Marciare per la Pace o contro la guerra? – di Umberto Baldocchi

Marciare per la Pace o contro la guerra? – di Umberto Baldocchi

Il pacifismo dai “capelli bianchi”, ovvero la pura contestazione della guerra

Il “pacifismo” che si è affermato storicamente in Italia, a partire dagli anni sessanta del XX secolo, è stato soprattutto una contestazione della guerra, o, a dir meglio, soprattutto una contestazione che mirava ad eliminare le premesse, reali o presunte, di essa ( il militarismo, il nazionalismo, il capitalismo, l’imperialismo ecc.),  più  che una lotta per costruire la pace.

Era un pacifismo strumentale che non implicava il “ripudio” della guerra in sé e per sé.  La pace, in questa modalità,  non era mai infatti il fine prioritario o supremo dell’azione politica, ma soltanto la condizione che doveva inevitabilmente ( così si pensava) scaturire dalla rimozione della specifica causa che la singola ideologia riteneva di dover combattere ( il capitalismo, il militarismo, la presenza di sistemi imperiali ed autoritari ecc,)

Per questo motivo si contestavano alcune guerre, non la guerra in sé. Così chi protestava contro la guerra in Vietnam non si schierava contro ogni tipo di guerra, non ovviamente  contro la guerra di “resistenza” dei vietnamiti, ma contestava la guerra degli Americani, i bombardamenti americani su Hanoi, le bombe al napalm, le stragi di donne e bambini, come quella di My Lai, immortalata da una celebre foto. Si trattava soprattutto  di fermare i meccanismi che “producevano” la guerra, come l’industria bellica e lo sfruttamento economico del Terzo Mondo. La “rivoluzione” mitizzata non era invece incompatibile con la “guerra”, anzi guerra e rivoluzione erano, entro una ideologia deterministica e semplificante, legate tra loro: o la rivoluzione impediva  la guerra o la guerra causava la rivoluzione.

Forse, a livello di cultura di massa,  l’unica opposizione totale alla guerra era quella che si trovava nella protesta individual-libertaria, “Fate l’amore non la guerra”, o nelle canzoni di Bob Dylan, di John Lennon, o, in Italia, di Fabrizio De André. Una opposizione però individualistica e  priva di mordente politico.

Per dire la verità   negli anni sessanta, in Italia,  non c’ era solo questo. Vi erano anche elementi di una teoria pacifista sistematicamente ignorati ed isolati dalla cultura  politica  ufficiale , è il caso del pensiero di Aldo Capitini, una figura “profetica”, di autodidatta solitario, poi  filosofo, antifascista,   in contatto coi vertici della cultura italiana, promotore dell’obiezione di coscienza al servizio militare. E’ a lui che si deve nel 1961 l’ idea della Marcia per la Pace e la fratellanza dei  popoli Perugia-Assisi. Era un “pacifismo” molto diverso, ma allora decisamente marginale, un pacifismo vicino al “ripudio” della guerra della nostra Costituzione.

Vi erano però anche fermenti di rinnovamento culturale che provenivano dall’interno della Chiesa cattolica che nel 1962 apriva il Concilio Vaticano II. Nel 1965 compariva la Lettera ai cappellani militari di Don Lorenzo Milani, documento essenziale esempio di un “pacifismo” che si  collegava alla cultura della pace di cui è profondamente imbevuta la nostra Costituzione.

Nel complesso però in Italia il pacifismo era una lotta contro la guerra in nome della democrazia e dell’antiautoritarismo, e, ovviamente, del socialismo, che considerava una struttura socio-economica come ( unica) causa di guerra. Un pacifismo dunque, collegato alla cultura diffusa, ma anche agilmente strumentalizzabile, che poteva benissimo esser utilizzato per obiettivi diversi da quello del contrasto alla guerra. Un caso estremo, ma significativo, era stato quello del “pacifismo” comunista degli anni cinquanta: in nome della “pace” o dei “partigiani della pace”  la vecchia URSS stalinista contrastava i progetti europeisti e le scelte democratiche dei paesi occidentali.

Una nuova guerra mondiale pareva, allora, un’assurdità, data la presenza dell’arma nucleare nelle mani delle due superpotenze che si fronteggiavano ( e si bilanciavano). La guerra mondiale si pensava che non potesse essere  che nucleare e, per questo, essa era esclusa dalle probabilità, parendo estranea ad ogni umana ragione anche a chi non aveva letto la Pacem in Terris.

Quel pacifismo si è poi riattivato in occasione dei nuovi conflitti del XXI secolo.  Oggi, dal 2022 in poi, è agevole notare che chi manifesta ha in genere, quasi sempre, i capelli bianchi. E’, in molti casi,  una persona che si è politicamente formata in quel  pacifismo degli anni sessanta, prolungatosi sino agli anni ’80 quando la protesta pacifista si rivolgeva alla dislocazione europea dei missili Pershing e Cruise in Europa.

Colpisce il fatto che le  nuove generazioni, ma anche coloro che non hanno passato il mezzo secolo di vita, siano assenti da questi movimenti. Eppure le nuove generazioni reagiscono diversamente ai problemi ecologici e del degrado ambientale, come mostrano i casi di interventi generosi nelle ricorrenti calamità naturali  che affliggono la penisola italiana.

Perché questa assenza giovanile entro un movimento che dovrebbe interessare chi ha più futuro davanti a sé ? Le generazioni più recenti hanno acquisito tramite la “cultura mediatica”-  e forse anche quella scolastica- una sorta di disillusione preventiva verso l’ideale della pace. Hanno sperimentato la compatibilità piena tra la democrazia e la guerra ( le “esportazioni di democrazia”, sia pur fallimentari) hanno conosciuto, da lontano, solo da molto lontano, la cosiddetta “guerra umanitaria”, hanno sperimentato la globalizzazione della competizione universale, hanno iniziato a considerare la guerra un evento “naturale”, connesso alla “natura umana”, certo terribile, ma talvolta inevitabile. Non credono più, come i vecchi pacifisti, che essa sia legata a quelle cause che i loro padri  volevano rimuovere.

Il pacifismo del “nuovo ordine mondiale”

Giovani rassegnati alla guerra, dunque? Non proprio.  Per  la verità, vi è stato anche un altro pacifismo, che aveva visto una forte partecipazione giovanile, quello nato dopo il 1990, dopo il crollo del comunismo,   e rappresentato soprattutto dalle bandiere multicolori, che ancora qualche anno fa si potevano vedere, benché un po’ afflosciate e sbiadite, penzolare stancamente da finestre e davanzali.

Dopo il 1989 ed il crollo europeo del comunismo, il bipolarismo, che aveva prodotto quell’equilibrio delle armi che, paradossalmente, ma insensibilmente, aveva “lavorato” per i “pacifisti”,  tenendo in piedi e favorendo la “pace”, certo una pace fondata sulla diffidenza reciproca, più che sulla fiducia e sulla cooperazione, la guerra iniziò poco alla volta  ad avere una sua “rivincita” nella cultura di massa. La guerra del petrolio del 1990 tra Iraq e Kuwait riaprì la strada ad una guerra “santificata”, questa volta dalla disastrosa “benedizione” dell’ONU e dall’indebolimento delle opposizioni politiche alla guerra. La guerra, una volta riconosciuta dall’ ONU, non era più “fuorilegge”. Solo le parole, forti ma inascoltate, di Papa Giovanni Paolo II rompevano l’accordo generale ed il consenso incontestato e diffuso alla guerra. Quelle parole non furono però ascoltate, né lette con attenzione, né  furono comprese sino in fondo.

Una opposizione alla guerra in effetti era rinata, coinvolgendo anche i giovani. Ma in una forma debolissima, presto destinata ad evaporare.   Se non si trattava più di eliminare con azioni politiche le radici della guerra- come pensava il “vecchio” pacifismo- , dato che queste radici si erano moltiplicate e la guerra pareva ormai un evento terribile ma “naturale” ( come una pandemia) in nome di cosa ci si poteva pensare che avesse senso protestare contro la guerra ?   Non rimaneva che fare appello ad una forza astratta- la “immaginaria forza mistica dell’economia” ( Definizione estratta dal Radiomessaggio natalizio di Papa Pio XII del 1954). La forza “pacificatrice” dell’economia creò allora una grande illusione, subito accettata da tutti, da Destra e Sinistra, quella della “fine della storia” ( Francis Fukujama) cioè l’avvento  del  riconoscimento comune  di un unico obiettivo umano e la fine delle egemonie ideologiche.

Il trionfo del modello occidentale liberaldemocratico si ammantava ora del mito di un “nuovo ordine mondiale”, quasi la sparizione dell’avversario ad oriente bastasse per far sorgere un nuovo sistema di relazioni internazionali che assicurasse la pace.    Erano gli anni dell’ Europa di Maastricht, dell ‘ “incanto europeo”  e del trionfo della globalizzazione ( “globale” è bello sempre e comunque!), gli anni in cui si credeva davvero che la pace e il libero scambio fossero una sola e medesima causa, come aveva dichiarato Richard Cobden nel lontano 1842 !

La libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone avrebbe creato il mondo arcobaleno, ben rappresentato nella bandiera multicolore e nell’ arcobaleno della pace. L’economia di mercato, in aggiunta a questo,  ora esercitava, il suo fascino, non solo su chi aveva già convinzioni liberali o liberiste, ma persino sulla sinistra ex marxista, che ha sempre creduto nella capacità apparentemente illimitata dell’economia di produrre una quantità sempre crescente di beni economici, se solo ben guidata e ben organizzata. Perché stupirsi della conversione di tanti ex-marxisti al “verbo neo-liberista”? Perché stupirsi delle metamorfosi del PCI nel PD neoliberista, che convertiva la lotta per la difesa della classe operaia in quella per la difesa del consumatore con le note “lenzuolate” di provvedimenti di liberalizzazione?

Fu una pericolosa illusione questo nuovo pacifismo, una illusione ben presto destinata a svanire poi con la pandemia. E mentre si celebrava l’apertura liberista di Maastricht non ci si accorgeva nemmeno che la guerra era tornata nel 1991 nel cuore dell’ Europa, nella ex Jugoslavia  ( una Europa, quella balcanica, che allora non era considerata Europa e quindi poteva apparire lontana anni luce da noi).

 La crisi dei due pacifismi

Movimenti giovanili contro la guerra vi furono ancora  all’inizio  del XXI secolo, contro una guerra ancora lontana dall’ Italia ( ad esempio la seconda guerra del Golfo, 2003). Ma la protesta si era affievolita tanto più in quanto l’ Italia stessa era stata coinvolta in iniziative belliche, quali la guerra del Kosovo 1998/99, mentre si era sviluppata la retorica delle “guerre umanitarie”, secondo la quale, come nel mondo orwelliano, la “pace” poteva anche essere “guerra”.

La cultura di questo secondo pacifismo era decisamente ancor più impotente della prima. Non è ormai la guerra, come la pandemia, una delle dure realtà con cui bisogna imparare a convivere nel mondo globale, in cui nessuna muraglia ci protegge dai virus e dalle aggressioni ?

Oggi, di fronte all’aggressione russa all’ Ucraina e ad una guerra che non pare finire, non ha più senso riproporre gli obiettivo o i miti di quei due pacifismi.  Ha senso invece  manifestare per  costruire la pace. La guerra o il pericolo di guerra si può combattere solo costruendo pazientemente la pace. Qualcosa che i due pacifismi hanno sempre ignorato.

 Contestare la guerra non è costruire la pace

Essere per la PACE non equivale ad essere CONTRO LA GUERRA, e neppure ad essere CONTRO TUTTE LE GUERRE ( escluse quelle difensive ovviamente). Non dobbiamo cessare un attimo  di imprimerci bene in mente questo concetto. Essere per la PACE è molto di più.

La PACE ( vera), quella definita da un contenuto positivo, non da una assenza di guerra,  non è una  condizione , tanto meno una condizione precaria, liquida, sospesa alle percezioni diffuse, al timore,   al calcolo, alla competizione, che non rimuove l’ostilità che conduce alla  guerra, e che avvertiamo come condizione esistenziale di fondo della società umana.  La “pace”, nella accezione positiva del termine, una accezione ignorata, in generale, dall’antichità, e riscoperta o “inventata” dalla modernità, operando sul patrimonio del pensiero ebraico-.cristiano, in realtà, non designa una situazione o una condizione, ma un ordine di relazioni convergenti verso uno scopo comune.  La pace è “ordinata concordia” ( Agostino, De Civitate Dei), accordo delle intelligenze e delle volontà, sublimazione di quella capacità di dialogo che chiamiamo “politica” e che si fonda sulla capacità di confrontare e mettere insieme idee e interessi differenti.  Quella che Aldo Capitini definiva “fratellanza dei popoli” e che egli assegnava come contenuto alla Marcia della Pace.

Potremmo dire forse che la “pace” è la continuazione della “politica”vera, entro i rapporti internazionali, rovesciando l’asserzione di Von Klausewitz. Certo questa asserzione può parere astratta utopia o banale irenismo, se partiamo dall’idea di un sistema delle relazioni internazionali costruito unicamente su rapporti di forza, come fa la cosiddetta Realpolitik.

Certo l’epoca moderna ha configurato il mondo delle relazioni internazionali come un “regno della forza” dotato di sue proprie leggi, costituente un mondo a sé, ben distinto dal mondo dei valori morali, Un mondo segnato dal principio di necessità, intesa come inevitabilità. La guerra pare una sorta di “costituzione invisibile” alla base  del sistema delle relazioni internazionali.

Ma non sempre è così o è stato così. L’ Europa del XX secolo nonostante  le sue grandi tragedie e i due conflitti mondiali, ci ha mostrato anche un mondo che non è il puro regno della forza.  Ci ha mostrato, ad esempio, che si può anche organizzare l’economia per costruire una pace vera e duratura.  L’ Europa del 1945 aveva alle spalle vicende terribili originate dalle chiusure autarchiche e dalle aggressioni nazionalistiche oltre che dai totalitarismi  ideologici . Tra l’economia e la guerra si era aperto un circolo vizioso che non si riusciva a spezzare, l’una preparava sempre l’altra e viceversa.

Eppure persone lontane dal fatalismo e dal determinismo di chi vede il futuro come campo d’azione dominato in esclusiva dai remoti e misteriosi poteri globali e supernazionali, riuscirono ad essere i pionieri  dell’innovazione che assicurò all’ Europa quaranta anni di pace vera. Riorganizzando l’economia per costruire la pace.

Separare l’economia dalla guerra, il fine originario della costruzione europea

Gli uomini che inventarono la CECA, Schuman e Monnet prima di tutti, capirono che il carbone e l’acciaio del bacino franco-tedesco, la chiave della potenza economica e la posta in palio dei conflitti mondiali, potevano divenire la chiave della pace, se si costruiva una Autorità internazionale capace di organizzare la gestione di quelle risorse strategiche nell’interesse di tutti gli Stati confinanti e di quelli che volessero prender parte all’impresa.  Così Jean Monnet  chiarisce la questione:

“La ricchezza congiunta era prima di tutto quella del carbone e dell’acciaio, di cui la Francia e la Germania si spartivano in modo disuguale, ma complementare, i bacini naturali situati in un triangolo geografico che le frontiere storiche tagliavano artificialmente. Queste frontiere tracciate dal caso erano diventate, nell’era industriale – la cui nascita coincise con quella delle dottrine nazionalistiche – prima ostacoli agli scambi, poi addirittura linee di scontro. I due popoli cominciarono a sentire di non essere più al sicuro se non possedevano ciascuno in proprio, le risorse complete, vale a dire l’intero territorio. Si poneva fine alle rivalità con la guerra, che risolveva il problema solo temporaneamente: il tempo di preparare la rivincita. Infatti il carbone e l’acciaio erano la chiave allo stesso tempo della potenza economica e dell’arsenale dove si forgiavano le armi belliche”. Jean Monnet, Cittadino d’Europa – 75 anni di storia mondiale, Rusconi, Milano 1978 (ediz. orig.: Mémoires, Fayard, Paris 1976), pp.  220)

Si trattava di ribaltare il rapporto di fusione tra economia e guerra, per riorganizzare l’economia in funzione della pace. Il carbone e l’acciaio, motivo di conflittualità e ostilità,  potevano divenire fonte di pace.  Monnet e Schuman avevano semplicemente capito che gli interessi economici- a differenza di quanto è diffuso nel senso comune- non sono né fini in sé, né determinanti assolute dell’evoluzione storica. Essi sono piuttosto mezzi e strumenti, la cui influenza dipende dalle finalità generali che li guidano. Qui si poteva trovare una delle chiavi per costruire la pace.

Oggi siamo purtroppo di fronte  a scelte lontane da questa, se non opposte a questa, detto semplicemente, siamo forse di fronte al rischio del ribaltamento  dei valori europeistici.

La guerra di difesa dell’ Ucraina contro la Russia è diventata una guerra “ibrida”, che si combatte cioè con modalità e strumenti variegati, non solo con le tipiche attività militari, ma con modalità ad esempio, della sanzione economica comminata non da una autorità superiore, ma dalle singole parti in conflitto tra loro: le forniture di energia o quelle di grano, o il loro prezzo,  diventano una formidabile arma usata cinicamente.  E questo ha di nuovo posto il problema del legame che l’ istituzione della CECA mirava a spezzare, quello tra economia e guerra. La promozione della produzione di armi, che, come noto, non ha conosciuto e non conosce crisi o recessioni, neppure in momenti di pandemia, finisce così per presentarsi come uno strumento di resilienza e rafforzamento, al pari delle misure di inclusione sociale, di transizione ecologica e di tutela della salute collettiva. La promozione della industria della difesa dunque diviene  normalità. La tutela del futuro si deve identificare col rafforzamento della difesa armata dell’ Europa, cioè col rilancio della corsa agli armamenti? E’ questa una scelta compatibile con la promozione della pace scritta all’art. 3 del Trattato UE ?

La risoluzione dell’ Europarlamento di questo maggio 2023 ha stanziato  con l’  ASAP (Act in suppprt of ammunition production ,as soon as possible)     500 milioni di euro per la difesa, e la Commissione per bocca del Commissario Thierry Breyton ha candidamente affermato  che gli Stati membri che lo desiderano, possono addirittura utilizzare i fondi di coesione e il Recovery Fund”, istituiti con ben altre finalità,  per finanziare l’industria bellica. Sulla base della constatazione del medesimo Commissario che   “Durante le mie visite ai siti produttivi europei, ho avuto modo di constatare, in particolare e soprattutto in alcuni Paesi, dell’Est Europa ma non solo, che molti di questi stabilimenti in passato sono stati il fulcro di un importante tessuto economico”.

Ma se  l’economia  si confonde con la guerra , la decisione politica suprema è sottratta alla politica ed alla decisione parlamentare. La pace e la guerra potrebbero essere ridotte a questioni di convenienza economica. Certo un riarmo progressivo dell’ Europa potrebbe  anche servire ad assicurare la pace. Ma dobbiamo allora tornare sulla questione: quale tipo di pace? La pace che è l’obiettivo di una moderna cultura della pace e di un solido pacifismo o altro tipo di pace?

Una pace come  condizione precaria, liquida, sospesa alle percezioni diffuse, al timore,   al calcolo, alla competizione, che non comporta vincoli e che non rimuove l’ostilità che alla guerra, che mira alla fragile e precaria “coesistenza”?  O una pace intesa come concordia ordinata , come pace in senso coerente  e profondo, e , diciamolo chiaramente, come “fratellanza dei popoli”? .

La pace, la giustizia e la  “Ir-realpolitik” dell’ UE

Si parla a proposito dell’ Ucraina, di una PACE GIUSTA, necessaria per porre fine alla guerra . Ma perché sentiamo il bisogno di usare l’aggettivo “giusta” accanto al termine “pace”? Può evidentemente esserci una guerra ingiusta, ma può esistere anche una pace- non ovviamente un trattato di pace, che può certo essere un Diktat-  non giusta?  Quando si parla di “giustizia”, è opportuno fare attenzione, perché il termine “giusto” assume sensi molto diversi se riferito a contesti diversi.

Se noi pensiamo alla PACE come una condizione definita solo in negativo, come fine o cessazione della guerra, non c’è dubbio che dobbiamo qualificarla con un aggettivo. E l’aggettivo, in questo caso, non può che legarsi ad una idea retributiva di giustizia. Il male chiama il male, il delitto merita una pena equivalente, come il bene merita un premio.  L’aggressione folle di Putin all’ Ucraina è, ovviamente, in un certo senso, un delitto, ci troviamo di fronte a un delitto che certo deve essere punito. Se non c’è punizione dell’aggressore non potrebbe esserci “pace giusta”.

Così è nel modo comune di pensare e così credo che il termine sia stato usato da parte delle autorità politiche e da parte dei media. E’ una visione apparentemente logica, ma, anche se pare paradossale,  scorretta e fuorviante nel contesto di riferimento.  Anzi, disastrosa.  Il cittadino comune pensa sempre le relazioni internazionali attraverso l’ “analogia nazionale”, attraverso un ragionamento di tipo analogico che configura, assimilando impropriamente ordine civile e ordine internazionale, l’aggressione come l’equivalente della rapina a mano armata o dell’omicidio e la difesa dell’indipendenza come la difesa della libertà personale.

E qui sta il problema. L’aggressione di uno Stato ad un altro costituisce una minaccia molto più pericolosa del crimine entro la società civile, semplicemente perché non esiste una autorità di polizia internazionale capace di ristabilire l’ordine ( e meno che mai può esserlo oggi l’ ONU ). Gli Stati della società internazionale  possono quindi contare solo su se stessi e l’uno sull’altro. I diritti dei singoli Stati devono essere riaffermati in concreto, questa è la loro unica difesa. La guerra di aggressione della Russia all’ Ucraina non coinvolge perciò  solo offensore ed offeso , coinvolge tutto il sistema degli stati europei e l’ordine internazionale, che si fonda solo sul rispetto condiviso e generale  dei diritti degli Stati, unica alternativa ad uno stato di guerra permanente che certo nessuno si può augurare.

La “pace” vera deve allora ricostituire un sistema di relazioni internazionali, non tanto punire l’aggressore, inteso come Stato formato da civili ( altra questione, che non ha a che vedere con la pace, è la punizione delle persone responsabili di crimini di guerra, ma è noto che il processo di Norimberga fu una cosa e il trattato con la Germania un’altra cosa).

L’attacco della Russia all’ Ucraina, pur rimanendo una aggressione criminale, si configura più come una faida o come una incursione feudale, ed una eventuale “punizione della Russia” potrebbe solo diffondere, invece che fermare la violenza. Abbiamo l’ esempio dei terribili effetti dilazionati nel tempo di una “pace” punitiva imposta allo stato sconfitto e ritenuto responsabile, la Germania dopo la grande guerra. Non dimentichiamo perché e come il nazionalsocialismo, anche se guidato da un folle,  ha potuto conquistare il governo del Paese e scatenare un conflitto mondiale.

Come si è osservato “ uno Stato nemico, come un clan aristocratico , e diversamente da un comune criminale , non può essere del tutto privato della capacità di riprendere la propria attività  se non ricorrendo alle misure più severe e straordinarie- quali sterminio, esilio, smembramento politico. Tali misure però non possono mai essere difese , e così gli stati nemici vanno trattati, moralmente come pure strategicamente, alla stregua di futuri partner di un qualche ordine internazionale” ( Michel Walzer, Guerre giuste e ingiuste- Un discorso morale con esemplificazioni storiche, Liguori, Napoli, 1990, p. 162).     Esattamente come si è fatto nel 1945  rinunciando a punire la Germania, pur responsabile dei più grandi stermini di civili inermi conosciuti dalla storia. Evitando di ripetere la pace disastrosa del 1919.

Una trattato di pace giusto nel senso di  “punitivo”- un tempo si parlava di debellatio del nemico sconfitto oggi si parla, ma senza differenza,  di un depotenziamento dello stato russo aggressore-  non potrà dunque mai aprire la strada ad una pace vera. La pace “vera” non ha bisogno di essere definita “giusta”,  perché essa contiene  in sé  l’essenza della giustizia, essendo essa un frutto della giustizia. Come potrebbe esserci armonia e concordia di intelligenze laddove non è dato a ciascuno il suo?  Pace e giustizia forse non hanno nemmeno bisogno di parlarsi: nella prima è già contenuta la seconda, se la prima è intesa nel senso profondo e nuovo del temine, quello introdotto dalla cultura ebraico-cristiana e fatto proprio dalla cultura europea, a partire dall’ Illuminismo e da Kant.      E’ bene ricordare questo ai vecchi e nuovi sostenitori di inevitabili e semplificanti Realpolitik, oggi miserevoli Ir-realopolitik,  che vedono solo e sempre  il ruolo della forza nelle relazioni internazionali.

Bisogna poi ricordare che mentre la guerra affonda le sue radici nella notte dei tempi, nelle origini della società umana, la pace  è una invenzione moderna, illuministica e post-illuministica.   Questa pace che mira ad essere “concordia ordinata” che si fonda si una organizzazione ed una costruzione messa a terra dagli sforzi degli uomini  ha sempre bisogno del “terzo” tra le due parti in conflitto- bisogna che tutti se ne facciano una ragione, serenamente e pacatamente-   cioè della “mediazione”, non perché i due contendenti debbano essere piegati da un terzo alla ragionevolezza, ma perché tutto quanto il sistema delle relazioni  internazionali nel suo complesso  è stato ferito, o almeno è stato messo in pericolo ( tanto più se un contendente ricorre ad armi nucleari o ad armi con uranio, i danni dei quali non sono circoscrivibili entro le frontiere statali)  – si potrebbe creare un “precedente” se fosse la forza delle armi a risolvere una questione di convivenza etnica nel cuore d’ Europa- ed è interesse di tutti ripristinarlo garantendo il diritto alla sicurezza di tutti gli Stati. Lo ha sostenuto con grande chiarezza Mauro Magatti.

“Lo spazio della terzietà  [serve ad]  accompagnare le parti a ristabilire una dinamica di riconoscimento reciproco che permetta, un passo per volta, di fermare le ostilità e avvicinarsi alle esigenze della giustizia. Ciò può avvenire quando il terzo è capace di andare oltre le due parti prese singolarmente, pur coinvolgendole entrambe”. ( Mauro Magatti, Il terzo necessario, Avvenire 14 maggio 2023). Ecco cosa significa giustizia entro la pace. Ecco quale è davvero la PACE GIUSTA.

L’uomo comune e la “riscoperta” della  pace

Qui, nella difesa di questa idea moderna e ignorata della pace, diventa essenziale il ruolo dei cittadini, degli uomini comuni, di quelli che marciano per la pace, un ruolo che è quello di aiutare e promuovere non una semplice lotta alla guerra o anche a tutte le guerre, ma  una cultura della pace vera che si connoti in positivo ed abbia perciò una qualche influenza su coloro che prendono in alto le decisioni.

Vincere la forza, apparentemente senza limiti delle armi moderne, con la forza serena e potente – cioè “dotata di potere”-  se convincente, della ragione e del confronto coraggioso è ancora possibile, prima del disastro.  Deve però finire la latitanza della società civile e le persone devono assumere il compito di prender coscienza del senso di responsabilità che è necessario assumere  per recuperare l’ idea europea ed  umanistica di potere.

La guerra e la pace non sono dimensioni in cui solo i vertici della politica e degli Stati possono dire la parola decisiva.  Nel medio periodo lo stato d’animo e le idee delle persone comuni hanno un peso che finisce per condizionare il potere più arrogante.  L’ idea umanistica ed europea del potere può affermarsi però solo se essa vince in ciascuno di noi, se vince nelle nostre coscienze, se comprendiamo che la vittoria della pace ( l’unica vittoria che conta) dipende da ciascuno di noi.

“Vincere il male col bene” dentro di noi significa vincere l’ indifferenza, la banalità, la rassegnazione al peggio, il senso del disastro inevitabile diffuso a piene mani dai “media” ,con l’intelligenza e col coraggio. Ri-edificare l’ Europa e ri-costruire l’ europeismo vero, contro ogni vecchio e nuovo nazionalismo, fosse anche un nazionalismo europeo, a partire dall’idea, realistica e umana, al tempo stesso, della PACE, è il compito dei “marciatori” e dei “pacifisti” veri. La PACE non tanto come bene da “promuovere” magari sul piano stesso del  “benessere” ( Art. 3 Nuovo Trattato Europeo), ma come un bene da “mantenere” e da “servire” ( Dichiarazione Shuman 1950) vale a dire come unica e suprema  finalità dell’azione politica europea ( magari da scrivere nei Trattati), cui ogni altro fine va subordinato.

Umberto Baldocchi