Gli “europei” tra atomo e carbone – di Giuseppe Sacco

Gli “europei” tra atomo e carbone – di Giuseppe Sacco

Lo spegnimento definitivo, all’inizio di questo freddo mese di Aprile 2023 – in nome delle esigenze ambientali, e dopo anni di polemiche – delle ultime tre centrali elettronucleari ancora attive ha segnato in Germania la fine di un’epoca. Ed un più che significativo successo del movimento anti-nucleare. Nonché, ex post, della Cancelliera Angela Merkel, che il disastro di Fukushima aveva reso consapevole dei rischi e della fragilità del nucleare al punto da spingerla a deciderne unilateralmente, per quanto riguardava la Germania, la condanna a morte. Una condanna il cui lungo e complesso processo ella avviò senza neanche pensare di informarne i cosiddetti “partner” europei. Alcuni dei quali (tranne, felicemente, la maggioranza degli Italiani) sostenevano che la fissione nucleare potesse essere considerata una delle fonti di energia “pulita” –  come l’eolico, o l’idroelettrico. o il solare – con cui sostituire i combustibili fossili, che stanno rendendo non più abitabile il pianeta.

Fuoco incrociato sullo spegnimento

L’ultimo atto del processo avviato da Angela Merkel si è dunque compiuto. Ma non per questo le polemiche si sono placate. Da un lato, il Ministro del clima dell’attuale governo (a guida socialdemocratica) Robert Habeck, che appartiene al Partito dei Verdi, si è felicitato dell’adempimento, di cui il carattere controproducente delle sanzioni imposte alla Russia, ma ritortesi ai danni dei membri europei della Nato, avevano fatto dubitare fino all’ultimo. E lo ha fatto – il socialdemocratico Habeck – con comprensibile entusiasmo, dato che al momento in cui le sanzioni avevano obbligato la Germania a valutare tutte le possibili alternative al gas russo, lui e il suo partito erano già stati costretti ad mandar giù l’amaro boccone di un piccolo ma allarmante rinvio della chiusura di questi ultimi tre impianti, prevista per la fine del 2022.

 Robert Habeck ha anche rinnovato la garanzia fornita dal governo di Berlino ai cittadini della Repubblica Federale: la garanzia che lo spegnimento degli ultimi tre impianti rimanenti non influirà sulla sicurezza energetica, anche se in loro assenza verrà a mancare tra il il 4 e il 6 percento dell’energia fornita al paese nel 2022. Un quantitativo non trascurabile, che verrà provvisoriamente sostituito, nell’attesa della “vera e totale” de-carbonizzazione, con un maggior quantitativo proprio di carbon fossile. Facendo cioè ricorso – per far fronte ad una necessità immediata – proprio al “nemico” che, a lungo termine, si vuole eliminare.

Ma dall’altra sponda politica, quella dell’opposizione politica e degli interessi della produzione di elettricità di origine nucleare, l’animazione non è mancata. La scadenza dello spegnimento è stata polemicamente definita “un giorno nero per la protezione del clima in Germania”. Parole particolarmente minacciose, dato che erano state pronunciate da Jens Spahn, vice capogruppo parlamentare della CDU, il partito democristiano oggi all’opposizione, ma anche il partito della MerKel.

Ed anche tra i liberal-Democratici della FDP, che pure fa parte della coalizione di governo, il numero due a livello nazionale, Wolfgang Kubicki, affermava che “la chiusura delle centrali nucleari più moderne e sicure del mondo in Germania è un errore drammatico che avrà conseguenze economiche ed ecologiche dolorose”, mentre altri esponenti chiedevano di lasciare gli impianti in stand-by.

Il risultato di tutto questo chiasso di polemiche è stato però che non è stato mai toccano il punto decisivo, che evidentemente nessuna delle due parti ha interesse a mettere in luce. E che dipende da quella che è la vera differenza tra le due opzioni possibili tra le quali i tedeschi dovevano scegliere per far fronte alle conseguenze delle sanzioni imposte alla Russia.

La prima opzione era quella di rinviare la chiusura del nucleare fino a quando non fossero stati creati abbastanza impianti per la produzione elettrica in maniera rinnovabile di tutta l’elettricità di cui la Germania ha bisogno per le sue fabbriche e le sue famiglie (accettando cosi i rischi connessi ed i residui radioattivi conseguenti). La seconda quella di tornare provvisoriamente ai combustibili fossili per coprire questo gap temporale. E tra queste due i Tedeschi hanno finito per preferire gli aspetti immediatamente negativi dei combustibili fossili a quelli – negativi a lungo termine – del nucleare.

Un passo indietro, due passi avanti

E in che consiste questa differenza? Essa consiste nel fatto che i gas carbonici rilasciati daila produzione di energia elettrica con combustibili fossili vanno ad aggiungersi all’insieme dei gas serra che circondano tutto il pianeta. Mentre i rischi collegati all’uso di sostanze radioattive per la produzione di elettricità interessano in maniera estremamente preponderante i territori immediatamente adiacenti gli impianti, e la popolazione che su tali territori vive, con effetti che si attenuano rapidamente quando ci si allontana dalla centrale atomica.

Ed analogamente si pone, dal punto di vista territoriale, il gravissimo problema creato dalla necessità di disporre in qualche modo dei residui radioattivi delle centrali atomiche; problema che è inevitabilmente di competenza dello Stato in cui si trova l’impianto. In altri termini, Il danno ed i rischi collegati produzione di energia con combustibili fossili possono essere globalizzatati a livello dell’intero pianeta, mentre quelli collegati alla produzione di energia con impianti atomici sono prevalentemente se non quasi esclusivamente da gestire e sopportare a livello nazionale. Dal punto di vista tedesco, la scelta per più carbone è dunque più o meno razionale.

Si potrà naturalmente osservare che Parigi, una capitale europea in cui pure l’interesse nazionale viene preso in considerazione in maniera sistematica, ha fatto la scelta opposta. La Francia ha infatti costruito sul proprio territorio poco meno di una sessantina di impianti di produzione elettrica a carattere atomico (un po’ meno di uno per ogni milione di abitanti!), ed ospita all’interno dei propri confini un impianto in cui si sperimenta la fusione termonucleare controllata.

Accettando i rischi connessi a questo impianto sperimentale (che però non dovrebbe produrre residui radioattivi in misura molto significativa), la Francia ha accettato di esporsi a tutti i rischi connessi, trascurando, a differenza dei Tedeschi ed almeno in apparenza, l’interesse nazionale, dato che si tratta di un progetto cui partecipano i principali paesi nel mondo occidentale ed il cui obiettivo è quello di mettere a punto la tecnologia che sarà necessaria  per creare delle centrali di produzione elettrica non più con il processo della fissione nucleare, cioè quello della bomba atomica, bensì con  il processo della fusione termonucleare, cioè quello della bomba all’idrogeno.

Questo apparente paradosso si spiega con il fatto che in Francia, il concetto di “interesse viene interpretato anche nel senso della potenza militare, e quindi nel possesso, da parte francese delle tecnologie e delle armi atomiche e nucleari.  Ed è infatti notorio che la ricerca condotta a fini civili, cioè per la produzione elettrica a base atomica sia in Francia pressoché indistinguibile dalla ricerca condotta a fini militari, per consentire al paese un armamento nucleare finalizzato a scoraggiare un attacco di tipo non convenzionale anche la parte di potenze molto più forti della Francia stessa.

L’interesse nazionale viene dunque percepito in maniera diversa da Tedeschi e Francesi, anche perché dopo il secondo conflitto mondiale, i Trattati di pace avevano imposto alla Germania la rinuncia alle armi atomiche, chimiche e biologiche; e ciò, mentre la Francia poté ovviamente proseguire nella ricerca in campo atomico già avviata negli anni immediatamente precedenti la guerra.

Logica planetaria e logica nazionale

Francia e Germania sono i due principali soggetti politici del petit cape d’Asie, di quella piccola, ma importante, penisola che sporge dalla grande massa asiatica, e che è l’Europa continentale. Dopo la seconda guerra mondiale Francesi e Tedeschi hanno compiuto un grande sforzo non solo di pacificazione, ma anche di avvicinamento, intesa e collaborazione, sino a pretendere di costituire un “Asse” con funzioni di leadership nel Vecchio Continente. Eppure la logica dell’interesse strettamente nazionale li ha spinti a compiere, e a perpetuare ancora oggi – su questioni assolutamente decisive per il loro avvenire, come quelle della produzione di energia e sopravvivenza ambientale – scelte radicalmente differenti.

La logica puramente nazionale fa infatti apparire razionale il comportamento tanto del paese che più ha puntato sull’atomo, la Francia, quanto quello – la Germania – che più decisamente ha, dopo gli incidenti a ripetizione che hanno non poco screditato le tecnologie nucleari, optato per una rinuncia volontaria ed unilaterale alla produzione atomica di energia elettrica.

Comportamenti che appaiono però razionali, solo se visti nel quadro degli interessi esclusivamente nazionali, senza mai tenere in conto non solo un ipotetico – ed oggi un po’ appassito – interesse collettivo europeo, ma anche quello planetario. Un concetto, quest’ultimo, che appare invece sempre più e tanto più indispensabile interiorizzare, quando più grave e drammatica si profila la dimensione della sfida ambientale. E la posta che essa mette in gioco.

Giuseppe Sacco