Caso Bari o caso Italia? – di Rocco D’Ambrosio

Caso Bari o caso Italia? – di Rocco D’Ambrosio

Lo chiamano “caso Bari”, giornalisticamente è così, di fatto è meglio dire caso Italia. Sì, perché la corruzione non ha una collocazione geografica, non attecchisce meglio ad una latitudine o longitudine, in un partito o coalizione invece di un altro, in un capitolo di bilancio pubblico o piuttosto che in uno aziendale.

La corruzione è come un virus, può prendere tutti, a prescindere. Tutti o quasi. Sì, perché ci sono persone immuni da corruzione: sono donne e uomini probi, che si sono coltivate nella legalità e nella dedizione al bene pubblico, non a chiacchiere, ma con scienza, coscienza e fedeltà. Non sono santi, non sono nemmeno tanto noti, ma sono l’ossatura vera e autentica del nostro Paese, sono coloro che non permettono la degenerazione totale dell’Italia. Sono coloro che, con tanti sacrifici, cercano anche di resistere alla deriva fascista in corso. Amano l’Italia veramente e sanno bene che, se fosse, più onesta e fedele ai principi costituzionali, sarebbe uno dei Paesi più belli del mondo, come lo è per l’arte, i paesaggi e le tradizioni gastronomiche. Invece non è lo.

“Così tutte le forme di illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci – come spiegava Italo Calvino, nel 1980, in La coscienza a posto – si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto”. Leggi anche:  Ucciso Lello Capriati, nipote del boss della Bari vecchia

La Puglia, Il Piemonte, il paese X e la Regione Y sono questi sistemi. Bande di politici, professionisti, docenti, ecclesiastici che alla base hanno – direbbero i latini – un pactum sceleris, ovvero un “patto di scelleratezza” o meglio un “patto per il delitto”, che può essere di sinistra come di destra. Al potere giudiziario spetta il dovere di procedere come Costituzione e leggi comandano; ai cittadini e alle altre istituzioni di interrogarsi sul fatto, cioè sul caso Italia. Lo facciamo dagli anni ’90, cioè da Tangentopoli in poi e se le cose non sono cambiate, anzi, a volte sono peggiorate, vuol dire che l’azione di contrasto o è una chiacchiera da bar o è fatta male. Il contrasto alla corruzione è prima di tutto un’azione educativa ed etica, poi politica e legislativa. E non aiuta affatto trattarla come un raffreddore passeggero: essa è, invece, una vera e propria polmonite cronica; in altri termini un sistema perverso, una trama accattivante, un male pervasivo (cf.  F. Giannella – R. D’Ambrosio., La corruzione: attori e trame).

Il cosiddetto caso Bari ha lunga storia, all’inizio anche bella e ricca. Si chiamava “primavera pugliese”, che ha visto nelle due presidenze Vendola (2005-2015) una bella e seria esperienza con tanti assessori e consiglieri competenti e perbene. Qualche piccola ombra, ma certamente è stata una fase positiva.

Se non si fa questo si contribuisce a creare una zona d’ombra dove la corruzione ha il terreno fertile per attecchire, ramificarsi e crescere. La storia evangelica si ripete: la zizzania si insinua tra il grano in mille modi. E zizzania sono anche: il privilegiare più il consenso che la formazione e la buona politica; non prendere sul serio l’astensione e la mancanza di fiducia verso la classe politica; le stupidaggini dette dai palchi pubblici o sui media; l’atteggiarsi a moralizzatore dell’ultima ora che guarda dall’alto in basso e via dicendo. Servire un’istituzione – espressione così spesso usata da diventare retorica stucchevole – non vuole dire tacere o parlare, operare o astenersi solo se il consenso elettorale cresce. Servire un’istituzione vuol dire amarla, spendersi per essa con “disciplina, onore e imparzialità” (Costituzione artt. 54 e 97), rispettare la legge, pagare di persona, parlare meno e lavorare duro nel portare frutti di bene pubblico, evitare autoreferenzialità e vanagloria, allontanare i corrotti e promuovere chi fa il bene, saper lasciare quando è giunto il tempo.

Rocco D’Ambrosio

Pubblicato su www.globalist.it