Le mamme con i bambini in carcere – di Mario Pavone

Le carceri Nuove 1857-1870

A pochi giorni dal suicidio di due detenute nel carcere delle Vallette di Torino, il tema del sovraffollamento delle strutture penitenziarie italiane resta in primo piano. «Ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia e mia personale»-come ha affermato il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, dopo la morte di Susan John, la donna nigeriana di 43 anni, lasciatasi morire di fame e di sete, e di Azzurra Campari, la 28enne italiana trovata impiccata nella sua cella.

Sono casi eclatanti, ma già lo scorso anno un magistrato scrisse una lettera aperta, all’indomani del suicidio di un’altra donna, ammettendo di aver commesso un errore, di non essersi reso conto che si trattava di una persona fragile ed aggiungendo  lapidariamente che “è responsabilità di tutti farsi carico del problema, senza limitarsi a gridare allo scandalo quando accadono casi del genere(sic!!).

Record di suicidi in carcere

Se il doppio suicidio alle Vallette ha riguardato donne, il problema delle morti in cella spinge a trovare una soluzione per tutta la popolazione carceraria.

Nel 2022 si sono registrati 84 suicidi negli istituti penitenziari italiani, il numero più alto

Secondo un’analisi del Garante dei detenuti, pubblicata lo scorso dicembre quando i suicidi erano 79, è donna il 6% di chi ha deciso di porre fine alla esistenza in carcere.

Il numero maggiore di suicidi (avvenuti in 55 strutture su 190 su tutto il territorio italiano) si è verificato a Foggia con cinque casi, quattro avvenuti a Milano San Vittore e Firenze Sollicciano, seguite da Roma Rebibbia e Roma Regina Coeli, con tre episodi.

Quante sono le donne nelle carceri italiane

Quanto accaduto, che appare come un film già visto più volte, ripropone con forza il tema della detenzione femminile ma ancor più quello delle Madri detenute con i loro bambini.

La criminalità femminile è divenuta materia di indagine e di studio solo da poco,ossia da quando, negli ultimi trent’anni, le donne sono diventate protagoniste del profondo cambiamento sociale che ha interessato il nostro Paese e che si è risolto nella approva zione di una serie di leggi a favore della libertà e della emancipazione delle donne: dalla procreazione controllata alla depenalizzazione dell’aborto, dal divorzio all’abrogazione del reato di adulterio femminile, con il riconoscimento di una parità – in termini di diritto di accesso a lavori prima esclusivi del mondo maschile e di parità di retribuzione – che interessa ora l’intera sfera sociale.

Va sottolineato come la ridotta incidenza statistica della delinquenza femminile anche se, è stato registrato un lieve aumento di tale fenomeno, aveva determinato in passato uno scarso interesse alla detenzione femminile che ha portato a trattare i problemi e le difficoltà delle donne allo stesso modo in cui vengono trattati quegli degli uomini, con una carente analisi della differenziazione dei loro bisogni e con la propensione a generalizzare anche gli eventuali problemi da proporre.

Ne deriva che molti dei problemi specifici, che sono legati alla detenzione della donna, sono stati poco o male osservati e valutati.

È forse per questo che il diritto penitenziario ha trascurato di adeguarsi ai cambiamenti che sono avvenuti nella società in termini di diritti delle donne anche a proposito del problema che più di ogni altro pesa sulle donne detenute ossia il problema della maternità in carcere.

Secondo il Garante dei detenuti, le donne detenute sono 1.488, pari al 4% della popolazione carceraria italiana, distribuite in 49 sezioni femminili all’interno di case circondariali miste (ma di fatto a prevalenza maschile) e quattro istituti esclusivamente riservati a donne che sono quelli di Rebibbia a Roma, di Trani, Pozzuoli e della Giudecca a Venezia. Sarebbero una minoranza, dunque, ma è come se scontassero una “doppia pena”.

«Purtroppo le donne sono spesso colpevolizzare due volte e scontano una doppia pena: oltre a quella per le azioni illegali che hanno compiuto, non sono ritenute buone madri», afferma Diana De Marchi, Presidente della Commissione Pari Opportunità del comune di Milano.

Sempre secondo il Garante «fatta eccezione per il carcere di Rebibbia, che non solo è quello femminile più grande d’Italia, ma anche d’Europa ed ospita circa 3/400 donne, per gli altri Istituti a, prevalenza maschile, non c’è di fatto un’adeguata offerta di attività per le detenute in carcere  il cui compito è rieducativo e di reinserimento sociale, come previsto dalla Costituzione» ed aggiunge «Nella maggior parte dei casi alle donne viene data la possibilità di svolgere attività che si limitano al beauty o all’uncinetto ma che, soprattutto, non danno alcuna possibilità di reinserimento sociale o lavorativo.

Come alternativa, occorrerebbe pensare a un corso di alfabetizzazione per detenute straniere o di informatica per tutte per favorire il reinserimento al lavoro.

Un esempio virtuoso, da menzionare, è quello avviato dal Carcere di Lecce con il Progetto “Made in Carcere” che prevede la realizzazione di borse ed accessori di abbigliamento da parte delle detenute da vendere in negozi convenzionati, un’idea vincente sul mercato perché adottata  anche da Grandi Firme della Moda.

Le madri detenute con i loro bambini

Secondo l’Associazione Antigone, al 31 gennaio 2023 erano 17 i bambini di età inferiore a un anno che vivevano in carcere con le loro 15 madri detenute.

Il nucleo più cospicuo, composto da 8 donne con 9 bambini, si trovava all’interno dell’ICAM di Lauro, seguito da 3 donne e 3 figli nell’ICAM di Milano San Vittore e da una donna con 2 bambini nell’ICAM della Casa di Reclusione femminile di Venezia.

Vi sono poi tre nuclei composti solo da una madre e un bambino all’interno dell’ICAM della Casa Circondariale di Torino, nella sezione nido di Rebibbia femminile e nella sezione femminile della Casa Circondariale di Lecce.

L’andamento della presenza dei bambini in carcere ha continuato a oscillare negli ultimi trent’anni in alto (fino a superare le 80 unità) e in basso senza essere particolarmente influenzato neanche dalle modifiche normative introdotte nel tempo a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori con la istituzione degli ICAM di xui diremo oltre…

È stata invece la pandemia, con la paura per le carceri,che ha comportato, una drsatia riduzione dei  numeri, passati dai 48 bambini della fine del 2019 ai 29 della fine del 2020, fino a raggiungere i 17 che oggi si trovano all’interno di istituti di pena.

Secondo la Relazione sull’amministrazione della Giustizia nel 2022, la riduzione del numero dei bambini in carcere è individuabile sia nella contingenza dell’emergenza epidemiologica sia nel favore crescente per le misure alternative e sostitutive, concesse in via prioritaria dall’Autorità giudiziaria alle donne madri di figli minori.

Rispetto alla nazionalità delle madri detenute è possibile constatare l’esistenza di un numero maggiore delle detenute straniere, le quali probabilmente incorrono in maggiori difficoltà nell’accesso a misure alternative.

Quali sono le misure alternative esistenti

Le attuali alternative al carcere per la popolazione carceraria femminile  sono rappresentate dalla semilibertà (si esce di giorno per svolgere attività lavorativa, di studio o volontaria, per poi tornare a dormire in carcere); l’affidamento in prova ai servizi sociali (dopo l’attività autorizzata dal magistrato di sorveglianza e dalla direzione, non occorre tornare in carcere); la detenzione domiciliare, sia precedente che successiva al processo.

Quando nel 2013 l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo a causa del sistema penitenziario da riformare, venne aperta la strada a misure come la possibilità di scontare gli ultimi due anni di pena ai domiciliari.

Ma,di fatto,tali misure non possono essere usufruite dar chi, per esempio, non ha una casa o un lavoro, oppure ha un pregiudicato in famiglia oppure si tratta di persone in povertà economica, culturale e relazionale»come nel caso di detenuti/e stranieri.

Occorre,quindi,pensare a strutture intermedie gestite sul territorio per le Donne e Madri detenute per ridurre gli ingressi in carcere e facilitarne le uscite, senza far venire meno la sicurezza, ad esempio creando strutture intermedie sul territorio, gestite dagli enti come Comuni, Regioni o terzo settore come, un tempo, erano le Carceri Mandamentali..

Non occorrono,quindi,nuove mura di cinta o filo spinato utilizzando le Caserme dismesse- come afferma il Ministro Nordio- ma più permeabilità con la società civile, come prevede l’art.17 della Costituzione ed occorre smettere di pensare che il carcere sia un luogo a sé. Le morti che  sono avvenute devono farci interrogare di più su queste tematiche..

Che cosa sono gli ICAM

Gli ICAM sono nati a seguito della legge n. 62/2011 proprio al fine di valorizzare il rapporto tra detenute madri e figli minori e creare una alternativa alla detenzione in carcere..

L’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (abbreviato in ICAM) venne costituito in via sperimentale a Milano nel 2006 per consentire alle detenute madri che non posso no usufruire di alternative alla detenzione in carcere di tenere con sé i loro figli.

In totale sono dodici  gli istituti carcerari italiani che ospitano i figli delle Madri detenute  alcuni con veri nidi, cioè spazi attrezzati ad hoc e in cinque casi si stratta di ICAM  ossia  strutture detentive i più simili a case che a luoghi di detenzione, previste dalla legge ma finora realizzate solo in parte. La convivenza tra donne e bambini è comunque forzata e con ritmi imposti dalle regole del carcere, ma resta più umana che nel carcere vero e proprio, dove mamme e detenute comuni sono mischiate e dove i tempi degli adulti, il rumore e la tensione dovuta al poco spazio condizionano pesantemente la crescita dei bambini,.

Gli ICAM – così come le sezioni nido delle carceri ordinarie, aree detentive allestite per i bambini – servono ad alleviare in qualche modo l’esperienza del carcere ai figli piccoli delle detenute.

Il modello di custodia attenuata che si segue può avere effetti positivi sulle detenute e sul loro percorso di reinserimento della società, ma parliamo comunque di un carcere: per quanto attenuata, e in molti casi gestita con competenza e attenzione, la detenzione viene in ogni caso percepita dai bambini, con potenziali conseguenze negative sul loro sviluppo.

Per questo, chi si occupa di detenute con figli ritiene che sia sempre necessario il ricorso a misure alternative, come la detenzione domiciliare o le case famiglia protette, in grado di far scontare la pena alle detenute ma anche di garantire ai figli e alle figlie un’infanzia il più possibile assimilabile a quella dei bambini liberi.

Questi trattamenti alternativi riguardano ad esempio il soggiorno in reparti particolari, a custodia attenuata, meno duri rispetto al carcere vero e proprio: l’ambiente deve essere accogliente e più simile ad una vera casa, proprio per evitare che i bambini soffrano l’esperienza della carcerazione forzata.

L’Ordinamento penitenziario italiano, in effetti, prevede che le madri detenute con prole inferiore ai sei anni debbano usufruire di trattamenti alternativi alla detenzione, finalizzati a non traumatizzare eccessivamente i figli, che fino a quell’età devono in ogni caso rimanere sotto la tutela del genitore di sesso femminile che ne faccia richiesta.

L’ICAM è una struttura che non ricorda in alcuna maniera il carcere, essendo simile ad un asilo nido, in cui i bambini possono trascorrere serenamente il periodo di “carcerazione” insieme alle loro madri: camere confortevoli e luminose, ambienti personalizzati, infermeria, ludoteca, biblioteca e aula formativa per le donne, cucina attrezzata e soggiorno sono stati appositamente concepiti per consentire alle madri detenute con bambini piccoli una vita più dignitosa.

L’esempio virtuoso dell’ICAM di Milano

In Italia, esistono attualmente solo pochi centri a custodia attenuata.

Uno di questi è l’ICAM e della Casa famiglia Ciao, a Milano, luogo ove le “recluse” possono soggiornare con i loro figli sino al compimento del sesto anno di età.

La struttura opera dal 2006 in via sperimentale ed è sorto da una convenzione tra il Comune di Milano, il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria e il Tribunale per i minorenni affinché le madri possano avere un’alternativa alla carcera zione, in modo da tenere i figli con sé. L’iniziativa ha avuto successo ed è diventata un modello a livello nazionale. Sempre  a Milano è sorta la casa famiglia Ciao, che ha le stesse finalità.

Si tratta di realtà importanti che possono essere replicate in altre regioni come spiega Diana De Marchi, che grazie alla delega al Lavoro e Politiche sociali della Città Metropoli tana di Milano, ha lavorato alla riattivazione dello “sportello Lavoro e Diritti” presso gli istituti penitenziari milanesi allo scopo di promuovere attività che facilitino il reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti.

Le case protette

Tuttavia, stare in cella con la mamma, ma solo fino ai tre anni, non è la soluzione al problema dei bambini delle detenute perché  la separazione dopo tale periodo crea disagi psicologici e problemi di crescita: bambini, affidati a famiglie adottive o in carico ai servizi sociali, sono spesso privati di tutto il contatto fisico di cui avrebbero bisogno per conquistare fiducia e sicurezza e tendono a vivere la separazione come un abbandono, come sottolinea Ornella Favero di Ristretti Orizzonti, importante Rivista del Sistema Carcerario.

Per contro le Case Famiglia Protette, gestite da Associazioni, Volontari, Parrocchie, appaiono come l’alternativa più efficace, anche se a tutt’oggi insufficienti a ospitare tutti i bambini con le loro mamme.

«La mamma resta dentro a espiare la sua pena, ma il bambino può uscire, andare al nido o a scuola, accompagnato dai volontari», spiega l’Associazione Antigone, «Anche se i volontari sono figure esterne, diverse dalla mamma, che quindi agli occhi del bambino conserva un raggio d’azione sempre limitato, offrono un’accoglienza e un sostegno che possono far crescere i piccoli in un clima più equilibrato e familiare.

I bambini in carcere come vivono?

A questo punto occorre chiedersi: come vive un bambino in carcere? Come si disegnano il suo orizzonte, il suo linguaggio, la sua capacità di movimento negli spazi ristretti della cella? Di chi impara a fidarsi, oltre alla madre, alle altre detenute e al personale penitenziario?

La vicenda dolorosa accaduta nel Carcere di Rebibbia, dove una detenuta ha lanciato dalle scale i suoi due bambini (la piccola è morta e per il fratellino di neanche due anni è stata dichiarata la “morte cerebrale”), ha riportato all’improvviso alla ribalta la condizione dei bambini tra le mura della prigione, bambini sui quali ricadono inevitabilmente le scelte delle madri oppresse dal senso di colpa di doverseli tenere con sé, spesso obbligate dalla povertà o dalla solitudine, che può cagionare, nei casi più estremi, il loro suicidio..

Sta di fatto che «I piccoli che restano in carcere con le madri vivono in strutture obsolete, poco ariose, create per gli uomini e che non sempre hanno la sezione nido, dove le donne rappresentano appena il 5 per cento dei detenuti e dove i bambini fino ai tre anni possono stare per legge quando è la mamma stessa a chiederlo, nel caso in cui non si voglia separare dai figli, oppure non abbia familiari o una casa disposti ad accoglierli» spiega Ornella Favero.

Colpevoli di nulla, questi bambini trascorrono i primi anni della loro vita tra porte blindate e sbarre, in una sezione dove il cancello della cella resta aperto ma da cui, per uscire, si devono attraversare altre porte blindate e cancelli con altre sbarre. Un orizzonte limitato, oltre il quale non c’è scoperta, avventura, sorpresa. Perché finisce lì.

«Di solito c’è un cortile o un giardino interno attrezzato con i giochi per i bambini, ma vi si accede a orari determinati e sempre con chiavi e cancelli, delimitato da muri spesso grigi, in cemento. Dove ci sono solo donne e gli unici uomini sono agenti in divisa, dove mancano figure maschili di riferimento e gli scambi sociali sono limitati alle detenute e ai loro figli, al personale penitenziario e ai volontari, se ci sono. Dove spesso le stesse mamme soffrono di gravi disturbi o arrivano da situazioni di disagio e disperazione» sottolinea Ornella Favero.

Il tempo per queste mamme è un tiranno, non perché ne abbiano poco (come accade nella routine di tutte le mamme), ma perché è tutto ciò che hanno da offrire ai loro bambini.

E i bambini hanno “solo” loro, l’unica figura di riferimento. Ed ecco che il legame tra i due diventa strettissimo, dove i chiaroscuri propri del binomio mamma-figlio qui prendono tinte forti, sulla spinta dei sensi di colpa, del rifiuto o, al contrario, di un’accettazione passiva.

Questo accade  fino al compimento del terzo anno di età, quando, all’improvviso, il legame con la Madre viene interrotto ope legis e, purtroppo, i tempi e i modi di questa lacerazione sono dolorosi per entrambi poiché la mamma viene allontanata con un pretesto e al suo ritorno il bambino non c’è più.

Seguono scene di disperazione, donne che si feriscono gravemente come pure bambini incapaci di capire perché vengono portati via dall’ambiente in cui hanno sempre vissuto, l’unico che conoscono, per entrare in una vita “normale”, ma non per loro, cresciuti in prigione..

Anche il colloquio con i fratelli arrivati da fuori con un familiare (quando c’è), apre nuove ferite, che si rinnovano a ogni visita perché gli stessi i non capiscono perché loro devono restare dentro mentre gli altri familiari se ne vanno a casa..

La cruda realtà dei bambini in carcere non deve indurci al pietismo per tale incresciosa situazione, ma occorre risolvere il problema senza indugio ampliando il ricorso a misure alternative che permettano alle detenute madri di scontare la pena insieme ai figli in contesti familiari, salvaguardando il proprio ruolo genitoriale e lo sviluppo del bambino nei primi anni della sua vita.

Potrebbe essere una buona risposta, ma non l’unica, per deflazionare il Sistema Carcerario senza ricorrere a nuove strutture da allestire in tempi non certo brevi. Sul punto, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha affermato che «Le donne nelle carceri sono una minoranza quantitativa, ma anche qualitativa, nel senso che a loro sono offerte anche meno possibilità di attività all’interno delle strutture, mentre dovrebbero essere luoghi di recupero, come afferma la Nostra Costituzione».

Tenere separato un bambino in quanto figlio di una detenuta costituisce una violenza inaudita, che contraddice espressamente i contenuti della Convezione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, oltre a essere sul filo dell’incostituzionalità.

“La pena”, dice l’art. 27 della Costituzione Italiana, “non deve mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. In definitiva, se la pena da scontare resta imprescindibile, essa deve essere considerata secondaria rispetto ai diritti del minore che vanno comunque, tutelati. Una pena che divida traumaticamente una donna da suo figlio o li costringe a convivere  solo in condizioni di restrizione, è una pena disumana non soltanto per una ma per entrambi..

“In un paese civile e per un’Amministrazione che voglia essere degna dello Stato che serve e rappresenta, i problemi umani non ammettono disattenzioni, distrazioni ed insensibilità, né ammettono rifiuti o ritardi, giacché il prezzo di questi è l’attesa spasmodica e la moltiplicazione delle sofferenze di chi chiede, è l’intollerabile inquietudine e rimorso di coscienza di chi, potendo fare tutto o almeno qualcosa, non fa nulla o fa meno di quello che potrebbe” (N. Amato già Direttore generale delle carceri italiane).

Mario Pavone