Il premierato e le sue ombre – di Armando Lamberti
Pubblichiamo l’intervento di Armando Lamberti, Ordinario di Diritto costituzionale e di Istituzioni di diritto pubblico dell’Università degli studi di Salerno, fatto nel corso del convegno organizzato da INSIEME lo scorso 23 marzo dal titolo “Centralità del Parlamento e governabilità. Perché diciamo no al premierato”
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Premessa e delimitazione del campo di indagine.
È con grande piacere che prendo la parola in questo prestigioso consesso, ringraziando gli organizzatori (e segnatamente il movimento politico “Insieme” e l’on. Domenico Galbiati) per il gentile e gradito invito. Sono particolarmente lieto – sia nella qualità di costituzionalista che di esponente di “Tempi Nuovi” (movimento del quale porto volentieri i saluti, unitamente a quelli dell’on. Giuseppe Fioroni) – di intervenire in occasione dell’odierno incontro di riflessione, non soltanto perché noi tutti qui presenti siamo uniti da una comune appartenenza ideale e, soprattutto, da un comune slancio etico, ispirato ai valori del cattolicesimo democratico e sociale, ma anche perché quest’oggi ci troviamo a discutere di un tema centrale nel dibattito politico (e accademico), che attiene al futuro della nostra forma di governo e, più in generale, dell’assetto istituzionale del nostro Paese.
La mia relazione si articola in tre parti principali e in una conclusione. In primo luogo, svolgerò alcune considerazioni generali sulla crisi della rappresentanza politica e sul rapporto tra forma di governo e forma di Stato. In secondo luogo, mi interrogherò sulle possibili modalità di rilancio della rappresentanza politica e sulle riforme istituzionali, anzitutto a costituzione invariata, che sarebbe stato opportuno proporre. Dopodiché affronterò l’esame critico del disegno di legge di revisione costituzionale sul c.d. premierato elettivo, dapprima 1) proponendo alcune riflessioni “di sistema” sui difetti e sui rischi che caratterizzano questo modello; e poi 2) entrando nel merito della discussione sui profili tecnici, sottoponendo a critica le varie scelte normative compiute nel D.d.l.; seguirà, infine, un ragionamento conclusivo sulle modalità per rilanciare la rappresentanza democratica (in primis una legge sui partiti e una legge elettorale che restituisca dignità alla scelta dell’elettore, mortificata da decenni ora di liste bloccate ora di abnormi premi di maggioranza) e sulla necessità di un rinnovato impegno civile e politico dei cattolici.
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Crisi del sistema politico e illusioni diffuse: una riflessione preliminare.
Prima di entrare nel vivo della disamina del disegno di legge costituzionale sul c.d. premierato, presentato dal Governo, mi corre l’obbligo – come anticipavo – di condividere alcune riflessioni generali di carattere preliminare, che attengono sia al contesto di crisi della rappresentanza democratica – cui ci troviamo di fronte ormai da troppo tempo – sia al “metodo” delle riforme istituzionali.
In primo luogo, ogniqualvolta ci si trova ad affrontare il tema delle riforme, non posso non avvertire una qual certo “disagio”: troppo spesso si ha l’impressione che – complice la modellistica dei politologi affascinati dalle formule dell’ingegneria istituzionale – prevalga, nel dibattito generale ma anche nello stesso dibattito accademico, la pretesa che, con una riforma costituzionale, si possano correggere, per ciò solo, le disfunzioni del sistema politico e sciogliere una volta per tutte i nodi che attengono al rapporto tra rappresentanza e governabilità. Ci si illude, in altri termini, che sia sufficiente un tratto di penna del legislatore costituzionale per risolvere d’incanto tutti i problemi.
Al contrario, a mio parere il sistema politico non segue, ma, per certi versi, “precede” l’assetto costituzionale della forma di governo: se il primo è in crisi, per ragioni endogene, non ci si può illudere (come ha ricordato di recente Enzo Cheli) che, modificando l’assetto della forma di governo intervenendo sulla Costituzione, si possano correggere le disfunzioni dei partiti e si possa superare, più in generale, la crisi del sistema della rappresentanza politica.
Le varie soluzioni che sono state proposte in sede politica non possono non confrontarsi, allora, con un problema fondamentale: come restituire dignità alla rappresentanza politica? Come rigenerare il sistema politico? Come restituire alla forma-partito la sua centralità come luogo di aggregazione, territorialmente radicato, di idee e di interessi?
Non sfugge che, per rispondere a queste domande, non è sufficiente un nuovo approccio puramente normativo (di qualunque segno esso sia), ma occorre, di fronte alla disintermediazione che caratterizza l’età contemporanea e alla crisi sia dei rappresentanti sia dei rappresentati, una rigenerazione complessiva del tessuto sociale (sempre più amorfo e sfibrato) ricostruendo luoghi di autentica partecipazione.
La crisi della forma di governo, infatti, non prescinde – anzi ne è una conseguenza – dalla crisi della forma di Stato, cioè, più in generale, dalla crisi delle democrazie costituzionali nell’era contemporanea, causata (o accelerata) da diversi elementi condizionanti (l’impatto della globalizzazione, il fattore tecnologico, l’assolutismo della società dei consumi, la disintermediazione, le diseguaglianze economico-sociali, ecc.).
Sicché, prima ancora di interrogarci sulle dinamiche della forma di governo, occorrerebbe operare un’indagine profonda delle radici della crisi attuale della forma di Stato democratico ed avviare così un grande dibattito politico-culturale proteso ad individuare le modalità per contrastarla, onde rivitalizzare la democrazia non soltanto dal punto di vista politico (attraverso nuove forme di partecipazione) ma anche dal punto di vista economico e sociale.
Se questi sono i presupposti, allora, guardare alle esperienze di altri modelli (presidenzialismo all’americana, semipresidenzialismo forte alla francese, semipresidenzialismi deboli, neo-parlamentarismo o premierato all’israeliana, e così via) può divenire un esercizio fuorviante, perché si rischia di perdere di vista un dato estremamente rilevante: vale a dire, il fatto che, al di là dei diversi assetti delle forme di governo, le democrazie costituzionali occidentali sono tutte drammaticamente caratterizzate da un comune contesto di crisi.
Per essere ancora più espliciti, cioè, la crisi della forma di Stato impatta sul sistema politico, e la crisi del sistema politico impatta – a sua volta – sulle forme di governo. Ragionare, perciò, di sola forma di governo senza porsi il men che minimo dilemma sul presente e il futuro della nostra forma di Stato – e cioè lo Stato sociale di diritto democratico-pluralista – è operazione politica e intellettuale non soltanto “monca”, ma anche intrinsecamente pericolosa, perché rischia di condurre all’individuazione di soluzioni che, nel tentativo di correggere il “male”, sono suscettibili di aggravare ulteriormente il quadro di crisi che affligge la democrazia.
Ed è questo, mi sembra, proprio il caso del disegno di legge costituzionale sul premierato elettivo.
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Come rilanciare la rappresentanza politica? Le alternative possibili.
Mi sembra chiaro, alla luce delle considerazioni che svolgerò a breve, che il disegno di legge di revisione costituzionale sul c.d. premierato elettivo è da respingere, tanto per le sue contraddizioni interne quanto per i gravi squilibri che tale modello rischierebbe di generare, sia rispetto al ruolo del Presidente della Repubblica sia rispetto al Parlamento, che verrebbe abbandonato ad una definitiva marginalizzazione.
Al contrario, oggi appariva necessario, semmai, un contributo per rafforzare il Parlamento, per restituirvi quella centralità che ad esso è costituzionalmente riconosciuta.
La più volte richiamata crisi della rappresentanza politica, in effetti, corrisponde anche ad un parallelo progressivo svuotamento delle funzioni del Parlamento, che oggi appare sempre di più alla stregua di un organo “ratificatore” di scelte compiute “altrove”.
I dati sulla produzione normativa, d’altronde, sono particolarmente eloquenti: la stragrande maggioranza delle norme di rango primario è posta, oggi, da decreti-legge o decreti legislativi (e cioè da atti aventi forza di legge adottati dal Governo), e, anche se si considerano le leggi formali ordinarie, ci si avvede che la più gran parte delle leggi approvate dal Parlamento è di iniziativa governativa.
Per esempio, leggendo i dati pubblicati sul sito ufficiale della Camera dei deputati, si osserva che nella XVIII legislatura (2018-2022) sono state approvate 311 leggi ordinarie, di cui ben 104 sono leggi di conversione di decreti-legge. Peraltro, delle 207 leggi restanti, ben 120 sono leggi di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali (e 145 le leggi di iniziativa governativa), mentre solo 59 sono state le leggi ordinarie di iniziativa parlamentare. Nella stessa legislatura, inoltre, il Governo ha adottato 146 decreti-legge, 164 decreti legislativi e 17 regolamenti di delegificazione. Senza contare, poi, il ricorso – ormai patologico – non soltanto forme a dir poco “creative” della decretazione d’urgenza (dai decreti salvo intese ai c.d. decreti matrioska), ma addirittura alla prassi del c.d. maxiemendamento, che mortifica la dignità del Parlamento.
Eppure, nonostante questi problemi siano noti da tempo (e non solo agli addetti ai lavori!), sembra che, nel dibattito politico generale, non riesca ad attecchire la preoccupazione – che invece dovrebbe essere una priorità per chi ha a cuore le sorti della democrazia – per la progressiva perdita della centralità del Parlamento.
Ciò non significa – sia chiaro – che non ci si pone qui il problema della stabilità dell’azione di governo.
Il problema certamente esiste, ma non può essere assolutizzato e, soprattutto, nell’affrontarlo non si può non tener conto di almeno due dati.
Il primo attiene ad un aspetto che sottolineavo proprio in apertura. Volendoci affidare proprio alle parole del massimo teorico della razionalizzazione del parlamentarismo, il costituzionalista di origini russe Mirkine-Guetzevich (1892-1955), il problema della stabilità di governo non è (o meglio, non può essere considerato soltanto) un problema costituzionale: “nessuna legge, nessuna regola rigida può realizzarla se la vita politica di un paese non offre le condizioni necessarie”. Ergo, fin quando il nostro sistema politico non si sarà rigenerato dai suoi problemi endogeni, nessun modello costituzionale sarà, in tutto o in parte, in grado di raggiungere i risultati auspicati.
In secondo luogo, per riprendere le suggestioni della giurisprudenza costituzionale sulle leggi elettorali (sentt. n. 1 del 2014 sul cosiddetto Porcellum e n. 35 del 2017 sul cosiddetto Italicum), la c.d. governabilità è senz’altro un obiettivo costituzionalmente rilevante, ma il suo perseguimento non può spingersi sino ad alterare del tutto il principio di rappresentatività. Ecco perché la proposta di prevedere direttamente in Costituzione un premio di maggioranza senza soglia minima lederebbe gravemente il principio democratico.
Certo, rimangono aperte quelle domande ineludibili che ponevo all’inizio: come restituire dignità alla rappresentanza politica? Come rigenerare il sistema politico? Come restituire alla forma-partito la sua centralità come luogo di aggregazione, territorialmente radicato, di idee e di interessi?
Ecco, ritengo che, pur con le cautele che ricordavo, un contributo importante sul piano della “politica del diritto” non può essere affatto obliterato: sarebbe stato necessario, in luogo di avventurarsi verso i mari sconosciuti del premierato elettivo, apprestare una modifica alla legge elettorale, dopo che – ormai da tempo – il diritto di voto nella sua pienezza è stato “coartato” da abnormi premi di maggioranza, da collegi elettorali mal congegnati e, soprattutto, dalle indicazioni etero-imposte dalle segreterie di partito attraverso le liste bloccate.
In altre parole, si sarebbe dovuto affrontare seriamente il tema della crisi della rappresentanza politica, che è strettamente collegato alla crisi della qualità della rappresentanza politica, entrambe determinate anche da una legislazione elettorale che ha mortificato il diritto di voto (art. 48 Cost.).
Come è emerso dalle citate sentenze n. 1 del 2014 e n. 35 del 2017 della Corte costituzionale, il legislatore certamente dispone di un’ampia libertà di scelta tra i diversi modelli, ma ove la scelta comporti la previsione di un premio di maggioranza, questo non deve alterare irragionevolmente il rapporto tra elettori ed eletti; ancora, anche se i partiti dispongono del potere di presentazione delle liste dei candidati, nondimeno non possono coartare il diritto di voto, ora con liste bloccate, ora con candidature multiple che consentono al candidato eletto in più collegi un incondizionato potere di scelta del collegio di elezione (così ledendo sia il diritto di voto degli elettori sia l’interesse connesso al diritto di elettorato passivo dei non eletti).
Se vogliamo, quindi, restituire dignità agli elettori – e se si vuole contribuire ragionevolmente a sostenere il sistema dei partiti a rigenerarsi, così da ritrovare il necessario radicamento sul territorio – a mio parere occorre, ineludibilmente, procedere ad una modifica della legge elettorale, preferibilmente tornando alle preferenze, nel quadro di un sistema proporzionale, sia pure opportunamente corretto da soglie di sbarramento (che, a mio avviso, rappresenterebbe la prima opzione da seguire, in quanto il proporzionale meglio riflette la complessità del sistema politico italiano e contribuisce a diminuire le tensioni promuovendo inevitabilmente la disponibilità dei partiti al compromesso).
Non ulteriormente rinviabile, poi, è una legge sui partiti, che dia finalmente attuazione all’articolo 49 della Costituzione, definendo giuridicamente i partiti – la cui centralità fu riconosciuta sin dall’ordine del giorno Dossetti in Assemblea Costituente –, delineandone le modalità di finanziamento (a partire da nuove forme di finanziamento pubblico) e garantendo il “metodo democratico” nelle strutture interne.
Né si può trascurare, ancora, l’opportunità di una revisione dei regolamenti parlamentari, nella prospettiva di rafforzare le coalizioni contrastando i deplorevoli fenomeni di trasformismo. Infatti, le modifiche operate in tempi recenti si sono rivelate insufficienti, sicché si impongono interventi più decisi e mirati: dalla definizione di condizioni uniformi per la costituzione dei gruppi parlamentari alla Camera e al Senato – prevedendo, ad esempio, un unico requisito rigido, di tipo “politico” prima ancora che numerico –, alla riduzione delle ipotesi di costituzione di gruppi in corso di legislatura, dall’eliminazione delle componenti politiche all’interno del Gruppo Misto all’iscrizione obbligatoria nel Gruppo Misto di deputati o senatori che abbandonino il gruppo di origine.
Se queste sono, a mio avviso, le strade privilegiate per attuare un processo generale di riforma a costituzione invariata, non sfugge, allo stesso tempo, che – anche volendo ricorrere alla revisione costituzionale – sarebbero state ben altre, invece del premierato elettivo, le opzioni praticabili.
Per esempio, si sarebbe potuto pensare di riprendere, con la prudenza e la cautela del caso, il filo delle proposte della Commissione De Mita-Iotti, che, nel prospettare forme di razionalizzazione del parlamentarismo, prevedevano una rafforzata legittimazione del Presidente del Consiglio dei Ministri attraverso l’elezione da parte del Parlamento in seduta comune a maggioranza dei componenti, nonché l’attribuzione ad esso del potere di nomina dei Ministri e dell’iniziativa (comunque non vincolante) di scioglimento anticipato della Camere, nonché il meccanismo della sfiducia costruttiva (istituto previsto, com’è noto, nell’ordinamento tedesco e spagnolo).
Questi correttivi, unitariamente intesi, secondo lo spirito del cancellierato tedesco (non, quindi, un premierato elettivo!), avrebbero potuto consentire di rafforzare il circuito Parlamento-Governo (e, auspicabilmente, la stessa stabilità dell’azione di governo, oggi comunque di grande importanza, specie ai fini della gestione dei dossier internazionali e della partecipazione italiana al processo decisionale euro-unitario).
Il combinato disposto dell’elezione parlamentare del Presidente del Consiglio, della sfiducia costruttiva e dell’attribuzione al premier del potere di nomina dei Ministri e dell’iniziativa dello scioglimento potrebbe contribuire a rafforzare la centralità del Parlamento (e il circuito maggioranza parlamentare/Governo), senza però svilire il ruolo del Presidente della Repubblica, che, sia pur ridimensionato rispetto alla nomina dei Ministri, rimarrebbe rilevante sia nel processo di nomina del premier (per esempio prevedendo, sul modello tedesco, che, in caso di elezione del Presidente del Consiglio senza maggioranza assoluta, il Capo dello Stato possa scegliere se nominarlo ugualmente o procedere allo scioglimento delle Camere) sia nell’esercizio del potere di scioglimento.
Ma – lo ribadisco – anche questi necessari correttivi di sistema non sarebbero comunque sufficienti se non si prendesse atto della più generale crisi della forma di Stato e non ci si attivasse seriamente per un rilancio della democrazia e dello Stato sociale.
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Il D.d.l. costituzionale sul premierato elettivo: una riforma “unilaterale”, senza contrappesi e foriera di squilibri.
Nel presentare un esame critico, dalla prospettiva del costituzionalista, del cosiddetto D.d.l. Meloni-Casellati, opererò su due piani di analisi.
In primo luogo, proverò ad enunciare alcune criticità e alcuni pericoli che, sul piano generale, caratterizzano il D.d.l. costituzionale sul premierato elettivo proposto dal Governo. In secondo luogo, mi concentrerò nello specifico sugli aspetti tecnici della riforma, evidenziandone rischi e contraddizioni.
Muovendo dal piano generale, allora, spicca un dato relativo al “metodo” della riforma.
Se, da un lato, è apprezzabile che, per la revisione, sia stata prescelta la strada indicata dallo stesso art. 138 della Costituzione (e non, per esempio, la via delle Commissioni bicamerali previste da leggi costituzionali ad hoc, che – non a caso – ha già mostrato, in passato, i propri fallimenti), dall’altro, tuttavia, non posso esimermi dal rilevare che, sotto un profilo di opportunità costituzionale, la proposta di legge di revisione costituzionale avrebbe dovuto essere concepita in Parlamento, e non assumere – come invece è accaduto – la forma di un disegno di legge cost. di iniziativa governativa.
È il Parlamento e solo il Parlamento il luogo deputato a discutere e a deliberare, secondo il procedimento aggravato costituzionalmente previsto, sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale; e – si badi – sono gli stessi presupposti (la necessità di un metodo condiviso e di ricercare un ampio consenso tra le forze politiche) ad indurci ad affermare che le proposte di legge di revisione costituzionale non potrebbero non nascere in Parlamento.
L’iniziativa della revisione, in altre parole – a maggior ragione se si tratta di un riassetto generale della forma di governo –, dovrebbe essere sempre un’iniziativa parlamentare, non governativa. È noto a tutti, d’altronde, che le due ampie riforme costituzionali di iniziativa del Governo, nel 2005-2006 (cosiddetta riforma Berlusconi) e nel 2016 (cosiddetta riforma Renzi-Boschi), sono state sonoramente bocciate in sede di referendum.
Che una revisione costituzionale sia di iniziativa governativa, insomma, lascia sempre il dubbio di un “uso congiunturale della Costituzione” da parte del Governo di turno, quasi che la revisione costituzionale fosse un mero instrumentum regni (uno “strumento di potere”).
Al contrario, sia la storia politico-istituzionale recente (e il riferimento, naturalmente, è, ancora, ai due referendum costituzionali del 2006 e del 2016) sia il comune “buon senso” suggeriscono di evitare la strada dei tentativi unilaterali di revisione: proprio quel popolo sovrano a cui tanti si appellano retoricamente ha dimostrato ampiamente di essere legato alla Costituzione come “casa comune”, al di là degli obiettivi di parte.
Condivido pienamente, perciò, il monito lanciato da “Insieme” e dal prof. Stefano Zamagni nel comunicato ufficiale diffuso nel novembre scorso: “le proposte di correzioni della forma di governo” sono accettabili “solo se rafforzano e non sacrificano la qualità complessiva della democrazia italiana”; “l’attuale proposta di modifica è stata presentata dal governo senza una adeguata interlocuzione con le opposizioni e le principali forze politiche e sociali del Paese, e sarà quindi destinata a dividere piuttosto che ad unire”. E, ancora, la stessa disponibilità “della maggioranza ad andare a un eventuale referendum confermativo manifesta un orientamento antagonistico foriero di conseguenze negative”.
Oltre a questo aspetto sul “metodo” della riforma, mi sembrano evidenti altri profili di criticità di ordine generale.
Innanzitutto, occorre rilevare, a scanso di equivoci, che, nella tradizione costituzional-comparatistica, “premierato” è una formula solitamente impiegata per evocare la forma di governo parlamentare (e sottolineo parlamentare) inglese, caratterizzata da una centralità del Primo ministro, il quale tuttavia non è espressione di un’elezione diretta da parte del corpo elettorale.
Questa centralità è un risultato prodottosi per effetto del consolidarsi di consuetudini e convenzioni costituzionali, prima tra le quali l’automatica coincidenza tra il ruolo di Primo Ministro e quello di capo politico del partito vittorioso alle elezioni.
Nella “vulgata”, però, l’espressione “premierato” si è ridotta ad una formula piuttosto sfuggente, impiegata ora per richiamare il modello inglese, ora il cancellierato tedesco, ora la breve (e fallimentare) esperienza “neo-parlamentare” israeliana (1992-2001), ora la forma di governo che caratterizza le Regioni italiane a partire dalla legge cost. 1/1999.
Il modello di “premierato” accolto dal disegno di legge cost. di iniziativa governativa è, com’è noto, quello del “premierato elettivo”, caratterizzato dall’elezione diretta del capo del Governo (il Presidente del Consiglio dei Ministri), che – rapidamente archiviata la fallimentare esperienza israeliana (1992-2001) – si configurerebbe oggi come un vero e proprio unicum nel panorama mondiale delle Costituzioni.
Sempre ragionando in termini generali, non si può sottacere che l’elezione diretta del capo del Governo, che vanifica sostanzialmente la ratio stessa della fiducia parlamentare, sembra tradire l’accoglimento della logica dell’acclamazione, assai cara a Carl Schmitt, nel nome – si direbbe con lessico weberiano – di una legittimazione carismatica del potere politico.
Certo, mi si potrebbe facilmente obiettare che non necessariamente i meccanismi di elezione diretta producono fenomeni di plebiscitarismo (suscettibili financo di degenerare in forme autoritarie).
Ma dobbiamo considerare lo scenario del tempo attuale della “post-democrazia” e del populismo.
Un conto, cioè, è immaginare l’elezione diretta del Presidente del Consiglio ai tempi delle proposte del costituzionalista Serio Galeotti sul “governo di legislatura”, formulate negli anni Settanta e riprese negli anni Ottanta, oppure di Costantino Mortati e Aldo Sandulli nel dibattito sulla Rivista “Gli Stati” nel 1973; altra cosa è avanzare una simile proposta nel 2024, in un contesto caratterizzato da un sistema politico sfibrato, da partiti debolissimi (sia sul piano ideale che sotto il profilo del radicamento territoriale) e, soprattutto, dalla personalizzazione del confronto politico e da torsioni populistiche e demagogiche.
Sempre rimanendo su un piano di analisi generale, il difetto maggiore di questa riforma – tale da rendere il premierato elettivo così congegnato ancora più “pericoloso”, per certi versi, rispetto al presidenzialismo o al semipresidenzialismo – è la sua rigidità, accompagnata dall’assenza di robusti contrappesi.
La rafforzata legittimazione del Presidente del Consiglio produce, come vedremo meglio a breve, un oggettivo depotenziamento del ruolo del Presidente della Repubblica, che perde il ruolo di solutore delle crisi di governo, ed uno squilibrio nei rapporti con il Parlamento (visto che il Governo può pur sempre ricorrere alla decretazione d’urgenza, senza contare il patologico impiego delle questioni di fiducia e dei maxiemendamenti) e, soprattutto, con le minoranze parlamentari, che si ritrovano sprovviste di garanzie, anche a causa dell’improvvida previsione costituzionale di una formula elettorale con premio di maggioranza senza l’individuazione di una soglia minima per l’accesso.
Con il c.d. premierato elettivo, insomma, si legano le sorti del Parlamento a quelle del Governo (segnando di fatto la fine della forma di governo parlamentare) e si sottraggono al Presidente della Repubblica i poteri di risolvere le crisi (azzerando nella sostanza il potere di nomina del Presidente del Consiglio e il potere di scioglimento delle Camere).
E qui vengo alle considerazioni più puntuali.
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Torsioni e contraddizioni.
L’elezione diretta del Presidente del Consiglio comporta la trasformazione, anzi la torsione, dell’istituto della fiducia, elemento caratterizzante della forma di governo parlamentare, che verrebbe ad essere degradata alla stregua di un mero rapporto di consonanza.
In quest’ottica, appare sostanzialmente inutile la farraginosa previsione, contenuta nel disegno di legge, relativa all’ipotesi in cui al Governo non venga accordata la fiducia iniziale. Si stabilisce che “nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia della Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.
Ecco, qual è il senso sostanziale di una simile previsione? Ed è davvero concepibile, in uno scenario in cui si eleggono contestualmente le Camere e il Presidente del Consiglio (peraltro con previsione costituzionale di un premio di maggioranza per le liste collegate al Presidente eletto!) che le Camere neghino la fiducia al Governo? Mi sembra la “costituzionalizzazione” della “fantapolitica”!
Spesso, per giustificare il premierato elettivo, si richiama l’esperienza della forma di governo regionale e degli enti locali, sul presupposto che queste avrebbero funzionato bene, dimostrando altresì un’invidiabile stabilità nell’azione degli esecutivi.
Ecco, questo paragone – ci tengo a sottolinearlo – è sia improprio sia, al contempo, paradigmatico di alcune tendenze negative.
Si tratta di un accostamento improprio, se consideriamo gli enti locali, perché nei Comuni non si pone un problema di rapporti tra legislativo ed esecutivo: sempre e solo di funzioni amministrative si tratta, in quanto sia il Consiglio sia il Sindaco e la Giunta sono titolari unicamente di funzioni di carattere amministrativo. Già solo il voler ragionare di un fantomatico “Sindaco d’Italia” è, perciò, operazione piuttosto ardita, non esistendo affatto, a livello locale, un potere legislativo!
Anche l’accostamento alla forma di governo regionale, poi, è assolutamente problematico. Essa, infatti, non prevede né un voto di fiducia iniziale del Consiglio nei confronti del Presidente della Giunta (la cui legittimazione riposa esclusivamente sull’elezione diretta da parte del corpo elettorale) né tantomeno si può ravvisare, a livello regionale, una figura di garanzia assimilabile al Presidente della Repubblica. E, soprattutto, non esistono, a livello regionale, “atti aventi forza di legge” assimilabili ai decreti-legge e ai decreti legislativi che il Governo può adottare: questo significa, in altre parole, non solo che non è possibile proiettare automaticamente a livello statale la forma di governo che caratterizza le Regioni, ma anche che l’introduzione del premierato elettivo rafforzerebbe un Governo che, di per sé, è già forte nella produzione normativa, con il rischio di marginalizzare il Parlamento con ancor più virulenza di quanto la forma di governo regionale abbia svuotato le Assemblee elettive, cioè i Consigli regionali.
E comunque, come anticipavo, gli esempi della forma di governo locale e regionale sono pur sempre paradigmatici di una tendenza alla svalutazione e alla marginalizzazione delle Assemblee elettive. Dobbiamo porci, allora, la seguente domanda: ma davvero siamo pronti a vedere il nostro Parlamento nazionale ridotto nelle stesse – se non peggiori – condizioni di impotenza sostanziale che caratterizzano un Consiglio regionale o un Consiglio comunale?
Ancora, non poche perplessità suscita la c.d. norma antiribaltone, che, a ben vedere, propone più problemi di quelli che vorrebbe risolvere. Mi riferisco alla disposizione del d.d.l., secondo la quale “in caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.
Più che di una norma anti-ribaltone, si tratta – a ben vedere – di una norma che legittima il ribaltone e che è in sé estremamente contraddittoria. Questa previsione, cioè, rischia di legittimare il paradosso del “subentrante” (pensiamo, verosimilmente, ad un importante esponente politico della maggioranza parlamentare) che, dopo aver logorato il Presidente del Consiglio eletto, lo induce alle dimissioni per sostituirlo, potendo contare sull’arma letale dello scioglimento perché direttamente connessa al suo eventuale fallimento. Peraltro, il Presidente del Consiglio subentrante è vincolato al perseguimento e all’attuazione del medesimo programma di Governo.
E qui si coglie una insostenibile contraddizione.
In primo luogo, se il Presidente del Consiglio eletto è cessato dalla carica – ove il Governo venga sfiduciato o se il Presidente rassegni le dimissioni per una crisi extra-parlamentare –, si suppone – appunto – che non vi è più un consensus nella maggioranza per sostenere l’azione programmatica del Governo. Epperò è possibile che venga nominato Presidente del Consiglio un parlamentare della maggioranza per attuare quello stesso programma per il quale il suo predecessore ha perso di fatto la fiducia delle Camere: non è, questa, una contraddizione in termini? Anzi, siamo di fronte alla “costituzionalizzazione” della personalizzazione dell’azione di governo: il problema non è il programma di governo – alla cui attuazione, infatti, il Presidente del Consiglio “subentrante” sarebbe vincolato – ma solo la persona del Presidente del Consiglio!
In secondo luogo, siamo di fronte ad una lesione della libertà di mandato riconosciuta ai parlamentari dall’art. 67 (che non è formalmente toccato dalla riforma). “Ciascun membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le proprie funzioni senza vincolo di mandato”: orbene, cosa resta del divieto di mandato imperativo, se i parlamentari, nell’ipotesi della cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, possono dare la fiducia ad un “subentrante” ma solo se si ponga in continuità con il programma di governo del predecessore? La libertà di mandato, insomma, cadrebbe, perché sarebbe in fatto vincolata al programma del Presidente eletto, anche laddove questi venga meno.
Una norma, dunque, quella c.d. anti-ribaltone, che rischia di ingenerare una paradossale eterogenesi dei fini, istituzionalizzando la conflittualità interna alla maggioranza e attribuendo ai partiti della coalizione di maggioranza l’arma potente di determinare la caduta del Governo aprendo la crisi, rendendo più forte il Presidente del Consiglio “subentrante” rispetto al Presidente “eletto”.
Un’altra disposizione particolarmente problematica contenuta nel d.d.l. di revisione costituzionale sul premierato è quella che costituzionalizza il meccanismo elettorale, e in particolare il premio di maggioranza.
La norma proposta stabilisce che “la legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri. Il Presidente del Consiglio dei ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura”.
Orbene, prevedere un premio, assegnato su base nazionale, che garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste collegate al Presidente del Consiglio eletto, implicherebbe una pericolosa e irragionevole svalutazione delle minoranze, senza prevedere alcun tipo di correttivo o di contrappeso. In particolare, non è prevista una soglia minima per l’accesso al premio di maggioranza, il che non soltanto viola le condizioni poste dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, ma, più in generale, pregiudica la complessiva tenuta del sistema e delle garanzie costituzionali.
Ciò determinerebbe un contrasto con i principi fondamentali di uguaglianza e di libertà del voto e, in ultima istanza, con lo stesso principio democratico, il cui rispetto – trattandosi di un principio supremo dell’ordinamento costituzionale – si impone anche alle leggi costituzionali e di revisione costituzionale (secondo la nota sentenza n. 1146 del 1988 della Corte costituzionale).
Come ebbe a scrivere la Corte costituzionale già nel 2014 (nella sentenza n.1, che censurò il Porcellum), “l’attribuzione di un premio senza soglia minima (…) determina una «compressione della funzione rappresentativa dell’Assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente»”.
È vero, quindi, che rappresenta un obiettivo costituzionalmente legittimo lo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, ma, se ciò consente una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, diviene radicalmente incompatibile con i principi costituzionali.
Né, ancora, si può trascurare che il riferimento alla “base nazionale” per l’assegnazione del premio di maggioranza non solo alla Camera che al Senato ingenererebbe una contraddizione rispetto all’art. 57 Cost., di cui non è stata proposta la modifica, che prevede l’elezione del Senato su “base regionale”.
L’assenza di forti contrappesi che caratterizza negativamente questa riforma è altresì evidente nel ridimensionamento di fatto del ruolo del Presidente della Repubblica.
Non vale affatto l’obiezione, che solitamente formulano i fautori del premierato elettivo, secondo cui non si modificano le norme costituzionali sul Presidente della Repubblica (sicché il suo ruolo rimarrebbe inalterato).
Al contrario, la stessa differenza di “legittimazione” tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica, il primo eletto direttamente dal corpo elettorale, il secondo eletto dal Parlamento in seduta comune integrato dai delegati regionali, creerebbe di fatto uno squilibrio, in assenza di adeguati contrappesi.
Anzi, il potere di nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri si risolverebbe essenzialmente ora in una mera ratifica formale del risultato elettorale, ora in una presa d’atto della volontà della maggioranza di sostituire il Presidente eletto. Sicché verrebbe meno il ruolo del Presidente della Repubblica nella soluzione delle crisi di governo, e lo stesso potere di scioglimento delle Camere si troverebbe ad essere sostanzialmente svuotato.
Con il premierato elettivo, quindi, il Presidente della Repubblica si troverebbe in una posizione di maggiore debolezza, defilato sia rispetto al rapporto tra Presidente del Consiglio e Ministri, sia rispetto al rapporto tra Governo e maggioranza parlamentare, col rischio di trasformarsi in un presidente meramente rappresentativo.
Insomma, con il premierato elettivo si disarticolerebbe il ruolo del Capo dello Stato, il quale perderebbe tanto il potere di formazione del governo, quanto quelli di scioglimento anticipato delle Camere; conseguentemente, anche gli altri poteri del Presidente della Repubblica, come il potere di messaggio alle Camere, l’autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge di iniziativa del Governo, la promulgazione della legge e l’emanazione dei decreti, ecc., potrebbero essere sostanzialmente ineffettivi.
Ciò rischierebbe di vanificare anche lo stesso emendamento Pera, approvato in Commissione Affari costituzionali al Senato, che ha precisato quali atti del Presidente della Repubblica non sarebbero soggetti a controfirma (includendovi sia alcuni atti che col premierato elettivo diverrebbero “atti dovuti”, come la nomina del Presidente del Consiglio, sia alcuni atti sostanzialmente presidenziali, come il rinvio delle leggi o la concessione della grazia).
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La necessità di un rinnovato impegno dei cattolici in politica.
Alla luce del ragionamento sviluppato, la contestazione del disegno di legge di revisione costituzionale sul premierato elettivo deve essere accompagnata da un impegno civile e politico rivolto a riportare l’attenzione sulla necessità di un rilancio della centralità del Parlamento e del sistema della rappresenta politica, il tutto entro il quadro di una ritrovata politica di piena attuazione della Costituzione (e dei suoi due pilastri irrinunciabili: la democrazia e lo Stato sociale).
Di qui la necessità – e parlo ad una platea che condivide i valori del cattolicesimo democratico e sociale – di una vera “buona politica”. Il difficile contesto attuale richiede un rinnovato impegno degli “uomini di buona volontà”, insomma di un serio e meditato impegno civile e politico di chi si riconosce in quei valori.
Di qui il mio plauso sincero – anche in qualità di rappresentante di “Tempi Nuovi” – all’iniziativa politica di “Insieme”: comune è l’obiettivo – certamente assai difficile, non ce lo nascondiamo, ma senza dubbio indispensabile per il bene del Paese e, ormai, improcrastinabile – di riaggregare le forze cattoliche, senz’altro nei prossimi appuntamenti elettorali ma, prima ancora, nella politica vissuta, sui territori, con il contributo fattivo e prezioso del vasto associazionismo civico ispirato ai valori del cristianesimo democratico e sociale.
Non un cartello elettorale, che rischierebbe di scomporsi di fronte alle prime difficoltà, ma una rete di associazioni e di movimenti uniti dal desiderio concreto di impegnarsi sui territori e di ridare speranza, con una visione chiara del futuro del Paese, a quei tantissimi cittadini lontani dalla politica e, spesso, anche dal voto.
È un tentativo arduo, complesso, ma sfidante e stimolante – e proprio per questo generoso.
Noi tutti siamo chiamati ad adoperarci col massimo impegno possibile per unire le forze e per tornare a far risuonare la nostra voce.
La voce di chi non si rassegna alle derive anti-personalistiche del presente, alle sirene del populismo e del nazionalismo, alla “globalizzazione dell’indifferenza”, alla mercificazione delle relazioni umane, alla dittatura delle “apparenze”.
Uno sforzo enorme ci aspetta, ma con la consapevolezza che – come ebbe a dire don Luigi Sturzo – “chi ha fede muove le montagne; chi ha fede fa proseliti; chi ha fede vince le battaglie!”.
La crisi che viviamo da tanto, troppo tempo, è – prima ancora che una crisi economica, sociale, politica – una crisi valoriale profondissima dell’intera civiltà occidentale. L’individualismo estremo, il consumismo sfrenato – che ha reso la persona un mero “homo consumens”, come diceva il grande sociologo Zygmunt Bauman –, l’edonismo di massa, hanno prodotto uno scenario desolante, sconfortante: la “liquidità” dei valori, la mancanza di punti di riferimento, l’incapacità di trovare prospettive politiche ideali.
Quando l’economia di mercato pretende di trasformarsi in “società di mercato” – come avvertiva già nel 1944 il grande storico ed economista Karl Polanyi nel volume “La grande trasformazione” –, cioè quando la dimensione individuale del consumo e dello scambio proietta se stessa in tutte le dimensioni del sociale, divenendo potenzialmente totalizzante, allora la società produce richieste di “protezione”, che spesso vengono facilmente declinate verso un paternalismo autoritario.
La realtà ci restituisce un quadro in cui anche quelli che venivano definiti “valori non negoziabili” – per riprendere un’espressione che ha sovente caratterizzato il Magistero della Chiesa cattolica, e in particolare il Pontificato di Benedetto XVI – sono messi in discussione: la dignità della persona umana, segnatamente, che pure è il valore non negoziabile per eccellenza, è calpestata ogni giorno. Ed è calpestata dalla precarizzazione estrema del lavoro, dal vilipendio dell’ambiente, dalla mercificazione dei corpi figlia di una cultura individualistica ora estremizzata.
Di fronte a siffatto scenario, per i cattolici si impone una nuova stagione di impegno politico, per restituire centralità alla dignità della persona e per testimoniare un’adesione di valori non puramente retorica, ma vissuta nella pienezza dell’esistenza civile.
Sviluppo umano integrale, nuovo umanesimo, ecologia integrale – come sintesi del rispetto dell’ambiente e di rimozione delle diseguaglianze economico-sociali – e le parole chiave dell’economia civile – di cui il prof. Zamagni è riconosciuto e apprezzatissimo Maestro –, debbono essere perciò le spinte ideali di un rinnovato impegno, che si ponga come alternativo alla morta gora della “globalizzazione dell’indifferenza”, della precarizzazione dell’esistenza umana e delle derive individualistiche e mercificatrici della bioetica e dei rapporti familiari e sociali.
Come amava ripetere Paolo VI, la politica è la più alta forma di carità: a noi spetta, in conclusione, rinnovare questo straordinario esercizio di carità, con coraggio e determinazione, per essere autenticamente all’altezza dei valori in cui crediamo, nell’ottica del rispetto e della piena attuazione della Costituzione repubblicana.
Come ebbe a dire don Luigi Sturzo, “la Costituzione è il fondamento della Repubblica. Se cade dal cuore del popolo, se non è rispettata dalle autorità politiche, se non è difesa dal governo e dal Parlamento, se è manomessa dai partiti verrà a mancare il terreno sodo sul quale sono fabbricate le nostre istituzioni e ancorate le nostre libertà”.
Armando Lamberti