Il fattore umano – di Domenico Galbiati

Il fattore umano – di Domenico Galbiati

Un giorno usciremo dalla pandemia. Come ne usciremo? Migliori? Oppure così come ci siamo entrati? Tutt’al più  rabberciando qua e là certi comportamenti; riconoscendo l’urgenza di un più prudente equilibrio nel consumo delle risorse; limitando determinate attese di crescita e di sviluppo, nonché gli automatismi che ci illudevamo le potessero garantire; ammettendo, magari a denti stretti, se non altro l’”utilità’” di ridurre le diseguaglianze, ma, in definitiva, girandoci attorno, senza affondare il coltello nella piaga ?

Pensando che, alla fin fine, tutto si aggiusta e con un po’ di sano pragmatismo, basta lasciare un po’ di tempo al tempo, si torna sostanzialmente a “quo ante”? E’ questa la filosofia di fondo? Oppure ce n’è un altra? Su cosa investiamo? Dov’è la leva capace di risollevare il Paese dalla prostrazione della pandemia e, per la verità, dai vulnus che stavamo subendo, almeno dalla crisi del 2008, anche grazie ad un sistema politico che da troppo tempo si  gingillava nei suoi autoreferenziali giochi di potere, lontano da un contatto vero e consapevole con la realtà che gli italiani vivono tutti i giorni?

Bastano i miliardi riversati dalla cornucopia dell’Europa o ci vuole quel più di carattere, di determinazione, di fiducia e di coraggio, quella capacità di esporsi al rischio, pur ragionato, senza avventurismi, ma con la studiata  voglia di mettere alla prova anzitutto sé stessi, di cui gli italiani hanno dato dimostrazione nel dopoguerra, al momento di quello che potremmo chiamare il primo “grande ricominciamento” della vita del Paese dopo l’avvilimento e la vergogna  del ventennio fascista e della guerra? Non si tratta anche oggi – con tutte le dissomiglianze che, ben più delle similitudini, ci separano da allora – di cominciare ancora una volta ad uscire da una trincea fangosa per riguadagnare il campo aperto di una nuova stagione? Quanto ha contato allora e quanto conta oggi il “fattore umano”?

Anzitutto a livello dei gruppi dirigenti dei partiti e della politica che, per quanto fossero investiti dal furore della “guerra fredda” – l’Italia e per la sua prossimità alla cortina di ferro e per la presenza massiccia di forze popolari inquadrate nel dogma marxista, ne ha sofferto più di ogni altro paese del fronte occidentale – si riconoscevano reciprocamente il titolo di una vasta rappresentanza popolare. Del resto molti parlamentari dell’epoca avevano condiviso – e spesso rischiandovi la vita – la lotta di liberazione e questo collante di una forte, reciproca e personale affidabilità faceva la sua parte, se pure era investita dalla violenza della contrapposizione politica. 

Di tutto questo non è rimasto nulla. Anzi, viviamo nell’illusione che esistano modelli di “governance”, apparati organizzativi e gestionali, meglio ancora architetture istituzionali che, di per sé – si tratta solo di trovare quella giusta; in fondo una questione meramente tecnica – sarebbero in grado, per una sorta di automatica virtu’ intrinseca, strutturalmente garantita, di accompagnarci per mano fuori dalle difficoltà, senza che impegniamo  piu’ del dovuto la nostra personale responsabilità. Invece non è cosi.

Altri due versanti vanno considerati: la cultura del lavoro e la capacità di integrazione. Una delle ragioni del grande sviluppo – ad esempio, nelle aree più industrializzate della Lombardia – e del boom economico è sicuramente quella “cultura del lavoro” che lavoratori ed imprenditori condividevano nelle stesse forme, nella stessa misura e secondo lo stesso codice morale. Non a caso provenivano, per lo più, dal medesimo ceppo sociale, e spesso dalle prime comuni esperienze nell’ officina artigianale che condividevano.

Succedeva che il più bravo a maneggiare il tornio restasse lì e finisse per diventare il capo-officina che istruiva ed allevava i più giovani e l’altro, cercando di posizionare l’azienda sul mercato, studiando le nuove tecnologie e la concorrenza, via via si inventava e si scopriva imprenditore. Eppure, anche a decenni di distanza, quando i ruoli, gli stili di vita, le frequentazioni e gli ambienti della loro quotidianetà  si erano del tutto diversificati, continuavano a darsi  a darsi del “tu” ed a trattarsi con la stessa confidenza  – e lo stesso dialetto – di quand’erano ragazzi. Era ancora una volta il “fattore umano” a prevalere. I figli dei contadini che si trasferivano in fabbrica neanche lontanamente pensavano che lavorare per il “padrone” – anzi “sotto padrone”, come si diceva allora nel linguaggio corrente – consentisse di indulgere ad una minor fatica che non sudando sette camicie sull’appezzamento di terreno della famiglia.

E lì tornavano – a costo di bigiare la fabbrica – nei giorni di fuoco della mietitura, quel po’ che bastava a sollevare la fatica dei più anziani, senza mollare il lavoro agricolo che, in quella fase di transizione, da un mondo produttivo ad un altro, era quel di più che consentiva di costruire la villetta unifamiliare ed avviare i figli davvero ad un altra vita, che contemplava perfino che potessero studiare. Il datore di lavoro, purché fosse fatto con la necessaria prudenza, chiudeva un occhio: c’erano passati anche lui e la sua famiglia e sapeva bene che se non mietevi al momento giusto, poteva essere un guaio.

Era un’Italia fatta così: imparava a rispettare le regole del mercato, ma pur manteneva una certa visione solidale, ispirata alla coscienza di un impegno necessariamente comune. Erano gli anni della migrazione interna dal Sud alle fabbriche del Nord. E’ vero che c’era diffidenza nei confronti dei meridionali: anche episodi di discriminazione e di sfruttamento. Eppure, soprattutto, nei centri minori che favorivano il contatto personale e diretto, il distacco e la freddezza duravano poco. C’era da tirare il carro e non si andava per il sottile: chiunque si mettesse alla stanga andava bene. Era la stagione in cui gli imprenditori grandi, medi o piccoli che fossero sapevano osare e conquistavano mercati in ogni angolo del mondo.

Poi le cose sono cambiate; si è creato un altro clima; è prevalso un sentimento di prudenza, forse di timore, di difesa di quel po’ o di quel tanto fieno che si era messo in cascina. Diversamente dagli inizi, c’era qualcosa da perdere ed una, due generazioni si erano succedute alla prima. Senza la stessa smania di riscatto, lo stesso bruciante desiderio di uscire da una condizione marginale.

Non si tratta di descrivere un Paese idilliaco nei confronti di un Paese tormentato. Ci vorrebbe ben altra analisi per penetrare quel mondo e magari trarne alcuni  indirizzi che siano di qualche utilità anche ai nostri giorni. Le forze politiche – quelle di estrazione popolare, anzitutto, che fossero maggioranza oppure opposizione, ma le stesse espressioni di una destra liberale e tecnocratica – avevano sostenuto il protagonismo del lavoro italiano, esercitando anche una certa funzione pedagogica.

Senonché, non seppero leggere l’evoluzione che, fin dagli ultimi anni ’60, si andava imponendo sul piano delle dinamiche economico-produttive, e, soprattutto, sul piano del costume e dei nuovi criteri che ispiravano le attese, le possibili  scelte di vita delle giovani generazioni. Non hanno saputo affrontare né le criticità del sistema istituzionale né quelle dell’apparato economico produttivo.

La “politica” si è via via  affievolita fino a spegnersi del tutto e questa desertificazione è stata anche effetto, ma soprattutto causa di una corruzione che ha invaso e colonizzato territori che l’intelligenza politica degli eventi non era più in grado di presidiare e di vivificare. Nel Paese è venuta meno la speranza, la fiducia in una prospettiva, l’attesa di un traguardo che avesse senso, ad un tempo, per la vita propria e della collettività. E’ prevalso un sentimento di chiusura; l’istinto a coltivare, poco o tanto che fosse, l’orto di casa, piuttosto che correre nuove avventure.

Dalla prudenza, al timore, alla paura, poi alla rabbia di sentirsi inceppati in un sistema inerte che non rispondeva alle sollecitazioni più elementari e, da lì, la ricerca di un capro espiatorio che desse ragione dell’impasse che si soffriva. C’è stato chi, come la Lega – cui pure va riconosciuto di avere convogliato dentro e non contro le istituzioni la protesta di quegli anni – ha investito su questi sentimenti di smarrimento e di insicurezza dei ceti sociali che, più di altri, si sentivano esposti e spaesati nel quadro di un processo di sviluppo di cui non si padroneggiavano più le coordinate. Additare il “diverso” come il nemico astuto ed approfittatore è stato un gioco da ragazzi, che si è spinto fino a forme di disprezzo e di odio nei confronti degli stessi connazionali.

Oggi il “diverso” è il migrante, ma lo schema non cambia e la Lega non smentisce le sue radici; se mai ne dà una manifestazione anche più cruda. Oggi, francamente, dall’una e dall’altra parte, le forze in campo non sembrano in grado di svolgere nessun ruolo, diciamo pure, pedagogico. Almeno nel senso di incarnare e suggerire costumi e comportamenti che attestino, se non altro, la consapevolezza che nessuno – vale per le persone singolarmente e per i corpi sociali – può, oggi, bastare a sé stesso.

In quanto, al “fattore umano” è tuttora dirimente, in fondo al di là delle stesse risorse finanziarie. Si  tratta di non sprecarlo, anzi di svilupparne tutte le potenzialità. Lo si ritrova nelle giovani generazioni. Solo valorizzando la loro creatività, cioè il tratto peculiare della loro età, dall’infanzia, fino all’adolescenza ed all’età giovane-adulta è possibile entrare in una dimensione della vita civile che sappia farsi carico delle svolte epocali che, quasi a grappolo, incombono, fin d’ora, sul nostro domani.

Occorre una politica ad hoc, che espressamente, negli stessi capitoli di investimento del PNRR, individui aspetti specificamente diretti a sostenere le giovani generazioni, che, peraltro, lo meritano e sono complessivamente molto più impegnate, preparate e consapevoli di quanto comunemente si creda. Anche sul piano dell’impegno politico, va fatto un atto di fiducia nei loro confronti.

Domenico Galbiati