Il diritto alla “degna abitazione” e il bello – di Adelchi Galbiati

Il diritto alla “degna abitazione” e il bello – di Adelchi Galbiati
Quelle che comunemente chiamiamo “case popolari” sono modesti immobili pubblici concessi in affitto, per un importo ridotto, a determinare categorie di persone che non possono permettersi di acquistare un’ abitazione con i normali prezzi di mercato.
Le case popolari sono riservate a individui e famiglie in stato di bisogno: cittadini disabili, persone senza fissa dimora, nuclei familiari con un reddito inferiore alla soglia di povertà e genitori “single” con figli a carico sono solo alcuni esempi dei cittadini che possono partecipare al bando per l’assegnazione di tali immobili. Essendo i bandi gestiti a livello comunale, requisiti e prezzi d’ affitto variano da comune a comune e puntualmente le richieste superano il numero degli alloggi disponibili. E’ chiaro che le dinamiche sociali che si vanno a costruire in tali complessi sono particolari e delicate.
Individui e famiglie con alle spalle storie difficili, di provenienze geografiche diverse e con appartenenze culturali eterogenee di ritrovano a coabitare in numero elevato. I bisogni, le angosce e le incertezze quotidiane, cosi’ come l’ impossibilità di piantare radici, di certo non aiutano. A tutte queste difficoltà si va a sommare il fatto che spesso tanto gli interni degli appartamenti quanti gli edifici nel complesso sono logori e fatiscenti.
Il problema del deterioramento delle case popolari, che pare di secondaria importanza e che come tale viene trattato, dovrebbe invece essere affrontato come importante misura per promuovere il benessere degli inquilini.
Se l’ obiettivo vuole essere fornire un’ abitazione degna a tutti, non ci si può infatti dimenticare che non basta avere un tetto sopra la testa perché un abitare si possa definire “degno”.
Se l’obiettivo, invece di creare dei ghetti il più possibile nascosti e separati dalla città in cui crescono disagi e malcontenti, e’ promuovere il benessere di queste famiglie, non possiamo non tenere conto della qualità delle abitazioni a loro disposizione. Questa ha un impatto diretto sulla qualità della vita. Ecco allora che uno strumento ci viene in aiuto per remare verso questi obiettivi: il bello.
Aprendo una piccola digressione, proviamo per un attimo a pensare a quanto la bellezza influisca sulla nostra vita quotidiana. La mattina ci svegliamo e ci guardiamo allo specchio: quant’è importante sentirsi belli? Ci aiuta a sentirci a nostro agio, a muoverci disinvolti nella società, a intrattenere relazioni con più sicurezza. Ancora: perché nei giorni di svago ci piace perderci nella natura? Perché guardiamo il tramonto o il profilo di una montagna? Perché quando siamo noi a dover scegliere una casa in cui abitare guardiamo innanzitutto se è circondata da un bel quartiere e perché ce la immaginiamo arredata come piace a noi?
A partire dagli aspetti più comuni della nostra vita e solo apparentemente insignificanti, il bello, in tutte le sue sfaccettature, ha un impatto direttamente proporzionale sulla nostra felicità. Se allora il diritto ad abitare, invece di abbandonare le famiglie alla rassegnazione, vuole diventare un diritto al degno abitare, dovrebbe forse navigare verso il bello.
Iniziamo allora dai quartieri: perché continuiamo a costruire le case popolari nelle periferie più lontane e più difficili? Collochiamole invece più vicine al centro, in quartieri ben collegati, nei pressi delle opportunità lavorative.
Facciamo in modo che gli inquilini, invece di sentirsi diversi, invece di essere stranieri in casa propria, possano mettere radici nella loro zona, integrandosi in modo dinamico con la popolazione locale. Rendiamo l’ eterogeneità culturale che contraddistingue le case popolari un valore aggiunto per la città, invece di isolarla, occultarla e abbandonarla a sé stessa. Investiamo poi sugli interni degli appartamenti, ricercando una cura particolare nella suddivisione degli spazi e garantendo la qualità dei locali di servizio di prima necessità come bagno e cucina e sull’ utilizzo di materiali adeguati per gli involucri esterni degli edifici, importanti per la sicurezza ed il riparo dalle intemperie, ma anche per far apparire questi complessi meno usurati.
Ancora non abbiamo capito che anche l’occhio vuole la sua parte?  Se poi vogliamo che le case popolari non siano solamente una soluzione all’ abitare, ma al vivere, promuoviamo gli spazi comuni. Alberi, giardini, parchi gioco, aule pubbliche: tutti luoghi dove i cittadini si possono incontrare e a partire dai quali possono iniziare a sentirsi parte di una comunità. Invece di atomizzare il patrimonio civico e culturale di questi stabili lasciamo che fiorisca. Perché ciò sia possibile le persone devono avere a disposizione dei luoghi in cui interagire, discutere, giocare. Quanto può dare a un bambino la luce del sole o l’ombra di un albero? Quanto un amico? Quanto può dare ad una comunità uno spazio che non sia di nessuno?
Un esempio che viene dalla storia di chi per gli alloggi popolari s’è battuto può aiutarci a rispondere a queste domande. Il Karl Marx-Hoff, il complesso residenziale più grande di tutta la famosa Vienna Rossa, costruito negli anni ‘20, presentava un modello di case collegate che abbracciavano una rete di asili, scuole pubbliche, librerie, farmacie, giardini, uffici postali, negozi cooperativi e ambulatori medici. Ancora oggi quattro fermate di tram non bastano per arrivare da un capo all’altro di quello che era un “piccolo” ecosistema di cinquemila persone, di quella che era una comunità, formatasi proprio grazie alla promozione di tanti spazi comuni.
La lezione del Karl Marx-Hoff non si ferma qui : le sue abitazioni furono le prime in tutta Vienna a vantare lussi come l’ acqua corrente e i balconi. Non abbandonate a sé stesse, ma supportate dallo Stato: cosi le famiglie della classe operaia viennese tornarono a vivere. Non stupisce che i viennesi rispettino tuttora questo semplice chilometro di mura grosse come un monumento,
La storia ci dimostra che “privato” e “scadente” non sono gli unici modelli possibili dell’abitare. Spetta ora alla nostra volontà dimostrare che le case popolari possono essere un’ alternativa vincente alla spietatezza del libero mercato. Del resto, se uno Stato vuol dirsi democratico ci sono determinati settori in cui non può dimenticarsi d’intervenire (sanità ? educazione pubblica ? Fate voi ) e l’ abitare è uno di questi.
Spetta dunque a noi, se non vogliamo lasciare indietro le persone che abitano le nostre stesse città, ritornare a fare il “bello” e per farlo le case popolari non devono essere più un’ eccezione fuori dall’ ordinario, ma devono diventare la norma.
Adelchi Galbiati