Il patriarcato e la tragedia della “parola” – di Umberto Baldocchi

Il patriarcato e la tragedia della “parola” – di Umberto Baldocchi

Il problema dei “femminicidi” e delle inarrestabili violenze sulle  donne non è soltanto un effetto della discriminazione di genere , che certo ancora esiste, ed è evidente in molti campi, specie in Italia. Alle radici del fenomeno inquietante  c’è però anche altro. Detto in sintesi estrema, c’è anche la tragedia della parola, così dirompente oggi. La tragedia della parola pare da noi  davvero la tragedia dell’uomo moderno, anche quando questa tragedia si mostra nelle relazioni personali, intime  e sessuali, non solo nelle sue manifestazioni collettive e pubbliche. Che è ciò che succede quando la parola va fuori controllo e diviene puro strumento di dominio.

I  “Sei personaggi in cerca d’ autore” erano stati scritti da Pirandello per l’oggi.  Come afferma il personaggio del “padre” rivolto al Capo-comico: “….E’ tutto qui il male ! Nelle parole!  …E come possiamo intenderci , signore, se nelle parole ch’io dico, metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume  col senso e il valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”.

Senza una parola che accomuna, che veicola una dimensione oggettiva del reale, o una sua parte, non è possibile né il dialogo umano, né la vita comune, né la dimensione collettiva. I social e gli algoritmi fingono di unificare, in realtà, pur mettendo in connessione, dividono e contrappongono, creando soltanto degli “ego” collettivi, chiusi all’esterno e non creando relazione.

Pirandello aveva genialmente avvertito, al suo nascere, questa tragedia legata all’uso della parola, che è in fondo ciò che ha permesso di vincere ai moderni totalitarismi e ciò che rende possibile oggi, nel mondo ipertecnologizzato e telematico, il dominio ancor più profondo e tirannico, ma in apparenza più soft del “grande fratello” di Orwell descritto in 1984.

E questa tragedia della parola è esattamente la tragedia “sommersa” e invisibile dei giovani e delle nuove generazioni “allevate” dai social,  quella che riconosciamo solo quando  viene portata alla luce dalle cronache correnti, dai fatti di sangue e di violenza eclatante. Si tratta dei giovani assuefatti alla banalità della trasgressione quotidiana, piccola o enorme, ed inebetiti dal vuoto irresistibile e insopportabile della libertas tecnologica. Di giovani cioè deprivati della possibilità di una crescita personale ed educativa, di giovani cioè espropriati di ciò che è più essenziale per loro, il costituirsi come soggetti in grado davvero di autodeterminarsi e cioè di essere davvero liberi e maturi per la vita. Di giovani che non scambiano la libertà personale, con il puro dominio sulle cose e sugli altri trattati come “cose”. La ribellione aperta contro il “patriarcato” è forse l’inizio della presa di coscienza di questa “espropriazione” o “alienazione”, ben più profonda di quella, prodotta dall’economia capitalistica e  denunciata da Marx.

Le generazioni “telematiche”, i “millennials” hanno infatti potuto costruire la loro identità personale sperimentando un potere reversibile, irresponsabile e svincolato da vincoli e norme- che non  siano quelle puramente tecniche- ed hanno rimodellato l’idea di libertà  configurandola come  un superamento continuo dei vincoli oggettivi dell’esistenza umana. Nessuna generazione precedente ha mai avuto la possibilità di sperimentare così precocemente una situazione, per dirla con Jonas, in cui “ il massimo del potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere attorno agli scopi” ( Hans Jonas Il principio responsabilità, Torino, Einaudi, 1993, p. 31).  E questo individuo, iper-tecnologizzato,  sempre più centrato sul proprio io , privato di rapporti diretti che non siano mediati da un congegno tecnologico, privato talvolta di rapporti diretti con gli effetti delle proprie azioni, per il fatto stesso di vivere in una civiltà della mediazione universale, è spinto a sperimentare una forma assoluta di potere sulle cose e sugli uomini, un potere che equipara le persone alle cose costruendo una realtà virtuale  fino alla distruzione del sé. Realizzando un oltre-uomo, che ben poco ha di umano, che riduce l’io a pura energia o puro potere.

Non è strano allora che questi giovani non sappiano neppure cosa è un reato, cosa è che offende gli altri in modo irreparabile. “Tanti ‘adulti’ uccidono, stuprano e picchiano perché nessuno a scuola gli ha mai detto che è sbagliato”  denuncia, con qualche approssimazione ma con un contenuto sensato, un volantino con cui si comunica l’inizio della occupazione di una scuola in un Liceo di Lucca il 22 novembre .

E perché si è perso il concetto di reato? Qualche anno fa in un episodio di cronaca si parlava di alunni che “bullizzavano” un docente. Ebbene, alcuni studenti interrogati in merito risposero che pensavano si trattasse di uno scherzo, non di un reato. E’ evidente che le offese alla identità personale, sessuale o religiosa , le offese alla riservatezza personale (aggredita dai reati informatici),  le offese alla libertà e intangibilità sessuale (la sessualità negata nella sua natura relazionale ed affettiva), le offese alla libertà morale (bullismo, cyberbullismo e via dicendo) non sono percepiti come reati se non esiste l’idea, anche rozzamente concepita, di dignità personale e di valore intangibile della persona, di ogni persona. Valori che nelle vecchie società erano praticati e condivisi anche da chi non andava a scuola o era analfabeta. Chissà perché.

Perché invece questo vuoto culturale che la scuola non è riuscita a contrastare insieme alle altre agenzie educative?  Semplicemente perché questo vuoto è oggi occupato anche dalle culture “patriarcali” che i ragazzi hanno cominciato a denunciare a voce alta.

Ma cosa è oggi “patriarcato”? Patriarcato non vuole semplicemente dire  tradizionalismo o autoritarismo o società dominata dai padri e dalle figure maschili. La cultura patriarcale è la cultura del potere discrezionale, del potere egolatrico che non risponde a nessuno, che sia quello di un padre o di altra persona nulla cambia.  Una cultura che può dominare oggi nel mondo tecnologico, ma che è anche antichissima. Una cultura che si basa, oggi come un tempo, sempre sull’abuso, sulla negazione o sulla prostituzione della parola. Che distrugge la parola relazionale e manipola le relazioni umane. Che incide profondamente anche nei rapporti interpersonali, intimi e  sessuali.

La “cultura della violenza sulla donna” nasce di qui. Essa è già perfettamente descritta in un passaggio della Bibbia, laddove si parla della relazione tra Amnon e Tamar, rispettivamente figliastro e figlia del re David. Amnon, invaghitosi di Tamar, la attira a sé per poi violentarla di fronte al suo rifiuto. Il brano, che meriterebbe una approfondita lettura psicanalitica, per i profondi significati psicologici disseminati nei particolari del testo, mostra con chiarezza che la violenza sessuale nasce laddove manca la parola umana vera , quella che viene dal cuore e dalla mente, dalla capacità umana di empatia, e crea relazione,  e domina invece la parola fredda che da ordini chiede informazioni o cerca di manipolare la volontà altrui, la parola che impone un potere e crea sottomissione.

Nella violenza del rapporto di Amnon con Tamar non c’è alcun ascolto dell’altro, e l’odio può subentrare con naturalezza inquietante all’ ”amore”-  anzi ne è la logica prosecuzione, e quell’odio si accompagna alla  separazione rottura di tutti i legami affettivi, espressa dal silenzio egocentrico delle personalità maschili, che poi intervengono, quella del re David e poi del fratello Assalonne. Quella rottura relazionale porterà poi alla uccisione di Amnon. ( 2 Samuele, 13, 1-22).  Tamar è vittima del “patriarcato” che si manifesta nel silenzio complice degli uomini che dovrebbero proteggere la donna (il re Davide e Assalonne), ma sono in realtà impegnati in una cinica lotta per il potere ( irresponsabile), che cancella totalmente lo spazio umano della parola.

Questo è però anche  il “patriarcato” del XXI secolo. Un “patriarcato” che rassomiglia oggi più al potere spregiudicato di Don Rodrigo, che nacque, nella fantasia manzoniana, proprio da una analogia con le vicende bibliche del potere di David. Un “patriarcato” forse  peggiore di quello antico perché umilia e calpesta la donna (o meglio la donna comune, quella senza potere, non certo la donna star, la donna potente, la donna manager, la donna banchiere, ecc. che nessuno tocca) senza accordarle in cambio alcuna “protezione”, sia pur paternalistica e interessata.

Ma come contrastare il patriarcato del XXI secolo? Certo, sarà importante prevenire con mezzi adeguati il reato, introdurre elementi di educazione affettiva e sessuale nelle scuole, ed anche elementi di formazione civile- che sono oggi gli studenti a richiedere mentre qualche decennio fa erano i docenti italiani che però nessuno ascoltò- . Ma forse, anzi probabilmente, ci vuole qualcos’altro.

Ci vuole un uso diverso della parola. Semplice da dire, complesso da realizzare, perché ha bisogno del contributo di tanti. Ci vuole una parola che costruisca le relazioni e che faccia il “miracolo” di ricostruire le relazioni laddove esse sono state strappate e restituisca alla donna la capacità di difendere fino in fondo la sua dignità. La parola “riumanizzata” potrebbe fare dei miracoli, anche quello di  “riumanizzare” l’uomo, dove è necessario.

Umberto Baldocchi