Inevitabile qualche riflessione sulle intercettazioni dei magistrati – di Enrico Seta

Inevitabile qualche riflessione sulle intercettazioni dei magistrati – di Enrico Seta

L’Italia è un paese preda – da molto tempo – di una faziosità politica spinta all’estremo.

Non invocherò qui i soliti guelfi e ghibellini né citerò qualche acuminata riflessione di Leopardi. Più modestamente – ma con più solidità – mi è sufficiente fare riferimento alla memoria personale, quella di chi è entrato nell’età della ragione in un ambiente saturo di ideologia, nel quale l’avversario politico era – prima di tutto – un individuo moralmente inferiore. Tranne poche eccezioni, anche intellettualmente inferiore (in questi pochi casi però ancora più minaccioso). Un ambiente saturo quindi anche di disprezzo, dispensato con facilità verso l’avversario, ma altrettanto verso gli “utili idioti” disposti a dialogare con lui e – addirittura – verso i “compagni di strada”, a volta titubanti, non abbastanza pronti a prendere la posizione giusta in battaglia. Prova del nove di un loro dissimulato deficit “morale”. Da cui il facile e rapido capovolgersi dell’ex alleato in nemico odiato ancor di più dell’avversario.

E’ inutile dire: è questo il retaggio della più formidabile presenza stalinista di tutto l’Occidente, che ha fatto seguito all’egemonia fascista, spesso con continuità di biografie, di posture politiche e retoriche e di ascendenze filosofiche. E’ inutile dire: questa storia non è mai stata sottoposta ad autocritica (se non di circostanza). Si è anzi esaltata (e si continua ad esaltare) nelle sacre memorie di una continuità, di un’eredità che inorgoglisce. E’ inutile dire che questo è il frutto dello status di minorità – in Italia – delle culture liberali e dell’anticomunismo democratico (termine da noi impronunciabile), tranne di quella cattolico-liberale che ha gloriosamente resistito a lungo, per poi capitolare anch’essa alle procure o agli abbagli della “questione morale”.

Perché questa lunga premessa? Per cercare di rispondere all’interrogativo che da anni mi pongo: perché certe evidenti violazioni dell’ordine costituzionale non vengono denunciate da coloro che si ritengono i figli di questa Costituzione?

E’ ovvio, mi sono sempre risposto: ci sono le ragioni della faziosità che sono di gran lunga più forti dell’amore per “la Costituzione più bella del mondo”.

In tema di violazioni della Costituzione che hanno visto protagonisti dei magistrati, ricordo, ad esempio, che di fronte all’incriminazione per “voto di scambio” rivolta – anni fa – contro un politico che prometteva in campagna elettorale di ridurre le tasse, i suoi avversari fecero spallucce: non videro in questo evento una minaccia alla democrazia, ma solo una minaccia al loro avversario.

E quindi oggi, di fronte ai comportamenti (privati, ma cionondimeno rivelatori di una mentalità antidemocratica) di certi magistrati che individuano nel (discutibilissimo) Salvini un target da colpire, la reazione della stampa sua avversaria esprime la miseria che è sotto gli occhi di tutti: silenzio, imbarazzo, minimizzazione.

Intendiamoci, mi riferisco sempre e solo ad “alcuni magistrati” e non certo ad un ordine che fra l’altro ha annoverato nei suoi ranghi Giovanni Falcone oggi giustamente pianto da un intero popolo.

Ma questa risposta – “la faziosità” – oggi non mi basta più. Lo spirito di parte italico è solo una mezza risposta. Veritiera ma incompleta.

Per argomentare la mia tesi farò riferimento ai dati offertimi anni fa da un (non lungo, ma denso) libro scritto da un famoso giudice costituzionale americano: Robert H. Bork. Il libro si chiama “Coercing Virtue” e uscì nel 2003. L’ho ripreso oggi per tornare a cercare una risposta alle mie domande.

E sono stato fortunato, credo. Questo libro – intelligente, ma anche documentato da ricchissimi riferimenti giurisprudenziali, finemente commentati – mi aiuta a guardare in modo più sereno a fenomeni da cui mi sento minacciato come libero cittadino. E quindi mi dona quel distacco necessario a non cadere nell’opposto spirito di fazione.

In primo luogo, questo libro mi fa capire che la straordinaria partigianeria di molti appartenenti all’ordine giudiziario non è deriva solo italiana. Moltissimi altri paesi registrano fenomeni analoghi: dagli USA, al Canada, a Israele, al Brasile, alla Spagna del magistrato d’assalto Garzòn, ecc. Ogni caso ha le proprie (interessantissime) implicazioni costituzionali. Infatti questi veri e propri abusi, essendo perpetrati da giuristi, cercano sempre la loro fondazione giuridica. Da noi – ad esempio – ebbe gran fortuna (e tuttora ce l’ha) la risibile dottrina dell’applicazione diretta della norma costituzionale che – secondo alcuni – consentirebbe di emancipare l’interprete giudice dal parametro della norma di legge.

Ma non è a questi (pur affascinanti) temi che voglio dedicare il poco spazio di un articolo.

Il problema più profondo è un altro: l’attivismo di molti giudici nasce dal loro sentirsi investiti di un ruolo salvifico che giustifica le inchieste prive di ogni distacco e imparzialità (“io a quello lo sfascio”), gli appelli al popolo, l’uso ipocrita oltre ogni limite della “obbligatorietà dell’azione penale” e – anche – le conversazioni private indecenti di cui ci hanno reso edotti di recente alcuni (pochi) giornali.

Questo attivismo e questo ruolo salvifico però – e qui sta tutta l’originalità del ragionamento di Bork – sono solo una delle tante manifestazioni di un fenomeno più grande: quella guerra culturale che il “virtuismo” delle élites del mondo occidentale (e prevalentemente anglosassone) hanno da tempo ingaggiato contro alcuni loro nemici giurati. Il primo di tali nemici è la religiosità popolare. Seguono a ruota la famiglia naturale e gli stili di vita più legati alla tradizione.

Una sorta di ingenuo ma fanatico neoilluminismo che si è dato come obiettivo quello di sradicare dalla società tutto ciò che viene frettolosamente etichettato come “conservatore”, in nome di nuovi diritti, tutti ignoti ai rispettivi costituenti. Nel libro di Bork sono documentatissimi – ad esempio – i tortuosi percorsi delle corti americane (ma analogamente accade in quelle israeliane o canadesi) per capovolgere l’interpretazione tradizionale di alcune fondamentali norme costituzionali e farne strumento di divieto anche di manifestazioni radicate e innocue quali l’inaugurazione di un anno accademico (in un’università privata) con la prolusione di un cappellano o – all’inverso – di protezione del diritto di inscenare – prima di una partita di baseball – una danza in nudo.

In questi – e in tanti altri casi ben illustrati – il giudice sembra essersi autoinvestito di un ruolo inaudito: la creazione di una nuova religione, un “umanesimo secolare” che non può tollerare la convivenza in un contesto “purificato” e modernizzato di nessun’altra presenza religiosa nello spazio pubblico.

Non dobbiamo dunque meravigliarci se un procuratore calabrese (quasi sicuramente in buona fede) si autoinveste del ruolo di debellatore della mafia, senza neanche sospettare che questo ruolo appartenga ad una sfera diversa – la politica – e che questa sua pretesa produca una grave alterazione dell’ordine costituito (se Politica Insieme vorrà ospitarmi svolgerò in altra sede le argomentazioni a sostegno di tale tesi). Non dobbiamo meravigliarci se una qualunque Procura si dà come obiettivo non più quello di perseguire singoli reati (magari con distacco e moderazione) ma piuttosto quello di “sradicare” (con la dovuta passione) la corruzione o altri orribili mali sociali, con ciò minando – oggettivamente – una separazione di sfere che è una delle più intangibili basi dello stato di diritto.

A questo punto ci riuscirà più facile anche comprendere le appassionate parole dei focosi magistrati dell’ANM intercettati: il “virtuismo” impone di perseguire grandi finalità e quella di fermare un politico che minaccia addirittura le libertà di un paese ha senz’altro questo rango.

Ma forse il libro di Bork, grazie al suo scavo alle origini di questi fenomeni, ci aiuta anche a capire meglio che colui che si dice “cristiano” dovrebbe essere in prima fila in questa battaglia di liberazione dal giustizialismo perché il vero target del “virtuismo” … è proprio lui.

Enrico Seta