La fuga dei cervelli e i sovranisti – di Domenico Galbiati

La fuga dei cervelli e i sovranisti – di Domenico Galbiati

Ma siamo sicuri che questo piagnisteo sulla cosiddetta “fuga dei cervelli” abbia senso? Non è forse il caso di rovesciare la frittata? Quando un’ opinione è talmente diffusa ovunque ed universalmente accettata, anche da opposte sponde politiche, gatta ci cova. Una delle due: o effettivamente si tratta di una verità incontrovertibile oppure è bene revocarla in dubbio e rifletterci per bene.

I nazional-sovranisti – che contano di piegare il sentimento dell’ Italia secondo le loro voglie ideologiche – vanno arruolando ogni argomento a sostegno di quella che chiamano “difesa dei caratteri identitari della nazione”, ovviamente intesa secondo la declinazione culturale di cui sono intrisi. Della “nazione” coltivano una concezione chiusa ed introversa, autoreferenziale, secondo una postura difensiva, come se fosse un tesoro da nascondere sotto il materasso per timore che ne siamo derubati. In fondo, parlano di identità, ma la sentono insidiata, minacciata, addirittura esposta al rischio di estinzione, perché, se pure non lo ammettono o forse addirittura non lo sanno, a tale identità ci credono poco.

Le stagioni più fulgide della storia, della cultura e della civiltà maturata al sole delle nostre terre – da Nord a Sud, anzi prima da Sud a Nord, se appena consideriamo la cronologia dei processi di civilizzazione della nostra penisola – sono esattamente quelle in cui il “genio italico” ha ispirato l’Europa intera e poi l’oltre-oceano.

E’ pur vero che non abbiamo esportato solo eccellenze. Abbiamo esportato anche la mafia ed il fascismo, eppure il bilancio è così largamente positivo da fare dell’ Italia un faro di civiltà e di umanizzazione di cui è giusto andare fieri.
In questa ottica perché non contiamo piuttosto quanti “cervelli” il nostro Paese è in grado o meno di attrarre? Non sarebbe una misura appropriata della qualità che le nostre istituzioni educative, le università, i centri più qualificati nel campo della ricerca scientifica sono in grado di esprimere? E perché non siamo orgogliosi di poter considerare tanti giovani italiani come “ambasciatori” nel mondo, verrebbe da dire – purché non si cada nella goffa retorica che il fascismo ha seminato a piene mani – di “italianità”, cioè di una concezione della vita e della storia maturata nella reciproca fecondazione tra cultura classica e visione cristiana?

E’ davvero così malmesso il nostro sistema formativo se tanti giovani scienziati italiani vengono chiamati a ricoprire ruoli apicali e di prestigio in giro per il mondo? E cosa significa se, qualunque lavoro facciano, sono talmente bene accetti da potersene andare a decine e decine di migliaia?

E’ vero che la loro creatività farebbe comodo entro i confini nazionali. Ed è altrettanto vero che lasciare il proprio Paese è un duro sacrificio, per molti addirittura una lacerazione. Eppure, se vogliamo trattenere in patria i nostri migliori “cervelli” ce li dobbiamo meritare, garantendo loro quella possibilità di sfruttare al meglio le loro potenzialità che non trovano qui, ma altrove.

Viviamo il tempo della globalizzazione, del pluralismo e delle società aperte e – se pur non è certo fuori luogo ricordare che siamo una “nazione”, cioè, in altri termini, un “popolo” che ha maturato una comune consapevolezza di valori – la concezione che ne dobbiamo avere poco o nulla ha da spartire con quella che le destra cerca di suggerire.

Domenico Galbiati