Autonomia differenziata: l’intervento dei vescovi sicialiani
La Conferenza Episcopale Siciliana ha diffuso il seguente comunicato sul Disegno di legge sulla Autonomia Differenziata in discussione al Parlamento.
Giustamente, gli uomini di Chiesa, tra l’altro cittadini italiani come gli altri, intervengono con delle considerazioni di principio ispirate alla Dottrina sociale della Chiesa. Spetta poi ad altri, a partire dai tanti che si dicono cattolici, e presenti nelle istituzioni e nei partiti, a trasformare in azione politica concreta tali sollecitazioni.
I Vescovi delle diocesi di Sicilia continuano a seguire con attenzione l’iter della proposta di
legge sull’Autonomia differenziata attualmente in discussione alla Camera dopo l’approvazione in
Senato il 23 gennaio scorso. Già in data 23 maggio 2023 la CESi, attraverso il Vescovo delegato per
la Pastorale Sociale aveva presentato le osservazioni all’originario DDL, dopo aver consultato la
Commissione regionale per i Problemi Sociali e il Lavoro, la Giustizia, la Pace e la Salvaguardia del
Creato, l’Osservatorio Giuridico-Legislativo e la Consulta Regionale delle Aggregazioni Laicali
(CRAL); osservazioni regolarmente registrate presso la Commissione Affari Costituzionali del
Senato (seduta n. 67).
Diverse sono state le criticità rilevate nella comunicazione al Senato che in parte sono state
recepite. Tuttavia ne permangono ancora altre, specialmente in riferimento alla particolare autonomia
di cui gode la Sicilia, essendo una regione a Statuto speciale ma che non ha visto ancora non del tutto
attuato quanto contemplato in esso.
Nella scheda allegata si ricostruisce sinteticamente l’iter delle osservazioni e si evidenziano
le ulteriori criticità rilevate nel testo in discussione alla Camera.
I Vescovi di Sicilia
OSSERVAZIONI AL DISEGNO DI LEGGE. DISPOSIZIONI PER L’ATTUAZIONE DELL’AUTONOMIA
DIFFERENZIATA DELLE REGIONI A STATUTO ORDINARIO AI SENSI DELL’ARTICOLO 116, TERZO COMMA,
DELLA COSTITUZIONE (N. 615)
Le prime criticità rilevate nella comunicazione del maggio 2023 attenevano essenzialmente alle
incertezze che attengono ai rapporti finanziari, alle risorse economiche, a fronte di un Sud del Paese
che ha un enorme bisogno di risorse e che ha problemi strutturali storici che andrebbero risolti,
attraverso un percorso reale, fattivo ed in tempi brevi capace di assicurare una risposta unica, certa e
definitiva.
Il quadro delineato dall’originario DDL appariva, invero ancora lo è, caratterizzato da un’architettura
che tende a creare asimmetrie all’interno di un regionalismo asimmetrico. Si era espressa una prima
forte perplessità sull’art. 3 in ordine alla fonte scelta per la determinazione dei LEP (DPCM) (livelli
essenziali delle prestazioni) da parte del Governo, criticità non completamente risolta con il nuovo
testo. Così come era stato criticato il riferimento all’utilizzo della spesa storica per quelle regioni che
intendono chiedere maggiore autonomia differenziata. Infatti tale indicatore, oltre ad essere superato,
farebbe allargare ancora di più la forbice della disomogeneità territoriale delle regioni italiane. Inoltre
sussistevano forti perplessità sulle misure perequative finalizzate a riequilibrare le forti
disomogeneità territoriali che sono state parzialmente recepite nel DDl definitivamente approvato dal
Senato.
Si rilevano ancora delle criticità nel testo inviato alla Camera.
In primo luogo manca un esplicito e necessario richiamo all’art. 2 Cost. fonte del dovere di solidarietà
sociale in favore dei soggetti meno abbienti, che costituirebbe un ulteriore e migliore ancoraggio
costituzionale anche a garanzia e vincolo nella determinazione dei LEP. Ricordiamo che la
differenziazione è da considerarsi come un corollario del principio di sussidiarietà in un processo di
razionalizzazione dimensionale delle competenze tra centro e periferia. Se ne deve inferire che la
dislocazione differenziata di funzioni legislative in singole Regioni non è affatto un adempimento
costituzionalmente necessario, o addirittura un “diritto” di alcune Regioni (o dei loro “popoli”). Deve
invece considerarsi come possibilità di adeguamento del quadro dei poteri, ove prevale l’esigenza di
una più piena attuazione del principio di sussidiarietà verticale e orizzontale e dopo dei suoi corollari.
A tal proposito il novellato testo (Art. 4) richiama l’attenzione sul pericolo di evitare disparità di
trattamento sull’intero territorio nazionale, ma è proprio dalle previsioni normative in esso contenute
che tale rischio emerge.
In primo luogo appare poco prudente la scelta di consentire al Governo di adottare dei decreti
legislativi per la determinazione dei LEP posto che con tale scelta il Parlamento, attraverso delle
Commissioni, potrà soltanto esprimere un parere su quanto deciso dal Governo ed in caso di silenzio
il Decreto legislativo potrà essere comunque adottato (cfr Art .3, comma 2 ult. periodo)
Occorre, a questo punto, soffermarsi con maggiore attenzione sulla fonte che il disegno di legge
prevede per la definizione dei LEP, per il fatto che viene indicata l’approvazione attraverso un atto
amministrativo – il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri – che può provocare più di una
perplessità se si considera la cornice costituzionale che lo concerne. La collocazione di tale categoria
nella disposizione della Carta fondamentale, che sancisce il criterio di riparto delle competenze
legislative tra lo Stato e le Regioni, conduce inevitabilmente a ragionare su fonti primarie: e non solo
la fonte, ma anche la procedura da rispettare per fissare contenuti che danno consistenza ai diritti,
sono aspetti sì procedurali, ma che necessariamente incidono sulla sostanza dei medesimi, come già
da tempo la dottrina più avvertita ha raccomandato.
Anche gli artt. 5 e 6 presentano ancora delle serie criticità. In particolare si osserva che si procede ad
individuare le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite attraverso compartecipazioni al
gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale, mentre sarebbe più utile prevedere
una distribuzione delle responsabilità fiscali per avere delle politiche finanziate in modo responsabile.
La compartecipazione si collega alla produttività dei territori regionali, con la conseguenza che
territori maggiormente produttivi avrebbero introiti maggiori di altre realtà territoriali con una
produttività storicamente ridotta e ciò trasformerebbe la differenziazione in diseguaglianza con
l’evidente rischio di colpire concretamente la coesione dei territori mettendo in grave pericolo l’unità
nazionale.
Infine nell’art 10, dedicato alle misure perequative, non v’è traccia di fondo perequativo di solidarietà
nazionale che permetta di riequilibrare le forti disomogeneità territoriali. Fino a che le regioni del
meridione (ai fini perequativi vanno integrate le capacità di entrate da economia sommersa delle
regioni per avere un dato più affidabile della loro effettiva capacità fiscale) non raggiungono, con un
fondo dedicato, almeno la media della capacità fiscale nazionale per abitante non si può affrontare
per nessuna regione il tema dell’autonomia differenziata a meno che non si preveda un fondo di
solidarietà nazionale vincolato a sanare le disparità delle capacità fiscali territoriali, le cui risorse
vengono distribuite con funzioni, sia di compensazione delle risorse attribuite in passato, sia di
perequazione. Anche la riduzione del cosiddetto “fondo complementare” da 4 miliardi e 400 milioni
di euro, a poco più di 700 milioni di euro rappresenta un ulteriore rischio per le regioni più povere.
La Sicilia si trova immersa in questo scenario che potrebbe vedere uno Stato “arlecchino” con 20
regioni con profili istituzionali uno diverso dall’altro. Sulle 23 materie ogni regione potrà scegliere
quali avocare a sé e quali no. Ricordiamo che secondo degli studi fatti dalla Ragioneria Generale
dello Stato, la Sicilia perderà 1 miliardo e 300 milioni di euro circa l’anno: un impatto disastroso per
una economia già in grande sofferenza.
Ricordiamo però che la Sicilia ha già dal secolo scorso una sua specialità che è molto più rilevante
della differenziazione. Bisogna rammentare gli artt. 36,37 e 38 dello Statuto della Regione Siciliana.
In particolare l’articolo 36 dello statuto stabilisce: “Al fabbisogno finanziario della Regione si
provvede con i redditi patrimoniali della Regione e a mezzo di tributi, deliberati dalla medesima.
Sono però riservate allo Stato le imposte di produzione -accise- e le entrate dei tabacchi e del lotto”.
Ad esso si aggiunge l’art 38: “1. Lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà
nazionale, una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nella esecuzione di lavori
pubblici. 2. Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella
Regione in confronto della media nazionale. 3. Si procederà ad una revisione quinquennale della detta
assegnazione con riferimento alle variazioni dei dati assunti per il precedente computo. Basta solo
leggere per comprenderne l’enorme portata istituzionale.
A tale potente strumento, si aggiunge anche il comma 5 dell’art. 119 Cost. inserito dall’art. 1, comma
1, della legge costituzionale 7 novembre 2022, n. 2 che riconosce le peculiarità delle Isole e promuove
le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità.
Quindi, oltre che rilevare ciò che di critico esiste nell’attuale riforma, la classe dirigente politica
siciliana dovrebbe chiedere al governo nazionale l’attuazione completa dello statuto e non sprecare le
risorse in dotazione, in tal modo sarebbe avviato un percorso di superamento delle criticità portate
dalla riforma sull’autonomia differenziata. Le fondate superiori preoccupazioni rappresentate, siano
intese quale stimolo per reagire agli squilibri strutturali ed economici fortemente presenti nel
meridione e che potrebbero portare a colpire in modo grave l’unità nazionale in favore di preoccupanti
spinte secessioniste istituzionalizzate.