Bari e la vergogna della compravendita dei voti – di Domenico Delle Foglie

Bari e la vergogna della compravendita dei voti – di Domenico Delle Foglie

Senza vergogna. La vicenda dei voti comprati e venduti dovrebbe far arrossire di vergogna ogni cittadino barese, e invece… Travolti dallo psicodramma politico pugliese a matrice Pd che ha monopolizzato l’informazione, non abbiamo sentito levarsi né una voce di condanna né una vera, forte e decisa riprovazione popolare sulla compravendita di voti che sta all’origine di tutto. Da barese quale sono, lo confesso, io mi vergogno.

Mi vergogno che il nome della mia città e la dignità della mia gente vengano associate a un gesto di tale inciviltà. Cioè la rinuncia all’esercizio del diritto sacrosanto di voto, gesto dall’altissimo valore democratico per il quale generazioni che ci hanno preceduto hanno combattuto. E’ dura da mangiar giù e a nulla servono le pillole addolcite di chi scrive, a difesa perenne di una sbiadita primavera barese,  di una Tangentopoli bonsai. Quasi che la catena di arresti che ha scompaginato il Comune e la Regione sia figlia di un malanno temporaneo. Di un raffreddore di stagione che, solo per un dannato accidente, ha colpito le due amministrazioni di sinistra-sinistra che hanno guidato Bari e la Puglia per quasi vent’anni.

La verità è che non si vuole guardare in faccia la realtà che ci parla prima di antropologia e poi di una politica che ha scelto una narrazione incapace di interpretare e, se possibile, correggere o almeno smussare le asperità di un’antropologia. Non è un caso, infatti, che i migliori interpreti della vicenda dei voti comprati e venduti siano i comici baresi, a cominciare  dal mitico Pinuccio che ovviamente  si rammarica del costo così basso del voto (50 euro). Tale da costruire la più facile delle equivalenze: un costo così basso è il corrispettivo della perdita di valore della democrazia. Brutta roba, anche se irrisa col più sornione degli sberleffi. Appunto, alla maniera di Pinuccio che come Checco Zalone rende simpatico il barese arruffone e accomodante, volgare e impunito, approfittatore e alla ricerca disperata del posto fisso come occasione di poco lavoro abbinata ad alta capacità di interdizione e intermediazione (naturalmente premiata da regalie di vario genere e dal bassissimo valore di scambio).

Da barese, mi vergogno ancora per quanti (anche persone degnissime) si lamentano perché “non conoscono nessuno” che possa aiutarli a trovare un lavoro, superare un esame, facilitare una pratica, togliere una multa, favorire l’amico dell’amico. Anche io mi ero illuso, avendo lasciato la città quasi trent’anni fa, che le cose fossero davvero cambiate. Che la primavera barese avesse portato con sé, non solo tanti soldi pubblici come pure è avvenuto grazie anche alla perizia del sindaco e del governatore, ma soprattutto avesse operato una cesura sui comportamenti socialmente più deteriori. Ed ecco, invece, riaffiorare quelle “maledizioni” antropologiche che in fondo chi è barese ha comunque sperimentato sulla propria pelle. A cominciare da quella più degradante: il valore assoluto dei soldi, come metro di giudizio sociale. Testimoniato dalle vite dorate e ostentate via social di molti protagonisti delle recenti cronache giudiziarie.

Ecco perché mi vergogno di chi non si vergogna. So bene che già tanti coinvolti nella compravendita dei voti (semplicissimi cittadini che abitano nel quartiere Japigia dominato dal clan Capriati) sono stati condannati  e molti salvati dall’affidamento ai lavori socialmente utili. Ma non c’è traccia della loro vergogna. Sono stati oggetto della riprovazione delle loro famiglie e dei loro amici? Oppure, come spesso accade, un velo di corriva condiscendenza ha accompagnato le condanne, quasi che si trattasse di una marachella adolescenziale? Neppure lo stato di bisogno estremo (difficilmente comprensibile ai tempi del reddito di cittadinanza, dei sussidi comunali e degli aiuti delle reti benefiche, Caritas in primis) può giustificare la vendita alla criminalità organizzata di un proprio diritto.

Ma c’è da vergognarsi anche delle classi dirigenti baresi, incapaci di vergognarsi dinanzi ad un reato così odioso e ad un tale annebbiamento della coscienza civile che fa trasparire in controluce la decadenza etica. Ora, è proprio il silenzio assordante delle classi dirigenti sul voto di scambio che deve far riflettere. Quello che è accaduto a Bari, non è solo un naufragio della politica (di cui nessuno si può rallegrare) né un semplice incidente di percorso, è piuttosto la spia di una seria questione antropologica. Quella che in fondo spinge tanti giovani (soprattutto i più preparati) a scegliere di andare via. E di non rassegnarsi a una narrazione fatta di orecchiette, di mare e di sole. E pure di fiction accattivanti (Lolita Lobosco), di rap in salsa barese (“Baccalà” di Serena Brancale), di nuovi comici che usano l’arma contundente della volgarità.

Ecco, ci sarebbe piaciuto che Luciano Canfora (uno degli intellettuali baresi più stimati), invece di arringare gli studenti di un liceo barese contro la premier Giorgia Meloni (da lui accusata di “nazismo dell’anima”), avesse fatto una seria autocritica sull’incapacità di chi a Bari conta qualcosa nell’educare ai valori minimi della cittadinanza. E che scrittori famosi come Gianrico Carofiglio e Nicola Lagioia avessero trovato le parole giuste per esprimere l’umanissima vergogna che speriamo tanti baresi provino per quella maledetta compravendita di voti. Altro che furbizia levantina!

Domenico Delle Foglie