarietà passiva), fa per gli altri, l’organizzazione di volontariato che operi con il modello della solidarietà attiva, fa con gli altri. Ciò che è significativo è che la solidarietà attiva è carità che racchiude in sé anche speranza: dall’amore che Dio ha per tutta l’umanità, discende lo spirito della fraternità, che opera attraverso la solidarietà che, quando si riveste di speranza, diventa solidarietà attiva.

Un’esemplificazione. Le Caritas, le Conferenze di San Vincenzo, gli enti del Terzo Settore che svolgono attività di solidarietà, quando distribuiscono pacchi alimentari, pagano bollette, erogano sussidi di vario genere, fanno azioni di solidarietà passiva. Quando si fanno carico delle persone, assistendole e camminando con loro nei momenti di depressione psichica o per il recupero da stati d’infermità fisica, impegnandosi per accompagnarli nell’attività d’istruzione o di formazione professionale o nella ricerca di un’occupazione, fanno azioni di solidarietà attiva.

In effetti, v’è bisogno di entrambi i tipi di solidarietà. La solidarietà passiva, però, quale intervento di urgenza: a una persona che sta morendo di fame non si può che regalare il pesce necessario per farla sopravvivere. Ma solo come primo intervento, ché – come ebbe a scrivere Pierre Laroque, uno dei padri dell’assistenza sociale francese – «l’assistenza avvilisce intellettualmente e moralmente, disabituando l’assistito allo sforzo, condannandolo a marcire nella miseria, impedendogli ogni speranza di elevazione nella scala sociale». In modo strutturato, c’è bisogno di un’azione sostanzialmente diversa dall’elemosina, dalla mera assistenza (anche se con queste ha alla base lo stesso insieme di valori); dev’essere solidarietà attiva. A differenza dell’elemosina, della mera assistenza – che sono statiche, perché di mera difesa, e non incidono sullo stato di debolezza: terminato l’intervento, tutto rimane come prima – la solidarietà è attiva se si attiva affinché nascano meccanismi e strutture che accompagnino le persone nel superamento delle loro difficoltà, del loro dramma esistenziale.

Si può ancora dire che, mentre la solidarietà passiva coinvolge il circuito della redistribuzione, la solidarietà attiva ha l’ambizione di toccare il circuito della produzione, per cui non è lo Stato benevolente o il capitalista compassionevole che operano a favore dei poveri, degli emarginati, degli esclusi; sono questi ultimi che vengono aiutati affinché possano uscire dalla loro situazione di debolezza. Con uno slogan: la solidarietà passiva è meramente lenitiva, mentre la solidarietà attiva è generativa. In quanto tale, la solidarietà attiva è quella che più appieno realizza il principio di fraternità genuina.

Il “reddito di cittadinanza”, nella versione pura (non nella versione ibrida contenuta nel D. L. 4/2019), non è sicuramente annoverabile come “politica attiva del lavoro”, poiché dovrebbe avere l’obiettivo di assicurare ad ogni cittadino/cittadina, ad ogni famiglia, un reddito minimo adeguato alle sue esigenze di vita, per cui, se il suo reddito (derivante dall’attività economica svolta) non arrivasse alla soglia minima prevista, si avrebbe diritto a un trasferimento di risorse pubbliche per l’entità della differenza fra quest’ultimo e il reddito ottenuto dalla propria attività di mercato o per altra via. Risponde quindi al principio di “libertà dal bisogno”, secondo il quale tutte le persone hanno il diritto di poter disporre di un livello minimo di reddito (proveniente da propria attività di produzione o da trasferimenti pubblici), indipendentemente dalle proprie esigenze, dai propri meriti, dalla propria condizione sociale.

Detto così, ciò significa una mera attività assistenziale (di solidarietà passiva), ma il principio di una società sana (cioè di sani valori) dovrebbe dare spazio a quest’azione, evitando però che essa diventi una regola che svilisce la dignità della persona. Così non fa la solidarietà attiva, la quale ha l’obiettivo che l’intervento umanitario non sia una mera erogazione assistenziale, bensì sia impiegato, di massima, come affiancamento a programmi d’inserimento o di reinserimento lavorativo stabile di livello consono alla qualificazione lavorativa del lavoratore e, se questa fosse carente, incorporando anche attività di qualificazione lavorativa. Quindi, non un “reddito di cittadinanza”, ma un “reddito d’inclusione sociale” o, meglio, un “reddito di partecipazione”, intendendo qui la “partecipazione” come l’apporto di un contributo sociale (cioè alla società) che ognuno dà e che, per quanti sono in età lavorativa, potrebbe essere soddisfatto da un lavoro contrattualizzato (dipendente o autonomo, a tempo pieno o parziale), da lavori di comunità, dal servizio civile, dall’istruzione, dalla formazione professionale, dalla ricerca attiva di occupazione, dalla cura domestica di persone non autosufficienti o dal volontariato regolare presso un’associazione riconosciuta; riconoscendo la “partecipazione” anche a coloro che non sono in grado di “partecipare”, stabilmente o contingentemente, per ragioni di disabilità o malattia; cumulando tutta la gamma delle attività in cui la persona è impegnata e riconoscendo il diritto a frazioni del reddito di partecipazione a chi ha, non per sua scelta, una partecipazione incompleta. Sarebbe quindi un reddito minimo, non garantito a tutti i cittadini, ma condizionato.

Perché il principio del reddito di partecipazione possa essere attuato è indispensabile che sia presente un corposo ed efficiente sistema di politiche attive del lavoro, le quali mirano a permettere a ogni persona un accesso rapido ed equiprobabile ai posti di lavoro vacanti, cercando di creare le condizioni affinché il diritto al lavoro di ogni persona venga reso possibile. Esse si caratterizzano per voler direttamente incidere sulla struttura del mercato del lavoro; favorire l’adeguamento delle caratteristiche di coloro che aspirano a un’occupazione alle esigenze della domanda di lavoro; creare possibilità occupazionali attraverso una diversa organizzazione del mercato del lavoro. Tutto ciò in Italia non è possibile fare perché manca un corposo ed efficiente servizio di centri per l’impiego, per cui il reddito d’inclusione sociale ex D. Lgs. 147/2017, di fatto, si era ridotto a una misura di contrasto alla povertà più che a una vera misura d’inclusione sociale attraverso la partecipazione delle persone alla comunità, nel senso predetto.

In pratica e in conclusione, il reddito di cittadinanza e il reddito d’inclusione attuati nel nostro paese assommano in sé (in misura relativa differente) i due obiettivi predetti: sono “reddito di cittadinanza”, ma anche “reddito di partecipazione” e ciò non va bene. I due obiettivi devono essere perseguiti, ma non fondendoli in un unico provvedimento. Occorrono due provvedimenti differenti per perseguire obiettivi differenti; ne va di mezzo e l’efficacia dell’azione e la possibilità di verificare, in modo robusto, l’impatto netto dell’azione stessa. Quest’ultimo dovrebbe essere fatto sempre in modo rigoroso, ma da noi si è ancora molto lontani dal farlo, e ciò costituisce un difetto capitale nell’operare della nostra Pubblica Amministrazione, perché è un difetto di tipo culturale. Quanto tempo si dedica alla verificazione d’impatto netto degli interventi (all’approvazione dei bilanci consuntivi di un ente pubblico) rispetto all’approvazione dei provvedimenti deliberativi (all’approvazione dei bilanci preventivi)?

Daniele Ciravegna