Gli Usa di nuovo coinvolti nel “calderone” di quel Medio Oriente da cui Trump voleva tirarsi fuori

Gli Usa di nuovo coinvolti nel “calderone” di quel Medio Oriente da cui Trump voleva tirarsi fuori

L’Iran risponderà a tempo debito, e nelle forme che sceglierà, all’uccisione del generale Soleimani. L’Ayatollah Seyyed ʿAlī Ḥoseynī Khāmeneī, Guida suprema del paese a popolazione sciita più grande del mondo e vera e propria potenza regionale nel Medio Oriente e nel Golfo, non ha lasciato dubbi.

I vertici politici e militari statunitensi sono avvertiti. Sanno adesso che la vendetta giungerà. Non sono ancora in grado di prevedere né come, né quando, ma in ogni caso costretti a rovesciare completamente quella che sembrava la linea dell’abbandono statunitense dallo scacchiere mediorentale.

L’Iran è ufficialmente intervenuta presso l’Onu denunciando come atto di terrorismo internazionale il comportamento degli Stati Uniti.

Trump mostra nel suo twitt la bandiera a stelle e striscie, senza darci da sapere in che direzione sventolerà tanto il quadro è divenuto adesso più confuso ed aperto a tutte le soluzioni, persino a quelle più estreme. Ora è comunque costretto ad assicurare di non aver nessuna intenzione di fare una guerra vera e propria all’Iran o di provare a rovesciarne il regime.

Intanto, continua l’eliminazione mirata dei capi delle milizie sciite ed iraniane in Iraq come accaduto con un successivo bombardamento ai danni di un dirigente militare delle Forze di Mobilitazione Popolare (Hashd al Shaabi).

Gli Usa sono adesso costretti, invece di ritirarle, ad inviare altre migliaia di truppe nello scacchiere del Medio Oriente. Sono già in spostamento verso le basi americane collocate nei paesi alleati del Golfo Persico e dirimpettai dell’Iran. Soprattutto lì, installazioni e soldati statunitensi sono a rischio. Un gigantesco ponte aereo è già in atto. Ne viene la conferma delle capacità logistiche americane. Al tempo stesso,  diventa il segno della indecisione e contraddittorietà della politica mediorientale del Presidente.

Inviti alla moderazione giungono da tutti principali paesi, ma è emblematica la riflessione attribuita a Putin il quale avrebbe sostenuto, immediatamente dopo l’attacco costato la vita al più leggendario generale iraniano, che gli accordi sul nucleare, già cancellati unilateralmente da Donal Trump, sono da considerare definitivamente archiviati. Così si riapre davvero un capitolo che tanta fatica era costata chiudere, anche all’Europa e alla Russia. La questione nucleare iraniana si aggiungerà a quella nord coreana perché potrebbe essere venuto meno anche quel tenuo spiraglio lasciato aperto dalle relazioni che, in materia, Teheran manteneva con le cancellerie europee.

Stati Uniti, dunque, più che mai costretti a restare e ad accrescere la presenza militare per meglio difendere Arabia Saudita, Kuwai, Emirati Arabi e Israele. Non solo da forme di guerra guerreggiata, ma soprattutto da un sussulto terroristico sempre in agguato. Invece di risparmiare, Trump dovrà spendere di più e non sarà facile far digerire la cosa al popolo americano e, soprattutto, alla Camera dei rappresentanti dove comandano i democratici.

Se uno degli slogan prediletti da Trump era la promessa di mettere la parola fine alla presenza in Medio Oriente, e ai relativi costi, adesso, invece, ci resterà invischiato più che mai. Duri un anno  o cinque la sua presidenza. Non potrà certo concedersi il lusso, proprio lui, di sottovalutare l’annuncio della “vendetta” degli iraniani e il clima di odio contro americani ed Israele rinfocolato tra tutte le popolazioni sciite che, in taluni casi, rappresentano significative minoranze nei paesi sunniti più vicini agli Stati Uniti o addirittura la maggioranza com’è nel caso dell’Iraq.

I democratici statunitensi, così, in piena campagna elettorale sottolineano le contraddizioni di Trump in politica estera che, per la prima volta, sta tornando nel dibattito politico principale. Stanno facendo loro la tradizionale posizione isolazionista dei repubblicani e contestano al Presidente di “gettare dinamite in una polveriera” e di trascinare nuovamente gli Usa in un inutile conflitto mediorientale.

Ovviamente gli oppositori interni di Trump sperano che accada il contrario di 40 anni fa, quando la crisi con l’Iran favorì la sconfitta del democratico Carter a favore del repubblicano Regan, a seguito della lunga vicenda aperta con il sequestro del personale americano dell’ambasciata di Teheran, dopo la defenestrazione dello Scià.

Biden, Sanders, la Warren, infatti, hanno subito agitato lo spettro di finire in un’altra costosa avvenura militare. Hanno contestato a Trump di fare l’opposto di quanto promesso e di cui aveva dato un assaggio già pochi mesi fa quando abbandonò al loro destino i curdi del nord della Siria e favorì indirettamente l’avanzata a sud dei turchi, fermati solamente dall’immediato intervento dei russi e del governo di Damasco di Bashar al Assad.

Con l’uccisione di Soleimani, dunque, non si è chiuso un capitolo, ma si rischia di aprire un intero inedito libro.

Giancarlo Infante