La violenza del Cremlino – di Domenico Galbiati

La violenza del Cremlino – di Domenico Galbiati

Basta un gesto per rivelare un intero universo mentale. E’ sufficiente una frase, addirittura una parola, un’ esclamazione, uno sguardo o un singolo atto per svelare e rendere d’un tratto comprensibile e chiaro, come se d’ incanto s’accendesse un faro, l’abito mentale, il carattere, la stessa postura morale di una persona che solo un istante prima appariva ancora difficile da definire. Ce lo insegnano i maestri dell’antropoanalisi la disciplina sottile che “legge”, grazie al metodo fenomenologico, comportamenti e vissuti delle persone e, per estensione, dei gruppi umani e delle collettività.

Con le cautele del caso, si può applicare questa modalità interpretativa a fatti, circoscritti o ritenuti minori, apparentemente indipendenti da un contesto, che, al contrario, aprono d’un tratto la mente, in un lampo di luce, ad un giudizio più generale su personaggi e panorami storici di cui rivelano la cifra distintiva.

La scomparsa del più noto esponente del dissenso in Russia – ieri la moglie lo ha ricordato a Strasburgo, davanti all’ assemblea plenaria del Parlamento Europeo – toglie definitivamente il velo ( perfino, almeno così dovrebbe essere, per i “putiniani” di casa nostra, taluni francamente indecenti ) ad una comprensione dell’ aggressione russa all’ Ucraina, che vada oltre ogni pretesa motivazione di carattere politico.

La stessa violenza efferata può essere esercitata, indifferentemente, con crudeltà e con la stessa freddezza cinica, contro una singola persona come contro un popolo intero. Nel cuore dell’ Europa, lo abbiamo già visto accadere il secolo scorso, ripetuto, volta per volta, oltre sei milioni di volte. C’è una contiguità intrinseca tra l’ uccisione di Navalny e la ferocia inaudita dell’ aggressione russa al popolo ucraino.

La violenza è una gramigna dell’ anima. Non si sa dove abbia la sua prima origine, per lo più da un piccolo tralcio dimenticato nel terreno, come fosse la memoria di una precedente, sia pure antica germinazione. Genera radici ovunque si espandano a rizoma le sue ramificazioni. Letteralmente succhia il terreno ed attecchisce dappertutto, senza apparire in superficie, intride il suolo in cui si sviluppa e si rivela solo a piena maturazione, quando avvolge, soffocandoli, cespugli ed arbusti. Fuor di metafora, la violenza è contagiosa e mimetica.

Andrebbero studiati a fondo i percorsi psicologici che “adattano” il cuore dell’ uomo che ha una naturale vocazione al bello, al buono ed al vero, perché possa ospitare e nutrire, nella sua interiorità più intima, il verme della violenza.
Succede così – ed anche qui la storia del ‘900 e’ buona testimone – che si diventi “criminali”, senza volerlo, perfino senza saperlo, fino a sopportare una diabolica deformazione dell’ anima, senza avvertirne il peso, come qualcosa che fa tutt’uno, senza stridere, con l’identità della persona. Si diventa “criminali” quando il delitto, l’ omicidio non sono più fatti occasionali, ma rappresentano il costume quotidiano della vita e la violenza sta nell’ ordine naturale delle cose, si autoalimenta, basta a se’ stessa, diventa, in altri termini, necessaria. Ed è così che si formano gruppi di potere che stanno insieme grazie al mastice della violenza e “debbono”, per forza di cose, sacrificarle quotidianamente un tributo di sangue per mantenere viva la complicità, la reciprocità delittuosa di cui vivono.

Quando succede che queste “macchine” criminali assumono la guida degli Stati si generano mostri. Mostri apparentemente invincibili, eppure consapevoli della loro fragilità al punto da temere, come succede oggi in Russia, perfino il cadavere di un uomo libero.

Domenico Galbiati