Il nostro sistema produttivo così fragile – di Roberto Pertile

Il nostro sistema produttivo così fragile – di Roberto Pertile

La fragilità strutturale del sistema produttivo italiano impone, innanzi tutto, una riflessione sulle sue cause strutturali: ciò significa ragionare sulle origini del sistema produttivo negli anni della ricostruzione post-Seconda guerra mondiale.

Specificamente, alla fine della guerra, l’esame del processo di rinnovamento democratico, economico e sociale dell’Italia indica la presenza di una volontà riformatrice da parte degli uomini di Governo di allora. In particolare, si auspicava da parte delle forze governative la formazione di una moderna classe dirigente. Per il Sud si voleva intraprendere una politica di intervento straordinario dello Stato in un equilibrato rapporto con l’iniziativa privata.

L’intenzione era mettere in moto un meccanismo di trasformazione strutturale che governasse l’espansione produttiva derivante dalla domanda di beni e servizi per la ricostruzione, soprattutto nel Sud. Questa spinta riformista, però, non ebbe esito positivo, e lo slancio iniziale si fermò dopo qualche anno, dando spazio all’industria del Nord che si sviluppava rapidamente. Luigi Einaudi, nel ruolo di Ministro delle Finanze, coinvolse le forze laiche e liberali, che si schierarono per la libertà di mercato, poco propense all’intervento pubblico e, quindi, non favorevoli a qualunque forma di programmazione.

Questo patto, mai esplicitato ma, secondo gli studiosi, reale e solido, tra Luigi Einaudi e i diversi filoni liberali esistenti in Italia (il “quarto partito”), può essere la chiave di lettura del modello di politica industriale che è stato alla base dello sviluppo degli anni Sessanta e successivi. In altri termini, fatto salvo l’intervento pubblico nell’industria con lo strumento delle partecipazioni statali, la gestione dell’economia veniva delegata alla componente liberale in cambio del sostegno politico alla DC da una parte politica che non si riconosceva nella dottrina sociale della Chiesa. Questa decisione da parte della DC trovava la sua giustificazione nell’urgenza di ricostruire e di dare nuovo impulso all’economia.

Interessa evidenziare, tuttavia, che, in tal modo, non fu promosso un incisivo cambiamento rispetto al regime fascista: il potere è in mano agli eredi di Alberto Beneduce (figura economica di primissimo piano durante il fascismo, primo presidente dell’Iri) iniziando da Donato Menichella (nel dopoguerra Governatore della Banca d’Italia). La continuità produsse un capitalismo controllato da una oligarchia finanziaria (Raffaele Mattioli- Banca commerciale italiana) e da un ristretto gruppo di persone (Agnelli, Pirelli, Falck, Donegani) nel campo industriale. Questo gruppo di uomini, insieme a pochi altri, costituì, dagli anni Settanta in poi, un potere ristretto e oligarchico sotto la regia di Mediobanca, un potere che, col fallimento della nazionalizzazione dell’energia elettrica, del tentativo di programmazione economica e del “centro-sinistra”, facilita il prevalere nella componente imprenditoriale di piccola-media dimensione di uno spontaneismo economico, funzionale all’affermarsi del neo-liberismo.

Parallelamente, dal lato delle forze politiche è stato prevalente l’interesse verso gli equilibri del quadro politico per le mutevoli alleanze partitiche, e molto meno dall’attuazione di un disegno strategico economico. In questo contesto, da parte del ceto industriale vi è stata un’elevata debolezza sia culturale che di visione imprenditoriale come dimostra, ad esempio, lo spreco avvenuto da parte del mondo finanziario e dagli industriali dell’elevata liquidità che è fu immessa nel sistema produttivo privato come, ad esempio, la nazionalizzazione dell’energia elettrica.

Il risultato di quegli anni è il consolidamento di una struttura capitalista retrodatata, facendo dell’economia italiana un soggetto fragile, in permanente crisi. Inoltre, il mancato cambiamento strutturale rispetto al passato ha impedito che si realizzassero le necessarie trasformazioni del sistema produttivo, così che Guido Carli ha potuto definire il capitalismo italiano un “bidone vuoto“. L’assenza, cioè, di una strategia di sviluppo economico a medio-lungo termine diventa la condizione favorevole per un uso “elettorale” della spesa pubblica, che ha prodotto, tra l’altro, un debito pubblico gigantesco.

Prevalse, così, la finanza, che ha avuto in Mediobanca il suo alfiere. È l’aspetto più importante per capire lo sviluppo del sistema produttivo italiano perché l’avere al vertice industriale una merchant bank, che, per sua natura, fa finanza speculativa e non si occupa di programmi economici e sociali. Al regista di una merchant bank interessano le compravendite di asset patrimoniali, (il bilancio viene fatto con le plus e le minusvalenze). Ciò ha comportato una mimetizzazione dell’economia reale. Così, negli anni Sessanta, non avviene ciò che invece avrebbe dovuto accadere; non si passa, tra l’altro, dalla chimica di base a quella “fine”, dall’elettromeccanica all’elettronica nelle telecomunicazione negli anni Settanta (fallimento del piano Iri-Stet).

Si esce dall’informatica come dal nucleare (settori dove l’Italia primeggiava). Nella siderurgia, (nei coils e affini) si sbagliano gli investimenti (ad esempio il raddoppio di Taranto) e si perde la capacità di competere sui mercati internazionali; nell’auto inizia un declino irreversibile, come è dimostrato dalla odierna volontà di Stellantis di ridurre la produzione di vetture negli stabilimenti italiani. Si è affermata, cioè, la natura finanziaria del capitalismo italiano, che dura fino ai giorni nostri, con i suoi squilibri economici e sociali permanenti, che giustificano la fragilità strutturale del sistema produttivo italiano. Le forze politiche, in questo contesto, scelgono, dagli anni Settanta fino ai giorni nostri, di gestire, prioritariamente, la domanda a breve, secondo gli interessi elettorali dei partiti al governo e all’opposizione “dialogante”.

La soluzione alla crisi italiana, che è lungo periodo, va trovata ora negli apporti delle migliori forze sociali del Paese. Altrimenti, è molto più complesso realizzarla nell’ambito europeo, dove la Germania guarda all’Italia con l’ottica di realizzare un “grande spazio tedesco”. A questo fine va evidenziato che la capacità di innovazione e di penetrazione commerciale, propri della “piattaforma industriale tedesca”, fanno sì che sia alta l’attrazione e quindi la propensione delle migliori imprese italiane ad entrare nell’indotto tedesco, che consente di conseguire alti profitti.

Questo processo, che riguarda soprattutto il Veneto e la Lombardia, indica la via da seguire prioritariamente per l’Italia, che è quella di un ambizioso piano governativo, almeno decennale, di investimenti in R&S e in Innovazione, che coinvolga gli operatori di base: Università, Centri di ricerca, Istituti tecnologici e Imprese, per dare al sistema italiano una competitività internazionale. Questa può essere una valida politica strutturale da realizzare per
vincere la fragilità economica italiana.

Roberto Pertile