Vecchia, cara scuola, tra algebra e bicicletta – di Giuseppe Sacco

Vecchia, cara scuola, tra algebra e bicicletta – di Giuseppe Sacco

Non c’è dubbio che il rapporto quantitativo tra ciò che si impara a scuola e ciò che si impara dalla società,  quale essa racconta se stessa attraverso i media e i cosiddetti social,  sia profondamente cambiato negli ultimi trent’anni. La vera e propria irrigazione a pioggia che questi canali riversano in maniera diluviare sulle menti e sulla personalità dei giovani porta in sé la maggior parte degli elementi che formeranno la visione del mondo di questi ragazzi.  E non può sfuggire a nessuno quanto la violenza fisica e l’uso delle armi vengano, specie nei film americani,  presentati come elementi della normalità quotidiana, molto di più di quanto non accada per la tanto biasimata sessualità.

Trovo quindi piuttosto sbagliato prendersela solo o principalmente con l’istituzione scolastica, e con la sua decadenza degli ultimi anni, quando si verifica un caso come quella della professoressa aggredita a coltellate ad Abbiategrasso, nella immensa periferia metropolitana di Milano. La banalizzazione della violenza, l’idea che ci si posso fare solo giustizia da sé,  permeano ormai tutta la società al di là dei muri della scuola. La colpa della scuola, soprattutto della scuola media, è semmai un’altra: quella di non riuscire quasi mai ad interessare ed appassionare le giovani menti ai temi, letterari, storici o scientifici che siano, che sono da sempre riconosciuti come fondamentali per la formazione della personalità, così come per metabolizzare per ricollocare al proprio posto ogni esperienza vissuta,  ogni insegnamento proveniente dall’avventura stessa di vivere. Ma questa è – appunto – una colpa assai antica

 Vecchia cara scuola media

Non si tratta di un problema solo di oggi. Non è una malattia recente, l’insufficienza formativa della scuola, il suo frequente fallimento nel compito di fornire agli studenti le conoscenze, gli strumenti – e soprattutto la mentalità critico-analitica – che possano poi consentire loro di assorbire senza danno, anzi  inserendolo in un quadro coerente, tutto il sovrappiù che essi impareranno dal loro contatto con la società e con la sua autorappresentazione.

L’attuale diffusa consapevolezza di questa insufficienza, la scarsa considerazione per il funzionamento del sistema scolastico, è condivisa da tutte o quasi le generazioni, deriva di norma dalle esperienza personale anche di quelli tra noi che sono molto avanti negli anni. Anche chi scrive non ha mai infatti dimenticato – tanto per fare l’esempio  più eminente – come avvenne il suo impatto con i primi elementi dell’algebra, strumento intellettuale quanto pochi altri necessario per la comprensione dell’età contemporanea. E l’impatto con la persona, la Professoressa Falcone, cui il caso aveva destinato il compito di insegnarglieli. Quell’impatto, avvenuto quando, alla metà esatta dello scorso secolo, non esisteva ancora la Televisione, e quando avevo poco più di dieci anni, ha lasciato un segno nella mia memoria che ancora oggi rimane vivissimo. Lo ricordo, nonostante sia passata quasi una vita, come se fosse ieri.

“In Algebra” ci aveva detto la Professoressa Falcone, una donna pienotta e miope, dall’aria della madre di famiglia un po’ frustrata ” la cosa più importante che dovete ricordare è che più e più fanno più, più e meno fanno meno, e meno e meno fanno più”.

A questa apodittica affermazione aveva fatto seguito una spiegazione che non debbo aver capito, perché non ne ricordo assolutamente nulla. Ma che mi costrinse a fare ricorso al tutta la mia immaginazione per poterle dare un senso, tanto mi parve oscura e complessa. Cercai allora di fare come fanno – a dire di certi accademici vieux jeux, un po’ maschilisti – le studentesse, che dopo aver ascoltato un ragionamento astratto chiedono sempre al professore di fare un esempio concreto. E alla fine mi convinsi di averlo trovato, un esempio.

Più o meno soddisfatto, non ritenni perciò di porre domande o chiedere ulteriori chiarimenti. Ma questo non era evidentemente il caso di un altro studente, seduto come me in prima fila, al mio stesso banco, giusto a fianco a me. E infatti Pantanella – ricordo ancora il suo cognome – non doveva proprio esserci riuscito perché, poco dopo la fine della spiegazione, alzò la mano e disse: “Capisco più e più, e più e meno. Ma non capisco perché meno e meno dovrebbero fare più.”

A queste parole, la Professoressa Falcone assunse un’aria a metà strada tra severa ed indignata; o forse che le esprimeva tutte e due, tanto una (pretesa) naturale severità quanto una (altrettanto fasulla) indignazione. Il suo sguardo si fissò per qualche secondo su Pantanella in modo assai duro. “Pantanella, stai zitto”, gli disse. Poi ebbi la sensazione che si rivolgesse verso di me, che ero seduto immediatamente lì, a fianco di Pantanella. E mi parve di leggere nei suoi occhi un’interrogazione, cosicché – ancora tutto preso dall’entusiasmo di aver trovato un esempio che svelava il mistero del doppio meno – candidamente chiesi: “vuole che lo spieghi io?”

Non l’avessi mai fatto!

Evidentemente, no. Non mi voleva interrogare. Infatti, con espressione e tono improvvisamente diventati furibondi, la Professoressa Falcone mi apostrofò: “zitto tu!”. Ed io dovetti dire qualcosa come “ma…”, perché si fece rossa in volto, assunse l’espressione di una furia e disse, anzi quasi urlò: “niente ma, screanzato ! Anzi, vai fuori della porta, e stacci fino a fine lezione”. Io mi guardai attorno, forse per vedere se avevo capito bene, e vidi Pantanella ancora con la mano alzata, e al banco a fianco, sempre in prima fila, una altro scolaro, Jacobitti, con la bocca aperta per la sorpresa. Il resto della classe, dietro alle nostre spalle si sganasciava invece dalle risate. Non capivo. Ma forse dovetti intuire qualcosa, perché, senza aggiungere parola, mi alzai e me ne andai.

Nessuno aveva mai visto la professoressa Falcone, quella donna quieta e rotondetta, inferocita così. E pochi minuti dopo la mia espulsione, e molto prima della  fine dell’ora di matematica, un ragazzo di origine fiorentina – Jacobitti, appunto – , raffinato e studioso, cortese, freddino e non molto sincero, uscito dall’aula con la scusa di andare al bagno, volle sapere cosa diavolo fossi stato sul punto di dire, da scatenare una reazione così. Ma in realtà non lo sapevo neanch’io. Potevo solo dirgli cosa credevo di aver capito, insomma perché secondo me non era senza senso che meno e meno facesse più.

“E perché?”, chiese lui. E io tirai fuori l’esempio concreto che avevo trovato: “Perché se vado in bicicletta per trecento metri (la bici era la mia passione del momento) più altri duecento, dopo i primo trecento continuo a pedalare nella stessa direzione. Giusto?”. E lui annuì appena appena, come se non volesse compromettersi troppo. ”Ma se debbo fare trecento metri meno duecento, dopo i primi trecento debbo fare dietro-front, insomma fare una conversione ad U.”

L’espressione “conversione ad U” dovette piacergli, perché si sbilanciò a dire. “Giusto!”, e ciò mi incoraggiò ad andare avanti nel mio discorsetto algebrico-ciclistico. “Ma allora, quel meno significa che si deve fare una conversione ad U”. E lui disse “….Si”. Con tono incerto, però.

Ma io ero ormai lanciato e non mi feci scoraggiare: “Ma allora, se uno si trova davanti a  due meno di fila, che cosa deve fare? Due conversioni ad U, una dopo l’altra, deve fare!”

Gli occhi di Jacobitti si illuminarono immediatamente: “Che vuoi dire? Che si va avanti nella stessa direzione? …. Ecco perché meno e meno fanno più!” Poi si oscurò di nuovo: “Ma che c’entra l’algebra con la bicicletta? Chi te l’ha raccontata questa storia”

“Nessuno. E non so neanche se ho capito bene”, confessai. “Ma voglio dire che se uno sta contando per misurare una quantità, e si trova dinnanzi un più, continua nella stessa direzione. Se incontra un meno torna indietro, e conta nell’altro senso. Ma se trova due meno, deve fare dietro-front due volte, cioè continuare come prima.” Jacobitti annui e batte le palpebre due o tre volte. Poi, come se non mi volesse dare troppa soddisfazione, cambiò discorso. E concluse: “ma chissà perché la Falcone si è incazzata così!”

Cretino, oppure pazzo ?

La cosa sembrava finita lì. E invece no. La Professoressa Falcone parlò al Preside della mia “indisciplina”, per far inviare una richiesta ufficiale di vedere uno dei miei genitori. Ed a mia madre, che diligentemente si presentò a colloquio, un paio di giorni dopo, chiese esplicitamente s’io fossi cretino oppure pazzo. Al che mia madre – cui avevo naturalmente raccontato la vicenda, così come a mio padre – rispose diplomaticamente che avrebbe verificato. Ma cosa davvero ne pensassero, né lei ne mio padre, non l’ho mai saputo, perché a casa non si dilungarono mai sull’argomento. Credo di aver capito solo più tardi l’interpretazione che essi davano dell’accaduto, così come le ragioni del loro silenzio.

A tornare sull’argomento fu invece Jacobitti, qualche giorno dopo. Mi disse che “si era informato”, che aveva parlato con un professore di matematica, e che la mia spiegazione stava in piedi. E aggiunse che questo professore gli aveva, malignamente, detto che probabilmente la Falcone voleva che la domanda sul perché meno e meno dava più non venisse neanche posta, perché lei una spiegazione non avrebbe saputo darla.

Io non dissi nulla; anzi feci quasi mostra di essere sorpreso. Ma quel che diceva Jacobitti confermava quello che era già più di un mio semplice sospetto. La Professoressa Falcone, che avrebbe dovuto insegnare a noi l’algebra, non sapeva spiegare uno dei suoi punti più elementari! E per questo aveva fatto quella faccia feroce! Per evitare ch’io insistessi sull’argomento.

Ex post, capisco che in quel momento – avevo undici o dodici anni – mi caddero letteralmente le braccia. E capisco perché, da allora in poi, ho sempre guardato con un po’ di sfiducia a quei professori “severissimi”, o “terribili”, che trattano male gli studenti, e tendono a tenerli a distanza. Non è tra loro e gli studenti che tentano di mettere un fossato; ma tra loro e le domande con gli studenti più intellettualmente curiosi, potrebbero metterli in imbarazzo.

Questo spiegava poi anche perché i miei genitori non avessero – almeno in apparenza – dato nessuna importanza a quell’episodio, pur rendendosi conto che ne ero stato molto traumatizzato. Avevano ovviamente capito tutto, ma non volevano farmi perdere la fiducia nella scuola e negli studi. Ma non avevano fatto i conti col perfido Jacobitti, che nella sua nord-italica freddezza aveva messo rapidamente a fuoco il nocciolo della questione.

Solo per me, senza parlarne a nessuno, tenni invece quello che era stato il trauma più forte: il fatto che, tranne Pantanella e Jacobitti, cioè i due che, assieme a me, sedevano nei primi banchi – che non erano i banchi degli studenti migliori, ma semplicemente di quelli più piccoli di statura o di età – tutta la classe fosse scoppiata a ridere quando mio ero offerto di spiegare perché , in algebra, due meno consecutivi facessero più. Non certo è piacevole per un bambino di poco più di undici anni che tutta la classe rida di lui. Forse per un eccesso di timidezza,  trovarmi in quella situazione mi mise in un terribile imbarazzo.

Credo che questa sia la stessa sensazione che si ha quando si viene bullizzati. Ma non per questo serbo qualche rancore alla professoressa Falcone. Anzi, sotto un certo aspetto, credo di aver ragione di esserle grato. Se fosse stata veramente arrabbiata con me, e se avesse voluto mettermi in imbarazzo – ma questo lo pensai solo più tardi, dopo che Jacobitti era tornato alla carica sull’argomento – quel che avrebbe dovuto fare era di invitarmi a  presentare la mia spiegazione davanti a tutta la classe.  E,  qualora mi fossi impappinato, o avessi detto delle cose senza senso,  a farmi fare una memorabile figuraccia, tanto va farmi smettere, per il resto della mia vita, di essere così intraprendente.

Oppure, se avessi detto qualcosa di un po’ meno che stupido, per premiare il mio tentativo di capire l’algebra con la mia testa.  E  magari far venire anche ai miei compagni di scuola la voglia di farlo.

Giuseppe Sacco