Un dialogo sull’Ucraina – di Alessandro Risso

Un dialogo sull’Ucraina – di Alessandro Risso

Tra i commenti al mio ultimo editoriale (CLICCA QUI), di cui ringrazio tutti gli autori, spicca il cortese dissenso di Paolo Costa, che non ho il piacere di conoscere ma al quale vorrei rispondere, approfondendo le questioni da lui poste con garbo e intelligenza.

Per prima cosa riporto integralmente il suo scritto:

“Gentilissimo signor Alessandro Risso, pur nella sofferenza delle decine di migliaia di morti provocati dalla guerra in Ucraina, non sono d’accordo né con Lei, né con il mio Papa. Temo inoltre che il presente sia un dibattito interminabile, e senza soluzione condivisa. Infatti le due tesi antagoniste partono da premesse “concettuali incommensurabili”. Papa Francesco parte dalla premessa che la vita umana sia il valore supremo, a fronte del quale si possa e si debba sacrificare ogni altra istanza. La posizione di Zelensky e della maggioranza degli Ucraini si poggia sulla libertà intesa come bene supremo, superiore anche al sacrificio della propria vita.

Entrambe le posizioni sono logicamente valide, ma le premesse antagoniste sono di natura tale che non possediamo alcun strumento razionale per soppesare i diritti dell’una rispetto all’altra.

Passo ad una precisazione storica. Lei, nel suo primo documento all’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina, accennò al fatto che in fondo Putin potesse in qualche modo essere autorizzato a considerare gli Ucraini un po’ filonazisti. E fa riferimento a quanto avvenne nel 1941, all’inizio dell’invasione tedesca dell’Ucraina. Certo, molti Ucraini si arruolarono nella Wermacht (ma non necessariamente nelle SS), costituendo le famose divisioni sotto Vlasov, e in parte parteciparono anche agli eccidi degli ebrei. Ma occorre ricordare che negli anni trenta quel simpaticone di Stalin aveva provveduto a sterminare alcuni milioni di Ucraini, con carestia e lager. Si può quindi comprendere una certa simpatia degli Ucraini nei confronti dei tedeschi (non dei nazisti) che consideravano liberatori dal giogo bolscevico. Molti Ucraini “slavoviani” furono mandati dalla Wermacht a combattere in occidente, e alcuni loro reparti combatterono sulle nostre montagne contro i nostri partigiani (valli del Canavese, ricordi di mio papà partigiano; e in Friuli). A fine guerra gli “slavoviani”, fatti prigionieri dagli alleati in occidente, furono da questi riconsegnati ai russi, i quali, elegantemente, li mandarono a morte.

Come vede, ha perfettamente ragione Massimo Salvadori, da Lei citato, che ci ricorda che “i rapporti tra potenze sono solo rapporti di forza”.

La fine dell’Ucraina è purtroppo scritta. Sarà capitolazione, o resa, o bandiera bianca, in qualsiasi forma vogliano esprimerci. Capitolazione che, temo, non arresterà la sequela dei morti, considerando il modo con cui Putin gestisce il suo potere. “Fecero un deserto e lo chiamarono pace”, disse Tacito. E, alla faccia delle anime belle che odiano l’occidente più di quanto dovrebbero temere Putin, temo proprio che l’Ucraina russizata assomiglierà a un deserto.

Un’ultima osservazione: mi sembra che Zelensky sia stato eletto democraticamente in libere elezioni, e non che sia stato imposto da “strateghi americani”. E se gli Ucraini desiderano vivere in una società a impronta occidentale libera e liberista, chi siamo noi per dir loro di no, perché Putin a tracciato con la matita una invalicabile linea rossa?

La saluto cordialmente, Paolo Costa.”

Ringrazio di cuore il mio interlocutore per aver posto una questione su cui mi sono interrogato a fondo: il rapporto, e in qualche caso l’antagonismo, tra pace e libertà. Da socio ANPI (ho preso la prima tessera quando nella mia città è mancato l’ultimo partigiano combattente) e da fervente sturziano non posso che considerare la libertà un bene supremo: “ho difeso e difenderò finché avrò fiato la libertà” scriveva il piccolo – grandissimo – prete di Caltagirone. Mettere in alternativa Pace e Libertà ha poco senso, come chiedere a un bambino se vuole più bene alla mamma o al papà, una domanda idiota. Concordo quindi sul fatto che “non possediamo alcun strumento razionale per soppesare i diritti dell’una rispetto all’altra”. Aggiungo solo una considerazione: la negazione e la fine della vita è la morte, condizione senza ritorno. Negazione della libertà sono la sottomissione, la prigionia, la schiavitù, condizioni transitorie. “Finché c’è vita c’è speranza” recita il proverbio, e conviene tenerlo a mente.

Sul ruolo degli ucraini al fianco dei tedeschi nella Seconda guerra mondiale ho solo ricordato fatti acclarati: il reclutamento di almeno 30mila volontari ucraini a rinforzo delle SS che stavano compiendo le stragi di ebrei russi nelle campagne a seguito dell’Operazione Barbarossa e la presenza maggioritaria di aguzzini ucraini nei campi di sterminio in Polonia. Anche ciò che scrive Paolo conferma la forte presenza ucraina a fianco dei tedeschi. Lui dice “nella Wermacht ma non necessariamente nelle SS”, io direi in entrambe, ricordando anche la Divisione Galizia delle SS, circa 250mila effettivi nella quasi totalità ucraini, impegnati anche nella repressione della resistenza polacca e nelle operazioni di sterminio del ghetto di Varsavia. Questa digressione storica serviva comunque non certo a giustificare l’aggressione russa, ma a smontare la storiella raccontata da Putin sui “due popoli fratelli”, mentre il nazionalismo ucraino e quello russo sono stati conflittuali ben prima dei crimini di Stalin.

Su Zelensky: venne eletto come homo novus della politica ucraina, estraneo allo scontro politico tra nazionalisti e filorussi diventato guerra civile nel Donbass, con una evidente volontà di pacificazione interna espressa dall’elettorato. Che poi il suo governo sia sempre più stato influenzato da “strateghi americani” è nei fatti (le tre esercitazioni NATO tra 2019 e 2021 in un Paese non aderente alla NATO). Ma discutere sulle responsabilità lascia il tempo che trova perché, per gli Ucraini soprattutto, oggi la prima necessità è far tacere le armi.

Come e quando finirà la guerra nessuno può dirlo. So soltanto, e lo ripeto, che non sarebbe dovuta cominciare. Rispetto e attuazione degli accordi di Minsk, garanzie internazionali sulla neutralità e integrità territoriale dell’Ucraina, inizio del suo percorso per l’ingresso nell’UE, autonomia amministrativa tipo Alto Adige alle province russofone, ritorno ufficiale della Crimea alla Russia: su questi punti il mantenimento della pace sarebbe stato possibile, e non mi pare lo si potesse definire un deserto. Lo sono molto più oggi i territori devastati dai bombardamenti.

Insomma, è sempre meglio una pace anche non equa piuttosto che una guerra giusta. Non sono il primo a ricordarlo, ma un autorevole punto di riferimento per l’umanità predicava così duemila anni orsono: “Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace” (Lc 14,31-32)

Dopo due anni di guerra, allo stato dei fatti, per l’Ucraina le condizioni di un “cessate il fuoco” non possono che essere peggiori, e Putin fa valere con cinismo i rapporti di forza cambiati a suo favore come certificato dalla linea del fronte. Ma anche ora l’alternativa al negoziato, simboleggiato dalla bandiera bianca, è solo la prosecuzione della guerra. Tertium non datur. Continuare fino a quando? Fino alla “vittoria finale”? E quale prezzo siamo disposti a pagare?

Non possiamo eludere questi interrogativi, se vogliamo essere ancorati alla realtà. Come sa essere papa Francesco. Che il Signore ce lo conservi in salute!

Alessandro Risso

Pubblicato su www.associazionepopolari.it